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L'attività dell'agente sotto copertura che esorbiti dai limiti fissati dalla legge regolatrice di queste speciali tecniche investigative produce l'inutilizzabilità della prova acquisita

L'attività dell'agente sotto copertura che esorbiti dai limiti fissati dalla legge regolatrice di queste speciali tecniche investigative, oltre a determinare responsabilità penale dell'infiltrato che abbia istigato o determinato i correi a perpetrare il reato, produce l'inutilizzabilità della prova acquisita e rende l'intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
(Corte di Cassazione Sezione 2 Penale, Sentenza del 9 ottobre 2008, n. 38488)




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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASUCCI Giuliano - Presidente

Dott. FIANDANESE Franco - Consigliere

Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere

Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere

Dott. MELIADO' Giuseppe - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Cu. Do., n. a (OMESSO);

Ev. Ga., n. a (OMESSO);

La. Gi., n. a (OMESSO);

L. C., n. a (OMESSO);

Mo. Al., n. a (OMESSO);

Qu. Gi., n. a (OMESSO);

Sa. Gi., n. a (OMESSO);

avverso la sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria, in data 13 giugno 2007, di parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Reggio Calabria, in data 20 dicembre 2005;

Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott. Franco Fiandanese;

Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Consolo Santi, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Uditi i difensori, avv. Abate Umberto per Cu. e per L. in sostituzione dell'avv. Putonti Giuseppe, avv. Chiodo Pietro per La., Mo. e Qu., avv.ti Catalogo Pietro e Foti Giuseppe per Ev., i quali hanno chiesto l'accoglimento dei motivi dei ricorsi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Reggio Calabria, con sentenza in data 13 giugno 2007, confermava la condanna pronunciata dal G.U.P. del Tribunale della stessa sede, in esito a giudizio abbreviato, nei confronti di Cu. Do., Ev. Ga., La. Gi., L. M., Mo. Al., Qu. Gi., Sa. Gi., perche' ritenuti colpevoli di associazione a delinquere di stampo mafioso, di detenzione, cessione e commercio di materiale esplodente di origine militare del tipo tritolo, nonche' Qu. Gi. e Sa. Gi. anche di detenzione e cessione di materiale esplodente del tipo plastico e di tentativo di vendita di materiale plastico e di 4 bazooka. La stessa sentenza assolveva, invece, in riforma della pronuncia del G.U.P., Ia. Gi. dall'imputazione di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, in qualita' di promotore ed organizzatore.

La vicenda processuale, secondo la ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito, ha riguardato un'organizzazione criminale avente i caratteri dell'associazione mafiosa, alla quale erano riconducibili, in particolare, diversi delitti, aventi ad oggetto il traffico di materiale esplodente. Tale organizzazione faceva capo alla nota cosca Iamonte, esercitante il suo potere criminale nella zona del basso Ionio della provincia di Reggio Calabria, gia' giudiziariamente accertata, e che si presentava come una rinnovata struttura delinquenziale, specie sotto il profilo soggettivo, idonea a mantenere in vita l'attivita' della cosca medesima, con espansione del suo ambito di influenza.

L'affermazione di responsabilita' e' stata fondata sulle seguenti fonti di prova:

- dichiarazioni, dirette o de relato di un agente del GICO della Guardia di Finanza, vice brigadiere Lo. Ce. Ga., il quale, dopo essere entrato in contatto con alcuni appartenenti al sodalizio ed essersi accreditato come referente della mafia di Avola, aveva presso parte alle trattative per la negoziazione di ingenti quantitativi di materiale esplodente, giungendo ad effettuare numerosi acquisti;

- dichiarazioni rese al P.M,, in sede di interrogatorio, da Za. Sa., il quale, senza arrivare ad una forma di collaborazione, aveva ammesso Che quanto riferito dall'agente infiltrato rispondeva a verita';

- contenuto di alcune conversazioni intercettate nonche' esito positivo dei sequestri effettuati in corso di indagine che avevano portato al ritrovamento del materiale esplosivo e di somme di danaro.

- risultanze della consulenza tecnica espletata sul materiale esplosivo.

La sentenza impugnata si sofferma sia sulla configurabilita' nel caso di specie del reato associativo, individuando il ruolo assunto da ciascun imputato, che sul suo carattere di mafiosita'.

Con riferimento alle eccezioni sollevate dalla difesa relative all'attivita' dell'agente provocatore, la sentenza osserva che alle dichiarazioni di costui non si applica ne' il divieto di testimonianza ex articolo 62 c.p.p. ne' il limite di utilizzabilita' di cui all'articolo 63 c.p.p. e che, nel caso di specie, l'attivita' dell'agente era stata preceduta e si era inserita in un regolare iter procedurale svoltosi sotto il controllo della autorita' giudiziaria e si era articolata attraverso un corretto comportamento di adesione ai propositi degli imputati e di osservazione dei loro comportamenti, senza mai sconfinare in un opera, non consentita, di istigazione.

La sentenza della Corte di Appello distingue anche le condotte trasfuse nelle relazioni di servizio di cui l'agente provocatore aveva avuto diretta percezione da quelle che aveva recepito, invece, attraverso le dichiarazioni di Sa. e si sofferma, in particolare, sul controllo dell'attendibilita' soggettiva di quest'ultimo e della credibilita' delle sue dichiarazioni.

Infine, la sentenza impugnata afferma il pieno coinvolgimento nei reati - fine di tutti gli imputati, condividendo le argomentazioni espresse sul punto dal primo giudice.

I giudici di appello pervengono, invece, in riforma della sentenza di primo grado alla assoluzione di Ia. Gi. dal contestato reato associativo, poiche', pur ritenendo attendibili le dichiarazioni del Sa. nei suoi confronti, vengono evidenziati elementi di noni perfetta corrispondenza con il contenuto delle dichiarazioni stesse, che le rende prive di riscontri decisivi, con la conseguente contraddittorieta' del quadro probatorio.

Propongono ricorso per cassazione gli imputati Cu., Ev., La., L., Mo., Qu., Sa..

Il difensore di Cu. deduce:

Violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione all'articolo 416 c.p., nonche' in riferimento alla Legge n. 497 del 1974 articoli 9, 10 e 12.

La sentenza non avrebbe tenuto nel debito conto le doglianze difensive afferenti la sussistenza del reato associativo, nonche' la partecipazione del ricorrente al ritenuto sodalizio criminoso di stampo mafioso. La motivazione sarebbe illogica, apparente e/o contraddittoria.

Il ricorrente osserva che l'autonomia del reato associativo dai reati-fine esclude che la sua sussistenza possa essere desunta, in assenza di altri elementi, dall'attuazione, ovvero dalla programmazione, di una o piu' condotte delittuose e dal fatto che piu' sarebbero le persone coinvolte, tanto piu' in assenza di prova circa l'esistenza di un programma criminoso volto alla commissione di una serie potenzialmente illimitata di reati, la Corte territoriale, piuttosto che provare la sussistenza degli elementi strutturali della fattispecie, avrebbe ritenuto, ad avviso del ricorrente, di poterli dedurre esclusivamente da facta concludentia.

Per quanto concerne le singole condotte addebitate al Cu., il ricorrente osserva che la responsabilita' per i reati fine e, percio', la partecipazione dell'imputato al sodalizio criminoso, si fonda, nella sentenza impugnata, sulle relazioni di servizio del 6.3.2004 - 13.3.2004 (episodio b1) e del 3.4.2002 (episodio b2) redatte dall'agente sotto copertura - dalle quali si ricaverebbe la posizione ricoperta in seno all'ipotizzato sodalizio da ciascuno dei soggetti imputati -, cui si affiancano le dichiarazioni del coimputato Za.; nonche' sugli "accertati contatti telefonici tra gli esponenti del gruppo e dal sequestro del materiale esplodente ceduto".

