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L'abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, sia di natura patrimoniale che non

Ai prossimi congiunti della vittima di un reato spetta iure proprio il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto di cui all'articolo 1223 codice civile né quello di cui all'articolo 185 cod. penale, in quanto anche tale danno trova causa diretta ed immediata nel fatto illecito. Detto principio enunciato dalle Sezioni uniti civili della Corte di Cassazione, con sentenza n. 9556 del 2002, è stato riaffermato dalla S.C. con sentenza del 22 ottobre 2007, n. 38952.
Con la predetta pronuncia il Supremo collegio ha precisato come l'attribuzione di tale legittimazione iure proprio debba fondarsi anche e soprattutto sul riconoscimento dei "diritti della famiglia" previsto dall'articolo 29 primo comma della Costituzione, il quale riconoscimento deve essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell'ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell'individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo anche a gratificazioni e reciproci diritti. Da tale rapporto interpersonale discende che il fatto lesivo commesso in danno di un soggetto esplica i propri effetti anche nell'ambito del rapporto familiare. L'abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, il quale danno può essere di natura patrimoniale, allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati .



- Leggi la sentenza integrale -

Con sentenza del 28 settembre del 2006, la corte d’appello di Milano, in parziale riforma di quella pronunciata dal tribunale di Monza il 19 gennaio del 2005, appellata dall'imputato e dalla parte civile M. E., riduceva la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno ad euro cinquecento per ciascun genitore della vittima e ad euro cinquemila per la parte offesa; revocava la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento delle somme liquidate a titolo di risarcimento; confermava nel resto l'impugnata sentenza. In primo grado il prevenuto era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di anni uno e mesi due di reclusione, oltre alle sanzioni accessorie, quale responsabile, in concorso di circostanze attenuanti generiche e di quella della minore gravità del fatto, del reato di cui agli artt. 81 capov. e 609 bis c.p. per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, costretto, con violenza e repentinità, M. E., di anni quattordici, a compiere e subire atti sessuali consistiti, dapprima, in ambigui toccamenti vari e, da ultimo, nell'indurre la vittima a toccargli il proprio organo genitale. Fatti commessi fino al tre maggio del 2002, allorché la parte offesa si trovava sdraiata sulla poltrona dello studio dentistico del prevenuto.
Secondo la ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza impugnata, in occasione di visite odontoiatriche sulla persona della M., il prevenuto aveva sessualmente abusato della propria paziente dapprima con toccamenti ambigui, consistiti in sfioramenti del seno, nell'invito a toccargli l'addome rivolto alla paziente per farle constatare la posizione dell'appendice intestinale, nell'infilarle un dito in bocca per verificare eventuali infiammazioni del palato, e successivamente con atti espliciti costringendo la paziente a toccargli il proprio organo genitale. In quest'ultima occasione, allorché la natura sessuale del palpeggiamento era divenuta palese ed inequivocabile, la M. si era precipitosamente allontanata dallo studio senza dare al medico neppure la possibilità di completare l'intervento in atto.
Tanto premesso in fatto, la corte osservava che la deposizione della parte offesa era attendibile perché questa si era limitata a riferire quelle che inizialmente erano delle proprie percezioni (sfioramenti casuali del seno etc) per arrivare all'episodio finale del toccamento dei genitali a seguito del quale si era precipitosamente allontanata dallo studio; che siffatta precipitosa fuga, confermata anche dalla deposizione dell'amica, rendeva credibile la versione della vittima; al contrario non erano attendibili i collaboratori del sanitario allorché avevano affermato di non avere notato alcunché di sospetto, sia perché in occasione dell'ultimo episodio l'assistente dell'imputato si era momentaneamente allontanata dalla stanza e ciò poteva essere accaduto anche in passato, sia perché le porte dello studio, anche se aperte, non consentivano alcuna visuale completa sulla paziente distesa sulla poltrona, tanto più che i vari collaboratori dell'Albanese erano intenti a svolgere il proprio lavoro e non a "sbirciare" quello che faceva l'imputato, sia infine perché essi avevano interesse a scagionare l'Albanese per tutelare il buon nome dello studio dove lavoravano.
Ricorre per cassazione l'imputato sulla base di tre motivi