Il ricorrente afferma che in nessuna delle relazioni di servizio sopra citate e' menzionato il Cu., facendosi, invece, riferimento ad un certo " Mi. della (OMESSO) ", che non potrebbe identificarsi con il Cu.; che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe basata su rilievi di natura induttiva, in quanto le dichiarazioni de relato del Sa. riferite dall'agente provocatore sarebbero prive di riscontri, anzi emergerebbero dalle risultanze probatorie sicuri indici fattuali di inattendibilita'. Del resto, la stessa sentenza, rileva il ricorrente, avrebbe ritenuto le dichiarazioni del Sa. prive di riscontri decisivi, assolvendo Ia. Gi. dalla contestata imputazione di associazione di stampo mafioso; cio' darebbe vigore alla tesi difensiva della millanteria posta in essere dal Sa..

La sentenza impugnata sarebbe censurabile anche sotto il profilo del travisamento di alcuni elementi processuali dei quali fornirebbe "una rappresentazione non conforme al loro significato": 1) uno attiene alla valutazione delle dichiarazioni d'accusa del coimputato Za. Saverio verso il Cu., in occasione dell'interrogatorio reso al PM in data 06.11.2004; 2) l'altro attiene alla valutazione della telefonata del 20.04.2004 sull'utenza cellulare in uso a Za. Sa., tra quest'ultimo e la sig.ra Al. Ro., moglie del Cu., utilizzata per dare sostegno ad altri indizi ritenuti utili a ricondurre l'identificazione del Cu. in " Mi. il (OMESSO) ". Ad avviso del ricorrente le dichiarazioni dello Za. si rivelerebbero assolutamente inattendibili, riferendo costui circostanze non veritiere, mentre il contenuto dei colloqui intercettati non avrebbe alcun significato univoco; d'altro canto, gli elementi indicati dall'agente provocatore per identificare Mi. il (OMESSO) non troverebbero corrispondenza nel Cu., come emergerebbe dalle confutazioni difensive, che non avrebbero ottenuto risposta dalla sentenza impugnata.

Il difensore di Ev. deduce:

a) violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione all'articolo 416 bis c.p., per totale mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del reato associativo contestato, nonche' palese contraddittorieta' e/o manifesta illogicita' della stessa.

Il ricorrente afferma che la sentenza impugnata non riesce ad individuare elementi fattuali capaci di dimostrare la sussistenza di un vincolo permanente idoneo a proiettarsi oltre la realizzazione dei due episodi di cessione di materiale esplodente contestate nei capi di imputazione. Neppure il fattore temporale offrirebbe spazi a ricostruzioni capaci di rappresentare una stabilita' di rapporti tra i correi, in quanto anche i contatti tra gli stessi si esauriscono in un arco temporale di breve durata (limitato ad un periodo di appena un mese), strettamente necessario alla realizzazione delle specifiche condotte programmate con l'agente infiltrato. La sentenza impugnata opererebbe, quindi, una perfetta sovrapponibilita' tra la condotta di concorso nel reato e il reato associativo. Del tutto inaccettabili sarebbero, inoltre, le argomentazioni dirette a qualificare il presunto (e non provato organismo associativo) come associazione di stampo mafioso. Sul punto sarebbe evidente il vizio di una motivazione che ha inteso individuare nell'elemento territoriale il carattere mafioso del presunto organismo associativo, partendo dal presupposto che quelle condotte non possono che essere riferibili al sodalizio mafioso Iamonte, in considerazione che quel sodalizio, in base a pregresse sentenze, opererebbe in quel territorio. In realta', ad avviso della difesa, nessuno dei soggetti con i quali l'infiltrato ha mantenuto rapporti e trattato l'acquisto e la consegna dell'esplosivo sarebbe mai stato raggiunto da indizi o sospetti di partecipazione alla presunta consorteria Iamonte, ne' l'attivita' di indagine sarebbe riuscita a dimostrare un solo contatto tra costoro e soggetti condannati o quantomeno indiziati di appartenere alla accertata cosca Iamonte. Ne' a tal fine potrebbe essere utilizzata la relazione di servizio del (OMESSO) dove l'agente infiltrato annota le dichiarazioni fattegli dal Sa. sia per l'inattendibilita' del Sa. stesso sia per la mancanza di elementi di riscontro a quelle dichiarazioni. Il ricorrente rileva che la stessa sentenza e' costretta a pronunciare l'assoluzione di Ia. Gi. essendo stato documentato che le dichiarazioni di Sa. non sono corrispondenti al vero e cio' starebbe a significare che il Sa. nulla sapeva della presunta cosca Iamonte.

b) violazione dell'articolo 606 c.p.p. in relazione agli articoli 191 e 63 c.p.p., articolo 64 c.p.p., comma 3 bis. Il ricorrente osserva che la sentenza impugnata pone a base dell'affermazione della responsabilita' una dichiarazione che Sa. avrebbe fatto sul conto dell'Ev. all'agente infiltrato, in data (OMESSO), e che viene compendiata in una annotazione di servizio redatta in pari data, il ricorrente eccepisce che la predetta relazione, in tal modo, fa riferimento non a circostanze e fatti cui l'agente avrebbe assistito direttamente, ma a fatti che egli assume di avere appreso in via confidenziale da Sa. e che pertanto non potrebbero essere utilizzate perche' carpite ad un indagato, senza l'assistenza del difensore ed in violazione delle norme sancite dall'articolo 63 c.p.p. e articolo 64 c.p.p., comma 3 bis.

Il ricorrente pone in dubbio lo stesso requisito di certezza del documento di cui si parla, poiche' nella suddetta annotazione del (OMESSO) l'agente infiltrato non indica nemmeno il luogo di incontro che sarebbe avvenuto tra lo stesso e il Sa., mentre sarebbe strano che lo stesso agente si sia presentato da solo a quell'incontro.

Il ricorrente censura, inoltre, la mancata applicazione dei criteri sanciti dall'articolo 192 c.p.p., non essendo rilevabile dal contesto motivazionale una verifica sia in ordine alla attendibilita' intrinseca della chiamata in reita', sia in ordine alla sussistenza di riscontri individualizzanti. In particolare, per quanto attiene alla credibilita' intrinseca del Sa., emergerebbe dalle stesse sentenze dei giudici di merito, che hanno assolto nello stesso processo, in primo grado, l'imputato C. A. e, in secondo grado, l'imputato Ia. Gi., che il Sa., pur di apparire persona importante agli occhi dell'agente provocatore, millantava amicizie e conoscenze di personaggi di elevato spessore criminale.

Il ricorrente osserva ancora che il giudice di primo grado aveva utilizzato a carico dell'Ev. le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Za. Sa.. A seguito delle censure difensive, pero', il giudice di appello ha ritenuto che non potesse essere accolta la valutazione in tal senso effettuata dal primo giudice, ritenendo, peraltro, le dichiarazioni dello Za. un dato neutro. Da cio', ad avviso del ricorrente, i giudici di secondo grado avrebbero dovuto trarre la conclusione delle esclusione della responsabilita' del ricorrente, per l'impossibilita' di fondarla sulla sola annotazione di servizio dell'agente provocatore ed anche perche' con i motivi di appello erano stati evidenziati elementi favorevoli alla tesi dell'innocenza dell'imputato (la mancanza di riferimento all'Ev. nei contenuti delle intercettazioni telefoniche e negli esiti dell'attivita' investigativa, la mancanza di contatti tra l' Ev. e gli altri imputati), sui quali il ricorrente denuncia la mancanza di motivazione da parte della Corte di Appello.

c) Violazione di legge per totale carenza di motivazione con riferimento ai capi di imputazione concernenti la detenzione e cessione di materiale esplodente.

La sentenza impugnata si sarebbe limitata ad una semplice affermazione senza elemento di prova alcuno.

d) nullita' della sentenza e dell'ordinanza emessa dalla Corte d'appello di Reggio Calabria il 13/06/2007 per violazione dell'articolo 606 c.p.p., lettera d).

All'udienza del 13 giugno 2007, la Corte di Appello respingeva la richiesta difensiva di sospensione del dibattimento per consentire la produzione di una sentenza emessa dal G.u.p. presso il Tribunale di Reggio Calabria con la quale il Vice Brigadiere Lo. Ce. Ga. (agente provocatore, infiltrato di p.g. ed unico accusatore di Ev. Ga.) e sei esponenti della Guardia di Finanza venivano condannati, in concorso tra loro, per i reati di falso e violenza privata in danno di un indagato, commessi nell'esercizio del loro funzioni ed avvenuti nell'anno (OMESSO), ossia proprio l'anno in cui si sarebbero verificati i fatti per cui e' processo. Tale richiesta delle difese era giustificata dal fatto che la condanna ad un anno di reclusione del Vice Brigadiere Lo. Ce. era un fatto sopravvenuto e scoperto dopo il giudizio di primo grado e che squalificava la credibilita' dell'infiltrato di polizia, cio' che era rilevante, in quanto sorgevano sospetti anche in ordine alla annotazione di p.g. che era stata fatta sulle dichiarazioni del Sa..

Il difensore di La. e Mo. deduce con unico atto di ricorso:

a) vizio di cui all'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d), per mancata assunzione di una prova decisiva.

Il difensore ricorrente lamenta l'immotivato rigetto, all'udienza del 13 giugno 2007, della richiesta difensiva di rinnovazione del dibattimento mediante l'acquisizione di una prova decisiva al fine di confutare la credibilita' e la genuinita' delle propalazioni del teste-infiltrato di p.g. agente provocatore vice Brigadiere della Guardia di Finanza Lo. Ce. Ga., unica prova d'accusa a carico degli imputati. Tale prova consisteva nell'acquisizione al fascicolo del dibattimento di un articolo del giornale quotidiano Gazzetta del Sud del (OMESSO), ossia del giorno antecedente all'udienza stessa, riportante una sentenza di condanna emessa in data (OMESSO) (ossia due giorni prima dell'udienza) di un anno di reclusione da parte del G.U.P. presso il Tribunale di Reggio Calabria nei confronti di Lo. Ce. Ga. e di sei esponenti della guardia di Finanza, per concorso nei reati di falso e violenza privata in relazione a fatti verificatisi nell'anno (OMESSO).

b) vizio di cui all'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' o inutilizzabilita' per violazione dell'articolo 125 c.p.p., con riferimento al decreto di intercettazione del p.m. del 24.3.2004 R.I.T. n. (OMESSO) per mancanza assoluta di motivazione in relazione al requisito delle eccezionali ragioni di urgenza che avrebbero dovuto legittimare l'installazione di apparati al di fuori degli uffici di Procura, con conseguente inutilizzabilita' di tutti i relativi risultati di intercettazione, ai sensi dell'articolo 268 c.p.p., comma 3, e articolo 271 c.p.p..

c) violazione degli articoli 62 e 63 c.p.p. previste a pena di inutilizzabilita', relativamente alle dichiarazioni accusatorie dell'infiltrato di polizia agente provocatore Vice Brigadiere della Guardia di Finanza Lo. Ce. Ga..

Il ricorrente sostiene che la cd. azione sotto copertura si riduce ad un caso di concorso di persone nel reato, con la conseguenza della limitata valenza probatoria delle dichiarazioni degli stessi agenti provocatori, che in tal caso vanno sentiti non con la veste processuale di testi, ma di coimputati in procedimento connesso o collegato ex articoli 210 e 212 c.p.p. con tutte le garanzie difensive o addirittura quella della inutilizzabilita' delle dichiarazioni stesse ex articoli 62 e 63 c.p.p..

Inoltre, il ricorrente ritiene che non siano stati rispettati i requisiti ai quali la Legge n. 438 del 2001, articolo 4 subordina l'attivita' dell'agente provocatore di p.g. o infiltrato sotto copertura, cioe' a) la preventiva autorizzazione del Comando Generale idi appartenenza; b) la preventiva comunicazione da parte dell'organo competente (Comando Generale) al P.M.; c) l'obbligo del cd. agente sotto copertura di relazionare tempestivamente e minuziosamente l'autorita' giudiziaria dei risultati delle investigazioni.

d) Con riferimento al primo episodio di cessione di materiale esplodente contestato nel capo di imputazione, il difensore ricorrente sostiene, attraverso una ricostruzione delle risultanze processuali, l'assoluta estraneita' ai fatti di Mo. e La., che, pertanto, dovrebbero essere assolti o, in subordine, dichiarati non punibili ex articolo 49 c.p. trattandosi di comportamento posto in essere esclusivamente a causa della reiterata e continua condotta istigatoria dell'agente infiltrato.

Con riferimento al secondo episodio di cessione di materiale esplodente contestato nel capo di imputazione, lamenta che i giudici di merito si siano sottratti al benche' minimo obbligo motivazionale o comunque abbiano motivato in modo contraddittorio e travisante dei fatti.

Con riferimento alla contestata fattispecie associativa, il difensore ricorrente denuncia analoghi vizi motivazionali, in quanto l'accusa sarebbe basata sulle sole dichiarazioni dell'agente provocatore aventi ad oggetto piu' che confidenze, delle mere millanterie del Sa. sulla presunta appartenenza alla Cosca Iamonte. Inoltre, le dichiarazioni del Sa. rivolte all'agente provocatore sarebbero da ritenersi comunque inutilizzabili ex articolo 63 c.p.p., comma 2, ai fini testimoniali, trattandosi di dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti, assolutamente svincolati dai due specifici episodi delittuosi contestati e cio' in quanto dette presunte confidenze sulla appartenenza mafiosa del gruppo, non sarebbero state rese nel momento dell'azione (consegna dell'esplosivo), ma in un momento in cui l'azione era gia' conclusa.

Nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, non sarebbero riscontrabili gli indici rivelatori del fenomeno mafioso, in particolare nella condotta degli imputati non sarebbe ravvisabile quella forza di intimidazione interna (degli affiliati) ed esterna (condizione di assoggettamento ed omerta' delle vittime), ne' sussisterebbe nell'accordo criminoso alcuna programmazione indefinita di reati, presupposto genetico di qualsiasi reato associativo di tipo semplice o mafioso. Del resto, osserva ancora il ricorrente, l'esiguo numero degli specifici episodi di vendita dell'esplosivo ed il lasso di tempo brevissimo dovrebbero ritenersi assolutamente incongrui ed inadeguati per individuare correttamente gli elementi caratterizzanti di una presunta associazione, anche di tipo semplice. La sentenza impugnata, infine, denuncia ancora la difesa, non avrebbe specificato i termini del contributo offerto dal singolo ne' la modalita' di partecipazione.

e) violazione degli articoli 133 e 62 bis c.p., nonche' il vizio di mancanza e manifesta illogicita' della motivazione dell'impugnata sentenza mila parte in cui immotivatamente viene rigettata la richiesta difensiva in ordine alla concessione delle attenuanti generiche.

f) carenze motivazionali nella ritenuta sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso.

Il ricorrente lamenta che non siano state indicate le prove in ordine agli indici rivelatori del metodo mafioso, ossia quella minaccia o violenza particolarmente penetrante ed efficace, che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un particolare tipo di sodalizio criminoso dedito ad efferati delitti.