In diritto

Con i primi due motivi il prevenuto lamenta insufficienza di motivazione sia in ordine all'ultimo episodio che in merito ai fatti asseritamente verificatisi in precedenza. Assume che la corte territoriale, senza valutare adeguatamente tutte le doglianze mosse con i motivi di appello, aveva ritenuto attendibile la parte offesa, omettendo di indicare le ragioni per le quali i detti motivi di doglianza dovevano ritenersi inaccoglibili. In particolare aveva omesso di apprezzare la testimonianza della sua assistente, signora Bruni Monica, la quale, ancorché non presente in occasione dell'ultima seduta, aveva tuttavia assistito a tutte quelle precedenti. Contrariamente a quanto affermato dalla corte la predetta teste non aveva alcun interesse a coprire eventuali comportamenti illeciti dell'imputato perché questi era un professionista esterno che fatturava allo studio le sue prestazione professionali. L'assoluta mancanza di prove in ordine ai fatti commessi prima del 3 maggio del 2005 faceva venir meno la continuazione. Con riferimento all'episodio del 3 maggio, deduce che sussistono quanto meno delle perplessità, in quanto su alcun punti la versione della parte offesa era stata contraddetta da quella resa da altri testi: in particolare il Perelli aveva affermato che la porta dello studio era aperta mentre la M. aveva sostenuto che era chiusa; gli altri testi avevano dichiarato di non avere notato alcunché di anomalo.
Con il terzo motivo deduce mancanza assoluta di motivazione in ordine alla doglianza relativa all'inaccoglibilità della domanda di risarcimento avanzata dai genitori della vittima.
I primi due motivi sono inammissibili perché sotto l'apparente deduzione di una presunta insufficienza motivazionale si censura in realtà l'apprezzamento delle prove da parte della corte territoriale, la cui motivazione è esaustiva.
In proposito è opportuno precisare che lo stesso ricorrente non deduce mancanza o incompletezza di motivazione su punti decisivi ma semplicemente insufficienza della stessa in relazione alle questioni poste con i motivi d'appello. Al riguardo si rileva che l'articolo 606 lettera e) fa riferimento alla mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione ma non all'insufficienza della stessa, insufficienza che viene invece menzionata nell'articolo 547 c.p.p. tra le possibili cause di correzione, ma non è ricompressa per esplicita volontà del legislatore (Relazione prog prel, 133) tra i vizi del discorso giustificativo giacché essa, per la sua natura, non dovrebbe incidere sul nucleo essenziale della motivazione: invero una motivazione carente sul nucleo essenziale del discorso giustificativo dovrebbe considerasi mancante o incompleta e non semplicemente insufficiente. In ogni caso, a prescindere dall'espressione usata dal ricorrente, nella fattispecie la motivazione non può considerarsi mancante, incompleta o insufficiente. Invero, è pacifico che all'ultimo episodio non era presente la Bruni e sul punto l'attendibilità della persona offesa è stata confermata dal subitaneo allontanamento della stessa dallo studio dentistico senza neppure attendere il completamento dell'intervento. Sul punto la sentenza ha indicato le ragioni per le quali la versione fornita dagli altri testi non screditava il racconto della vittima e tale motivazione, essendo esente da vizi logici o giuridici, non è censurabile in questa sede.
Per quanto concerne i fatti commessi in precedenza si deve rilevare che trattasi di toccamenti ambigui che potevano essere considerati casuali e che non erano stati percepiti come invasivi della sua sfera sessuale dalla stessa vittima, la quale, solo quando essi erano divenuti inequivocabili aveva compreso che anche quegli atteggiamenti, che essa in precedenza aveva considerato casuali, erano in realtà libidinosi. Pertanto, se tali atti non sono stati immediatamente avvertiti come libidinosi dalla stessa vittima che li subiva, a fortiori potrebbero non essere stati percepiti dai collaboratori del medico eventualmente presenti.
Infondato è il terzo motivo.
Il giudice dell'impugnazione è tenuto a prendere in esame censure specifiche e non generiche doglianze specialmente quando dette doglianze sono relative a fatti notori o a orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati. Nella fattispecie il difensore delle parti civili in primo grado aveva concluso chiedendo il risarcimento dei danni morali patiti dai genitori della vittima rimettendone la determinazione alla valutazione equitativa del tribunale e sottolineando che, per la giurisprudenza civile, era pacifica la risarcibilità del danno morale in favore dei prossimi congiunti della vittima di un reato.
Siffatta domanda non è stata specificamente contestata dal prevenuto il quale, per mezzo del suo difensore, solo con i motivi d'impugnazione si è limitato ad affermare genericamente che i genitori della vittima non avevano diritto al risarcimento senza tuttavia indicare la ragione della propria affermazione.
In proposito si deve osservare che le Sezioni uniti civili di questa corte, con sentenza n 9556 del 2002, hanno affermato il principio in forza del quale ai prossimi congiunti della vittima di un reato (in quella fattispecie si trattava di lesioni personali) spetta iure proprio il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto di cui all'articolo 1223 codice civile né quello di cui all'articolo 185 cod. penale, in quanto anche tale danno trova causa diretta ed immediata nel fatto illecito. L'orientamento delle Sezioni unite civili è stato successivamente ribadito dalla terza sezione civile con sentenza n 2888 del 2003. L'attribuzione di tale legittimazione iure proprio si fonda anche e soprattutto sul riconoscimento dei "diritti della famiglia" previsto dall'articolo 29 primo comma della Costituzione, il quale riconoscimento, come statuito da questa corte, sezione terza civile, con la sentenza n 8827 del 2003, deve essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell'ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell'individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo anche a gratificazioni e reciproci diritti. Da tale rapporto interpersonale discende che il fatto lesivo commesso in danno di un soggetto esplica i propri effetti anche nell'ambito del rapporto familiare. L'abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, il quale danno può essere di natura patrimoniale, allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati dall'illecito. Il danno non patrimoniale può essere liquidato equitativamente dal giudice giacché, come è notorio, non può essere provato nel suo preciso ammontare a differenza di quello patrimoniale in senso stretto. Orbene, trattandosi di un diritto ormai pacificamente ammesso dalla giurisprudenza e dalla stessa dottrina, il suo riconoscimento, in mancanza di esplicita contestazione da parte del danneggiante imputato, non imponeva al giudice una esplicita motivazione, tanto più che la somma liquidata a titolo di danno morale (a tale componente del danno era stata limitata la richiesta con le conclusioni presentate al tribunale dal difensore delle parti civili) è obiettivamente modesta (euro 500).


PQM

La Corte letto l'articolo 616 c.p.p. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.



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