Propone ricorso per cassazione L. personalmente, deducendo:

a) violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c) ed e) in relazione all'articolo 62 c.p.p.. Il ricorrente deduce la inutilizzabilita' delle confidenze ricevute dall'agente infiltrato dal Sa. nella data del (OMESSO), in quanto concernenti accadimenti materiali che non erano nella diretta percezione dell'agente infiltrato, ma afferivano a fatti pregressi narrati dal Sa., cosi' che dovrebbe ritenersi operante la sanzione generale di cui all'articolo 62 c.p.p. che prevede il divieto di riferire quanto appreso dai soggetti sostanzialmente indagati.

b) violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), c) ed e) in relazione all'articolo 416 bis c.p.. Il ricorrente denuncia che la sentenza impugnata affermerebbe la sussistenza della consorteria mafiosa in maniera congetturale, mediante l'affermazione che essa sarebbe una costola della cosca mafiosa riconducibile alla famiglia Iamonte; ma tale affermazione non sarebbe basata su alcun elemento ed anzi l'assoluzione di Ia. Gi. sarebbe significativa della sua apoditticita'.

D'altro canto, le; modalita' attuative delle condotte fine attribuite agli imputati avrebbero un significato assolutamente neutro, siccome riferibili alternativamente ad un sodalizio mafioso o ad un sodalizio comune. Anzi, le modalita' stesse sarebbero significative della insussistenza di capacita' di controllo capillare del territorio.

c) violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma. 1, lettera b) ed e) in relazione all'articolo 102 c.p.p., comma 3, ed in relazione ancora all'articolo 416 bis c.p. ed alla Legge n. 203 del 1991 articolo 7.

Poiche' la sentenza impugnata pone a sostegno dell'affermazione di sussistenza del sodalizio mafioso e della circostanza aggravante di cui all'articolo 7 legge n. 203 del 1991 quanto riferito dall'agente provocatore in ordine alle confidenze a sua volta ricevute nella data del (OMESSO), laddove venisse accolto il motivo di censura in ordine alla inutilizzabilita di tale riferimento ne deriverebbe, ad avviso del ricorrente, la insussistenza di un idoneo quadro probatorio a sostegno di tale contestazione.

In ogni caso, il ricorrente denuncia la violazione del disposto dell'articolo 192 c.p.p., comma 3, per la mancanza di validi elementi di riscontro alle confidenze ricevute dall'agente provocatore.

d) violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), c) ed e) in relazione agli articoli 62 bis e 133 c.p..

Per cio' che attiene alla denegazione delle circostanze attenuanti generiche, come pure alla determinazione della pena, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia ritenuto di confermare il giudizio espresso gia' dai giudici di prime cure ponendo come supporto motivazionale solo ed esclusivamente la gravita' delle condotte delittuose, senza apprezzare la personalita' del soggetto agente.

Propone ricorso per cassazione il difensore di Qu., deducendo:

a) Mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione alla ritenuta partecipazione di Qu. Gi. ai reati contestati ai capi b), c) ed e).

Il difensore ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui non fornirebbe adeguata motivazione della ritenuta identificazione del Qu. da parte dell'agente infiltrato.

b) Mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione alla ravvisata sussistenza di una struttura associativa.

La motivazione sul punto si dimostrerebbe assolutamente contraddittoria e, sotto certi aspetti, addirittura carente, dal momento che valorizzerebbe elementi i quali, ad avviso del ricorrente, coincidono con quelli tipici della fattispecie di concorso di persone in reato continuato. Il ricorrente, in particolare, censura l'individuazione da parte della sentenza impugnata di un ambito territoriale dell'associazione criminosa, quello della provincia di Raggio Calabria, che sarebbe contrastante con il senso comune, poiche' presupporrebbe che non esistano gruppi criminali diversi da quello che si assume operante nel caso di specie; censura, inoltre, la configurazione di un generico programma criminoso, poiche' la disponibilita' e la cessione di materiale esplodente, cosi' come la programmazione di future operazioni di cessione, ancorche' riguardino quantita' ingenti ma pur sempre determinate, sono elementi che, ad avviso del ricorrente, caratterizzerebbero l'accordo in termini di provvisorieta' ed occasionalita', in quanto connessi alla occasionale disponibilita' di materiale esplodente ed essendo destinati, i correlati effetti, a venire meno con l'esaurimento del materiale disponibile.

c) Mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione alla ravvisata sussistenza degli elementi di cui all'articolo 416 bis c.p..

Il ricorrente afferma che l'insieme degli argomenti offerti dalla Corte d'Appello a sostegno del giudizio di sussistenza dei requisiti del delitto di cui all'articolo 416 bis c.p. sarebbe assolutamente incongruo rispetto all'esigenza motivazionale sul punto, traducendosi in difetto di motivazione. In particolare, la sentenza impugnata non avrebbe motivato congruamente sulla sussistenza di una proiezione dell'associazione nel contesto sociale di riferimento che presenti le caratteristiche della mafiosita'.

d) Mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione all'attendibilita' delle dichiarazioni di Sa. Gi. circa il ritenuto coinvolgimento della cosca Iamonte.

Il ricorrente osserva che i giudici hanno attribuito rilievo fondamentale alle indicazioni fornite da Sa. Gi. all'agente infiltrato nel corso dell'incontro avuto il (OMESSO), ma non avrebbero effettuato alcuna verifica relativamente alla fonte immediata, limitandosi a richiamare la giurisprudenza della Corte di Cassazione che estrapola dalla categoria delle dichiarazioni de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti attinenti la vita e le attivita' criminose dei quali il dichiarante ha conoscenza nella sua qualita' di appartenente al medesimo sodalizio; in tal modo, pero', la sentenza impugnata considererebbe come dimostrato, senza alcuna verifica, il fatto della partecipazione alla consorteria Iamonte di Sa. Gi.. Inoltre, la sentenza della Corte d'Appello non avrebbe motivato sulla doglianza, enunciata nei motivi d'appello, dell'atteggiamento millantatorio degli imputati accertato dal G.U.P. nella sentenza di primo grado e che avrebbe determinato il proscioglimento dell'imputato C. A. dal delitto di partecipazione all'associazione mafiosa.

e) Mancanza, illogicita' e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione al giudizio di sussistenza di elementi di conferma dell'attendibilita' delle dichiarazioni di Sa. Gi. circa il ritenuto coinvolgimento della cosca Iamonte.

Il ricorrente, attraverso una dettagliata ricostruzione delle risultanze probatorie, afferma che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe contraddittoria, illogica e viziata da una non "corretta percezione dell'elemento di prova".

f) mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e)) in relazione all'omessa considerazione della valenza sintomatica dei cd. "affari alternativi".

La Corte di Appello avrebbe omesso di motivare sulla denunciata contraddittorieta' della sentenza di primo grado, laddove ritiene sintomatica della partecipazione degli imputati alla cosca Iamonte l'avvenuta cessione di esplosivo di tipo plastico, quale affare alternativo rispetto all'acquisto' di tritolo non avvenuto a causa di un atteggiamento di cautela dei vertici della suddetta cosca. Secondo il ricorrente sarebbe priva di plausibilita' l'ipotesi secondo cui persone affiliate ad una determinata associazione criminosa replichino ad un impedimento consistente in una determinazione degli organi di vertice della stessa promuovendo e organizzando affari alternativi al di fuori di essa.

g) Mancanza, illogicita' e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e; in relazione alla partecipazione di Qu. Gi. all'associazione mafiosa denominata cosca Iamonte.

La motivazione sul punto sarebbe mancante, poiche' la sentenza impugnata seguirebbe un approccio fondato su un automatismo privo di una solida base razionale, facendo discendere la partecipazione all'associazione dell'imputato dal coinvolgimento di questi nelle operazioni di cessione del materiale esplodente.

h) Mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1 lettera e) in relazione alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui alla Legge n. 203 del 1991 articolo 7.

Il ricorrente afferma che la sentenza impugnata farebbe discendere l'applicazione dell'aggravante dalla collocazione dei reati contestati nell'ambito del programma dell'associazione, in tal modo, pero', rendendo automatica la contestazione dell'aggravante in presenza di un'ipotesi di reato riconducibile alla fattispecie di cui all'articolo 416 bis c.p..

i) Mancanza, illogicita' manifesta e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione all'attenuazione del trattamento sanzionatorio ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

Alla richiesta dell'imputato di concessione delle attenuanti generiche e di attenuazione della pena, in considerazione del ruolo non primario assunto nelle vicende oggetto del processo e della sua incensuratezza, la sentenza impugnata si sarebbe limitata, ad avviso del ricorrente, ad una motivazione apparente, richiamando la gravita' dei fatti e la pluralita' delle violazioni.

l) Mancanza, illogicita' e contraddittorieta' della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) in relazione all'omessa restituzione della somma sequestrata a Qu. Gi..

La motivazione della sentenza impugnata non indicherebbe elementi specifici che possano consentire di sostenere il giudizio di correlazione tra le somme sequestrate e la cessione di esplosivo contestata.

Altro difensore di Qu. deduce motivi di ricorso aventi contenuto analogo ad alcuni di quelli proposti dagli imputati La. e Mo. :

a) vizio di cui all'articolo 606 c.p.p., comma 2, lettera d), per mancata assunzione di una prova decisiva.

b) vizio di cui all'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' o inutilizzabilita' per violazione dell'articolo 125 c.p.p., con riferimento al decreto di intercettazione del p.m. del 24.3.2004 R.I.T. n. (OMESSO) per mancanza assoluta di motivazione in relazione al requisito delle eccezionali ragioni di urgenza che avrebbero dovuto legittimare l'installazione di apparati al di fuori degli uffici di Procura, con conseguente inutilizzabilita' di tutti i relativi risultati di intercettazione, ai sensi dell'articolo 268 c.p.p., comma 3, e articolo 271 c.p.p..

c) violazione degli articoli 62 e 63 c.p.p. previste a pena di inutilizzabilita, relativamente alle dichiarazioni accusatorie dell'infiltrato di polizia agente provocatore Vice Brigadiere della Guardia di Finanza Lo. Ce. Ga..

d) Con riferimento all'episodio di cessione di materiale esplodente contestato nel capo di imputazione, il difensore ricorrente sostiene, il travisamento del fatto, nella parte in cui la sentenza sostiene che non vi sono dubbi sulla corretta identificazione del Qu., errando nella circostanza che costui sia stato indicato una sola volta con il cognome Pe., mentre in realta' l'agente infiltrato fa riferimento a tale cognome in tre annotazioni, e ritenendo di potere desumere la suddetta identificazione da una telefonata intercettata, senza esplicitare l'iter logico seguito per addivenire all'esatta individuazione degli interlocutori.

Con riferimento alla contestata fattispecie associativa, il difensore ricorrente denuncia vizi motivazionali, in quanto l'accusa sarebbe basata sulle sole dichiarazioni dell'agente provocatole aventi ad oggetto piu' che confidenze, delle mere millanterie del Sa. sulla presunta appartenenza alla Cosca Iamonte. Inoltre, le dichiarazioni del Sa. rivolte all'agente provocatore sarebbero da ritenersi comunque inutilizzabili ex articolo 63 c.p.p., comma 2, ai fini testimoniali, trattandosi di dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti, assolutamente svincolati dai due specifici episodi delittuosi contestati e cio' in quanto dette presunte confidenze sulla appartenenza mafiosa del gruppo, non sarebbero state rese nel momento dell'azione (consegna dell'esplosivo), ma in un momento in cui l'azione era gia' conclusa.

Nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, non sarebbero riscontrabili gli indici rivelatori del fenomeno mafioso, in particolare nella condotta degli imputati non sarebbe ravvisabile quella forza di intimidazione interna (degli affiliati) ed esterna (condizione di assoggettamento ed omerta' delle vittime), ne' sussisterebbe nell'accordo criminoso alcuna programmazione indefinita di reati, presupposto genetico di qualsiasi reato associativo di tipo semplice o mafioso. Del resto, osserva ancora il ricorrente, l'esiguo numero degli specifici episodi di vendita dell'esplosivo ed il lasso di tempo brevissimo dovrebbero ritenersi assolutamente incongrui ed inadeguati per individuare correttamente gli elementi caratterizzanti di una presunta associazione, anche di tipo semplice. La sentenza impugnata, infine, denuncia ancora la difesa, non avrebbe specificato i termini del contributo offerto dal singolo ne' la modalita' di partecipazione.

e) violazione degli articoli 133 e 62 bis c.p., nonche' il vizio di mancanza e manifesta illogicita' della motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui immotivatamente viene rigettata la richiesta difensiva in ordine alla concessione delle attenuanti generiche.

f) carenze motivazionali nella ritenuta sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso.

Il ricorrente lamenta che non siano state indicate le prove in ordine agli indici rivelatori del metodo mafioso, ossia quella minaccia o violenza particolarmente penetrante ed efficace, che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un particolare tipo di sodalizio criminoso dedito ad efferati delitti.

Lo stesso difensore di Qu. ha depositato memoria difensiva per illustrare nuovamente i vizi gia' prospettati.

Propone ricorso per cassazione Sa. personalmente, deducendo motivi aventi contenuto identico a quelli proposti dal ricorso di L..

MOTIVI DELLA DECISIONE

I motivi dei ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.

Poiche' il quadro probatorio ha tra i suoi componenti essenziali le dichiarazioni di un agente infiltrato, occorre, innanzitutto, esaminare congiuntamente quei motivi di ricorso, formulati da tutti i ricorrenti, con argomentazioni analoghe, che denunciano la inutilizzabilita' delle dichiarazioni medesime.

La figura dell'agente provocatore fino agli anni â€Ü90 non ha trovato riconoscimento legislativo ed era stata esaminata, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come ipotesi di istigazione da parte di colui che induce altre persone a commettere un reato, al fine di assicurarle alla giustizia. Le problematiche che tale figura sollevava erano soprattutto di diritto sostanziale e si riteneva che gli appartenenti alla polizia giudiziaria che si intromettevano nell'esecuzione di un reato al fine di assicurare i colpevoli alla giustizia esercitassero le funzioni loro proprie (articolo 55 c.p.p.) e dovessero considerarsi non punibili perche' agivano nell'adempimento di un dovere (articolo 51 c.p.); precisandosi, peraltro, che, per escludere la punibilita', era necessario che il loro intervento fosse indiretto e marginale nella ideazione ed esecuzione del fatto, costituisse attivita' prevalentemente di controllo, di osservazione e di contenimento dell'azione illecita, che doveva essere esclusivamente opera altrui (Sez. 1, 1 marzo 1969, n. 311, Faccini, riv. 112975; Sez. 2, 23 maggio 1972, n. 8266, Monne, riv. 122622); in altri termini, la condotta dell'agente provocatore non doveva inserirsi con rilevanza causale rispetto al fatto commesso dal provocato, nel senso che l'evento delittuoso non doveva considerarsi come una conseguenza diretta della sua condotta (Sez. 6, 29 settembre 1987 - 4 marzo 1988, n. 2890, Alan, riv. 177785; Sez. 2, 13 febbraio 1985, n. 6693, Scattolin, riv. 170011; Sez. 6, 6 luglio 1990 - 30 gennaio 1991, n. 1119, Carpentieri, riv. 186283).

Per quanto concerne la posizione del "provocato", la costante giurisprudenza ha affermato che non e' configurabile il reato impossibile e che l'attivita' dell'agente provocatore e' causa estrinseca ed indipendente dalla condotta del reo, che non esclude il reato, perche' l'impossibilita' dell'evento non dipende dalla inidoneita' assoluta dell'attivita' posta in essere dall'imputato, e cioe' dalla originaria inefficienza causale dell'azione ai fini della produzione dell'evento stesso (Sez. 1, 17 dicembre 1970 - 15 febbraio 1971, n. 3014, Arena, riv. 116746; Sez. 1, 15 febbraio 1974, n. 8515, Hermann, riv. 128493; Sez. 1, 27 maggio 1986, n. 14251, Palumbo, riv. 174666; Sez. 6, 16 ottobre 1989 - 17 febbraio 1990, n. 2218, Battaggia, riv. 183376).

A partire dagli anni â€Ü90 il legislatore ha iniziato a tipizzare diverse figure dell'agente provocatore, in considerazione delle accresciute esigenze investigative in relazione a fenomeni criminosi particolarmente gravi ed estesi, che rendevano insufficiente la semplice elaborazione giurisprudenziale della figura, prevedendo dapprima il cd. fictus emptor o acquirente simulato di sostanze stupefacenti e, poi, il cd. infiltrato, al fine di contrastare le organizzazioni criminali, nazionali e transnazionali. Diverse sono le ipotesi legislative previste da una serie di leggi, che si sono succedute in relazione a molteplici tipologie di reati:

a) Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 97, sostituito dal Decreto Legge 30 dicembre 2005, n. 272, articolo 4 terdecies, convertito con modificazioni nella Legge 21 febbraio 2006, n. 49, in materia di disciplina degli stupefacenti;

b) Decreto Legge 31 dicembre 1991, n. 419, articolo 10, convertito nella Legge 18 febbraio 1991, n. 172, in tema di reati cd. sessuali;

c) Decreto Legge 8 giugno 1992, n. 306, articolo 12 quater, convertito nella Legge 7 aprile 1992, n. 356, in materia di delitti di riciclaggio e di quelli concernenti armi, munizioni ed esplosivi;

d) Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, articolo 12, comma 3 septies, in materia di delitti contro le immigrazioni clandestine;

e) Legge 3 agosto 1998, n. 269, articolo 14, comma 4, in materia di sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale in danno di minori;

f) Decreto Legge 18 ottobre 2001, n. 374, articolo 4, convertito nella Legge 15 dicembre 2001, n. 438, per il contrasto al terrorismo internazionale;

g) Legge 11 agosto 2003, n. 228, articolo 10, contenente misure contro la tratta di persone, in relazione ai delitti previsti dal libro 2, titolo 12, capo 3, sezione 1, c.p., nonche' dalla Legge 20 febbraio 1958, n. 75, articolo 3.

La legislazione italiana in materia segue convenzioni ed accordi internazionali: il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 trae origine dalla Convenzione O.N.U. di Vienna del 20 dicembre 1988 contro il traffico di stupefacenti; la normativa antiriciclaggio in cui si inserisce anche la Legge n. 356 del 1992, articolo 12 quater ha origine dalla Convenzione di Strasburgo dell'8 novembre 1990; la Legge n. 269 del 1998 richiama la Conferenza Mondiale di Stoccolma del 31 agosto 1996 sulla tutela dei fanciulli, che a sua volta rinvia alla Convenzione O.N.U. del 20 novembre 1989; la Legge n. 438 del 2001 da attuazione alle Convenzioni O.N.U. del 15 dicembre 1997 e del 9 dicembre 1999 contro il terrorismo. Infine, la Legge 16 marzo 2006, n. 146, ha ratificato la Convenzione e i protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'Assemblea Generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001, dettando una disciplina generale delle tecniche investigative speciali che possono essere sinteticamente denominate operazioni coperte (undercover operations), sostituendo la disciplina speciale della legislazione sopra citata (ad eccezione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 dell'articolo 97, della Legge n. 269 del 1998, articolo 14 e del Decreto Legge 15 gennaio 1991, n. 8, articolo 7, convertito con modificazioni in Legge 15 marzo 1991, n. 82).

L'esame complessivo della legislazione in materia consente di enucleare due principi fondamentali: non sono consentite tecniche investigative che si concretizzino in una vera e propria induzione o incitazione al crimine del soggetto sottoposto ad indagini sotto copertura; l'agente sotto copertura non puo' commettere azioni illecite diverse da quelle espressamente dichiarate non punibili o ad esse strettamente connesse in quanto strumentali (su queste ultime: Cass. Sez. 6 30 marzo 2004, n. 23035, EspositO, riv. 229943).

Nel ricostruire il sistema normativo dei principi applicabili all'attivita' dell'agente infiltrato occorre, quindi, tenere presente che non si fa riferimento ad una figura generica di agente provocatore, quale delineata dalla giurisprudenza e dalla dottrina e valutata soprattutto sotto il profilo dell'applicabilita' dell'articolo 51 c.p., ma ad una figura che trova una speciale disciplina legislativa che si inserisce in un contesto di convenzioni internazionali diretto a fronteggiare i piu' pericolosi ed estesi fenomeni di criminalita'.

In tutte le ipotesi legislative di attivita' sotto copertura si prescinde dall'esistenza di un procedimento penale o di indagini preliminari su uno specifico fatto di reato, trattandosi di attivita' investigative a carattere preventivi»; inoltre, sono dettate precise modalita' con le quali deve svolgersi l'attivita' medesima ed e' prevista un'espressa causa di non punibilita', richiamandosi, solo in via residuale, l'applicabilita' della scriminante comune di cui all'articolo 51 c.p. in tema di adempimento di un dovere.

Nel caso di specie, l'attivita' dell'agente infiltrato e' stata svolta in applicazione del disposto frl Decreto Legge n. 306 del 1992 articolo 12 quater (v. sentenza di primo grado, pag. 9), il quale prevedeva che non fossero punibili "gli ufficiali di polizia giudiziaria della direzione investigativa antimafia o dei servizi centrali e interprovinciali di cui al Decreto Legge 13 maggio 1991, n. 152, articolo 12, convertito, con modificazioni, dalla Legge 12 luglio 1991, n. 203, i quali, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine a delitti concernenti armi, munizioni od esplosivi, acquistano o ricevono od occultano o comunque si intromettono nel fare acquisire, ricevere od occultare le armi, le munizioni o gli esplosivi medesimi"; prevedeva, altresi', che l'esecuzione delle operazioni medesime fosse "disposta dal capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza, dal comandante generale dell'arma dei carabinieri ovvero della guardia di finanza" e che di esse fosse "data immediata notizia all'autorita' giudiziaria".

Nel sistema del nostro codice di rito deve distinguersi. Nel caso in cui l'agente infiltrato agisca in mancanza dei presupposti di legge o esorbiti dai limiti imposti alla sua azione e si ravvisi nel suo comportamento un fatto penalmente rilevante, egli assume la figura di coimputato o di imputato in procedimento connesso o collegato e, pertanto, alle sue dichiarazioni devono applicarsi le regole di assunzione e di valutazione di cui agli articoli 210 e 192 c.p.p..

Ma se si esclude la punibilita' dell'agente infiltrato per avere agito in conformita' ai presupposti e ai limiti imposti dalla legge, questi assume a tutti gli effetti la qualifica di testimone, con la conseguenza della inapplicabilita' del disposto degli ultimi articoli citati. Pertanto, alle dichiarazioni dell'agente infiltrato che agisca in presenza dei presupposti e secondo le modalita' di legge non si applica il criterio valutativo di cui all'articolo 192 c.p.p., commi 3 e 4 c.p.p..

Una volta chiarita la qualifica di testimone che assume l'agente infiltrato nel momento in cui effettua le sue dichiarazioni, deve aggiungersi che ad esso neppure si applica il divieto di testimonianza di cui all'articolo 62 c.p.p. su quanto appreso dall'imputato nel corso dell'investigazione, in quanto tale divieto puo' riguardare solo le dichiarazioni rappresentative di fatti precedenti e non quelle che costituiscano o accompagnino la condotta direttamente riferita dal testimone ovvero le dichiarazioni programmatiche di future condotte, e, d'altro canto, il divieto medesimo attiene alle sole dichiarazioni rese "nel corso del procedimento", e, pertanto, funzionalmente alla formazioni di un atto

processuale, mentre l'agente infiltrato non agisce al fine di redigere atti come ufficiale di polizia giudiziaria con i poteri autoritativi e certificatori connessi alla qualifica, quanto piuttosto (nei limiti fissati dalla legge) quale partecipe del fatto successivamente testimoniato (Sez. 6 5 dicembre 2006, n. 41730, Ani, riv. 235590; Sez. 4, 30 novembre 2004 - 22 febbraio 2005, n. 6702, Meta, riv. 230720; Sez. 4, 4 ottobre 2004, n. 46556, Biancoli, riv. 231466; Sez. 4, 29 maggio 2001, n. 33561, Tomassini, riv. 220263; Sez. 6, 28 aprile 1997, n. 1732, Console, riv. 288645).

Anche la Corte Costituzionale ha chiarito che il divieto di cui all'articolo 62 c.p.p. opera "esclusivamente in ordine a dichiarazioni effettuate nella sede processuale, cioe' in occasione di un atto del procedimento. E' solo in relazione a tale categoria di dichiarazioni, infatti, che si pone l'esigenza di garanzia, gia' messa in luce dalla relazione al progetto preliminare, consistente nel far si' che di esse faccia fede la sola documentazione scritta, con divieto conseguente di fonti testimoniali surrogatorie" (Corte cost. n. 237 del 1993).

In definitiva, il divieto di cui all'articolo 62 c.p.p. non puo' operare, poiche' la testimonianza dell'agente infiltrato assume, nel suo contenuto specifico, valore di fatto storico percepito dal teste e, come tale, valutabile dal giudice alla stregua degli ordinari criteri applicabili a detto mezzo di prova.

Neppure puo' trovare applicazione il limite di utilizzabilita' previsto dall'articolo 63 c.p.p., comma 2, poiche' le dichiarazioni all'agente infiltrato non scino rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio e non costituiscono la rappresentazione di eventi gia' accaduti o la descrizione di una precedente condotta delittuosa, ma si inseriscono in Un contesto criminoso in atto (da ultimo, Sez. 2 19 dicembre 2006 - 8 febbraio 2007, n. 5601, Esposito, riv. 236121).

Non puo' condividersi l'orientamento giurisprudenziale, il quale afferma che "non e' consentito alla polizia giudiziaria, in un sistema rigorosamente ispirato al principio di legalita', scostarsi dalle previsioni legislative per compiere atti atipici i quali, permettendo di conseguite risultati identici o analoghi a quelli conseguibili con gli atti tipici, eludano tuttavia le garanzie difensive dettate dalla legge per questi ultimi", elusione che si verificherebbe "allorche' l'operatore di p.g., non palesandosi come tale, miri ad ottenere dalla persona gia' colpita da indizi di un reato dichiarazioni che possano servire alla prova di questo e della relativa responsabilita'" (Sez. 2, 31 marzo 1998, n. 2204, Parreca, riv. 211177; Sez. 6, 24 febbraio 2003, n. 13623, Ventre, riv. 224741).

In verita', tale orientamento giurisprudenziale precisa come non possa viceversa invocarsi la sanzione di inutilizzabilita' con riferimento agli elementi che l'operatore di polizia giudiziaria infiltrato abbia potuto osservare e conoscere senza "provocare" le dichiarazioni di alcuno, senza cioe' svolgere, sotto mentite spoglie e senza garanzie difensive, un'attivita' analoga a quella che, se palese, tali garanzie avrebbe richiesto. In tal modo, pero', il principio affermato viene ad essere convertito in una questione di fatto rimessa al prudente e delicato apprezzamento del giudice di merito.

Deve, invece, ritenersi che nella testimonianza dell'agente infiltrato sulle dichiarazioni rese dal soggetto sottoposto all'attivita' di infiltrazione non possa ravvisarsi un deviazione patologica da un atto tipico, bensi' la espressione di un atto tipico eccezionale, che trova la sua base nella disciplina Speciale di un istituto preordinato funzionalmente "ad acquisire elementi di prova" con particolari tecniche investigative, sottoposte a individuati presupposti ed a specifiche modalita' (v. Decreto Legge n. 306 del 1992 cit., articolo 2 quater; nonche', ora, Legge n. 146 del 2006 cit., articolo 9). Le suddette dichiarazioni, infatti, sono rilasciate nel corso dell'iter criminis, e costituiscono anch'esse in comportamento di fatto che fa parte del contesto criminoso nel quale anche l'agente infiltrato e' inserito. Resta fermo, in ogni caso, che non puo' ritenersi sussistente quel collegamento funzionale, delimitativo dell'area di applicazione dell'articolo 63 c.p.p. oltre che del precedente articolo 62 c.p.p., tra le dichiarazioni acquisite e la qualita' del soggetto che le abbia raccolte. Da cio' consegue la non operativita' della sanzione di inutilizzabilita' prevista dall'articolo 191 c.p.p. per le prove illegittimamente acquisite.

Analogamente le relazioni di servizio redatte da un agente infiltrato sono utilizzabili anche nella parte in cui riferiscono in forma di citazione testuale le dichiarazioni rese dai presenti, poiche' dell'attivita' svolta la polizia giudiziaria deve rendere conto, a norma dell'articolo 357 c.p.p., comma 1, "secondo le modalita' ritenute idonee ai fini delle indagini" e non e' possibile prendere nota di attivita' consistite in simulate trattative se non riferendone l'andamento. D'altro canto le dichiarazioni riportate sono solo in via indiretta e inconsapevole rivolte ad un agente di polizia giudiziaria, il quale deve tenere celata tale qualita' e non potrebbe in nessun modo procedere alla verbalizzazione nelle forme di rito (Sez. 6, 23 giugno 1999, n. 2399, Haxhiu, riv. 214920; Sez. 6, 26 marzo 1997, n. 1444, Mariniello, riv. 208128).

E' necessario esaminare anche se il sistema legislativo in materia, come sopra delineato, trovi ragioni di contrasto con la Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo.

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha affrontato piu' volte la tematica dell'agente provocatore, affermando, in linea di principio, che "la Convenzione non vieta di fondarsi, in fase di indagini preliminari e quando la natura del reato lo giustifichi, su fonti quali gli informateci segreti", ma "l'intervento di agenti infiltrati deve essere circoscritto e assistito da garanzie" (Texeira de Castro c. Portogallo, 9 giugno 1998 e, da ultimo, Pyrgiotakis c. Grecia 21 febbraio 2008; Malininas c. Lituania, 1 luglio 2008). La normativa di riferimento della Convenzione e' quella dettata dall'articolo 6, par. 1 e 3d (articolo 6. Diritto a un equo processo. 1 Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale (...). 3. In particolari, ogni accusato ha diritto di: (...) di esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico). A tal fine, la Corte sembra distinguere tra la figura dell'agente provocatore e quella dell'agente infiltrato, affermando che "l'interesse pubblico non puo' giustificare l'uso di elementi acquisiti a seguito di una provocazione della polizia", nel senso che l'agente non si e' limitato "ad esaminare in modo meramente passivo l'attivita' criminosa", ma ha esercitato sul soggetto provocato "un'influenza tale da istigarlo a commettere il reato", che altrimenti non sarebbe stato commesso, in tal modo superando l'attivita' di un agente infiltrato. Con riferimento alle concrete fattispecie esaminate la Corte ha dichiarato piu' volte la violazione della Convenzione, per la mancanza di un processo equo, nei casi in cui nulla indicava che senza l'intervento dell'agente provocatore il reato sarebbe stato commesso.

Si puo' osservare che la Corte di Strasburgo, con tali decisioni, attribuisce riflessi processuali a quello che e' l'aspetto sostanziale della fattispecie, dichiarando la mancanza di equita' del processo in casi in cui, secondo la citata giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione, si potrebbe ravvisare un'attivita' illecita dell'agente infiltrato, per avere superato i limiti imposti alla propria azione sotto copertura, assumendo una condotta avente efficacia causale rispetto al fatto commesso dal provocato. Cio', pero', come si detto, sempre secondo la citata giurisprudenza della Corte di Cassazione, non esclude, di per se', il reato del provocato, se non nel caso in cui si possa ravvisare un'inidoneita' assoluta dell'attivita' posta in essere da quest'ultimo rispetto alla produzione dell'evento.

La conformita' dell'orientamento giurisprudenziale italiano a quello della Corte di Strasburgo sul punto sembra, pertanto, piuttosto una questione di fatto, poiche' potrebbe ritenersi che le singole fattispecie di processo non equo considerate dalla Corte di Strasburgo facciano, appunto, riferimento a casi in cui l'attivita' dell'agente provocatore assumeva rilevanza causale esclusiva nella fattispecie criminosa (si veda per i casi in cui e' Stata ritenuta la equita' del processo: Calabro' c. Italia e Germania, 21 marzo 2002; Pyrgiotakis c. Grecia, cit.; Unel c. Turchia, 27 maggio 2008).

Certo e' che nel caso in cui la giustizia italiana abbia ritenuto che l'agente infiltrato sia andato al di la' dei limiti impostigli dalla legge, tanto da assumere un comportamento penalmente rilevante, soltanto l'assoluzione del soggetto provocato dalle accuse mosse nei suoi confronti dagli agenti provocatori potrebbe escludere del tutto il ricorso alla Corte di Strasburgo, mentre in caso diverso, rimarrebbe la possibilita' di un sindacato di quest'ultima sulla equita' del processo nella fattispecie concreta.

Profilo strettamente processuale e', invece, quello della utilizzazione e valutazione delle dichiarazioni rese dall'agente infiltrato, che costituisce normalmente una delle principali fonti di prova contro i soggetti provocati o comunque controllati. L'unico limite che emerge dalla giurisprudenza della CEDU e' che le dichiarazioni dell'agente infiltrato - non provocatore - devono essere assunte in contraddittorio, in applicazione dell'articolo 6 par. 3d della Convenzione, con la conseguenza della incompatibilita' con la Convenzione di una condanna fondata esclusivamente o in misura determinante sulle dichiarazioni rese da un testimone che l'imputato non ha mai avuto la possibilita' di contro esaminare (Calabro' c. Italia, cit.) : principio ormai acquisito al nostro sistema processuale anche a livello costituzionale (articolo 111 Cost., comma 4).

In definitiva puo' ben dirsi che i principi nella materia de quo della legislazione nazionale siano in linea con i risultati interpretativi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo.

Passando, ora, ad esaminare i diversi motivi di ricorso formulati dai ricorrenti, deve osservarsi, in primo luogo, che non ha fondamento la censura concernente il mancato rispetto dei requisiti ai quali la Legge n. 438 del 2001, articolo 4 subordina l'attivita' dell'agente provocatore (motivo di cui al punto c) dell'elencazione concernente il ricorso di La. e Mo.) sia perche' la citazione di legge e' del tutto erronea, dovendosi applicare, nel caso di specie, la diversa normativa di cui al Decreto Legge n. 306 del 1992 articolo 12 quater (v. sopra), sia perche', comunque, tale ultima normativa risulta rispettata, secondo quanto verificato dalla Corte di Appello, la quale nella sentenza impugnata afferma che "l'attivita' dell'agente e' stata preceduta e si e' inserita in un regolare iter procedurale svoltosi sotto il controllo dell'autorita' giudiziaria, si e' articolata attraverso un corretto comportamento di adesione ai propositi degli imputati e di osservazione dei loro comportamenti, senza mai sconfinare in un'opera, non consentita, di istigazione" (pag. 30).

Pertanto, l'agente provocatore, nel caso di specie, non assume la veste di coimputato, come sostengono i ricorrenti La. e Mo., bensi' quello di testimone.

Di conseguenza, non ha fondamento, in applicazione dei principi piu' sopra formulati, la denunciata inutilizzabilita' delle dichiarazioni rese all'agente infiltrato dal Sa., perche' "in violazione delle norme di cui agli articoli 62 e 63 c.p.p. e articolo 64 c.p.p., comma 3 bis, (motivo di cui al punto b) dell'elencazione concernente il ricorso di Ev., al punto c) di quella concernente il ricorso di La. e Mo., al punto a) di quella concernente il ricorso di Lo. e di Sa., e al punto c) di quella concernente il secondo difensore di Qu.); e', inoltre, manifestamente infondata le censura sul requisito di certezza dell'annotazione dell'agente provocatore sulle dichiarazioni stesse (motivo di cui al punto b) dell'elencazione concernente il ricorso di Ev.), poiche' sul punto il giudice di appello si e' pronunciato con una valutazione di fatto non sindacabile in questa sede, affermando che non sussistono "dati concreti attraverso i quali attribuire, aldila' di fumose accuse lanciate da taluno dei difensori, comportamenti non ortodossi o non istituzionali dell'agente provocatore" (pag. 31 della sentenza impugnata).

Neppure puo' ritenersi, come affermato dai ricorrenti La. e Mo. (punto d) dell'elencazione dei motivi di ricorso) che le dichiarazioni del Sa. siano rappresentative di fatti precedenti svincolati dai due specifici episodi delittuosi contestati, poiche' emerge chiaramente dal testo della sentenza impugnata che le dichiarazioni medesime attengono al contesto criminoso nel quale si era infiltrato l'agente provocatore e contribuiscono a chiarirne i contorni e le caratteristiche.

E' da sottolineare, altresi', che le dichiarazioni dell'agente infiltrato, nel caso in esame, pur avendo un rilievo importante nella ricostruzione delle vicende criminose, si inseriscono in un quadro probatorio piu' ampio e complesso, poiche' ad esse "si affiancano le dichiarazioni di Za., la sussistenza di numerosi ed accertati contatti telefonici tra gli esponenti del gruppo, il ritrovamento e il sequestro del materiale esplodente ceduto" (pag. 38 della sentenza impugnata).

Per quanto concerne l'attendibilita' del Sa. e la credibilita' delle sue dichiarazioni riportate dall'agente provocatore, occorre chiarire, sulla base dei principi piu' sopra formulati, che le dichiarazioni raccolte dall'agente provocatore nel corso della sua azione di infiltrazione e che si inseriscano nel contesto criminoso oggetto dell'infiltrazione medesima, assumono valore di fatto storico percepito dal teste e, come tale, valutabile dal giudice alla stregua degli ordinari criteri applicabili a detto mezzo di prova e non dei criteri di cui all'articolo 192 c.p.p., commi 3 e 4, che fanno riferimento e circondano di specifiche garanzie le dichiarazioni del coimputato o dall'imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato in quanto rese in un contesto "formale" e ad una autorita' giudiziaria o di p.g., cioe' in uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, nel quale il dichiarante ha la consapevolezza di "chiamare" in correita' o in reita' altra persona e per questo motivo si impongono speciali cautele valutative; nella fattispecie di cui si parla, invece, il dichiarante - che non ha ancora la qualita' di coimputato o di imputato di reato connesso o collegato - non ha tale consapevolezza poiche' non sa di parlare ad un'autorita' ufficiale.

Pertanto, alle dichiarazioni raccolte dall'agente sotto copertura nel corso delle investigazioni non si applicano, nel processo nel quale il dichiarante assume la qualita' di coimputato, i criteri di valutazione ex articolo 192 c.p.p., comma 3. Cio' non esclude che il giudice di merito possa, comunque, applicare in tal caso i medesimi criteri valutativi di cui all'articolo 192 c.p.p. cit., ritenendo che il prudente apprezzamento del contenuto della testimonianza dell'agente provocatore che sia costituito dalla raccolta di dichiarazioni altrui imponga, nel caso di specie, una valutazione approfondita di attendibilita' del soggetto dichiarante, di credibilita' del dichiarato e di riscontrabilita' in altri elementi

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