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Lo psichiatra è responsabile dell'omicidio commesso da un proprio paziente

È ammissibile il concorso colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa (diversamente sarebbe violato il disposto dell'articolo 42 comma 2, del Cp) e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare, è necessario che la regola cautelare inosservata sia diretta ad evitare anche il rischio dell'atto doloso del terzo, risultando dunque quest'ultimo prevedibile perl'agente. E' qaunto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione 4 Penale, con sentenza del 11 marzo 2008, n. 10795. La Corte ha confermato la condanna di un medico psichiatra, il quale, riducendo e poi sospendendo in maniera imprudente il trattamento farmacologico cui era sottoposto un paziente ricoverato in una comunità, in modo tale da renderlo inidoneo a contenerne la pericolosità, aveva determinato l'aggravamento della patologia e una recrudescenza della pericolosità, tali da avere provocato la crisi nel corso della quale lo stesso paziente aveva aggredito ed ucciso uno degli operatori della comunità.



- Leggi la sentenza integrale -

La Corte:

OSSERVA

1) La sentenza di primo grado. Il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Bologna, con sentenza 25 novembre 2005, ha condannato PO. EU., all'esito del giudizio abbreviato, alla pena ritenuta di giustizia (con le conseguenti statuizioni civili a favore della parti civili) per il delitto di omicidio colposo in danno di CA. AT. commesso in (OMESSO). Il processo trae origine da una tragica vicenda verificatasi, il giorno indicato, all'interno della comunita' "(OMESSO) ", sita in (OMESSO), nella quale era ricoverato un paziente psicotico, MU. GI., che il giorno indicato aveva aggredito con un coltello CA. - educatore che prestava servizio presso la comunita' - cagionandone la morte.

Al dott. PO., medico psichiatra che svolgeva la sua attivita' terapeutica presso la comunita', era stato addebitato di aver omesso di valutare adeguatamente i sintomi di aggressivita' manifestati da MU. (anche specifici nei confronti di CA.), di aver ridotto - e poi sospeso - la somministrazione di una terapia farmacologica di tipo neurolettico in modo tale da renderla inidonea a contenere la pericolosita' del paziente e di aver omesso di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio in presenza di sintomi che rendevano necessaria tale iniziativa.

In particolare il primo giudice ha ritenuto che la condotta del medico fosse caratterizzata da colpa per avere prima ridotto e poi sospeso la somministrazione del farmaco (Moditen) di tipo Mepot" che gli veniva somministrato senza un'adeguata anamnesi e senza una corretta valutazione della situazione di recrudescenza dei sintomi di aggressivita' che caratterizzavano il paziente; per non aver commisurato la quantita' e qualita' delle visite alla situazione e non aver accompagnato la riduzione della terapia con misure di supporto; per aver omesso di richiedere il t.s.o..

Ha ritenuto inoltre che queste condotte colpose si ponessero in rapporto di causalita' con l'evento verificatosi; in particolare la modifica del trattamento farmacologico aveva comportato un aggravamento della patologia e una recrudescenza dell'aggressivita' del paziente.

2) La sentenza d'appello. La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza 12 gennaio 2007, ha confermato la sentenza di primo grado. Dopo aver respinto la richiesta di acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio svolta in un giudizio civile e ritenuto inutilizzabile un parere pro veritate di cui la difesa aveva chiesto l'acquisizione la Corte ha ripercorso i fatti che hanno dato luogo al presente processo condividendo le valutazioni del primo giudice sulla natura colposa della condotta dell'imputato per avere, il dott. PO., prima ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica che assumeva.

In particolare i giudici di secondo grado hanno condiviso il parere dei periti nominati dal primo giudice i quali avevano rilevato che le linee guida internazionali prevedono la riduzione della terapia solo dopo cinque anni di mancanza di episodi psicotici.

Questi episodi si erano invece verificati in tempi recenti tanto che il precedente primario, dott. VI., aveva raccomandato che non venisse ridotta la terapia somministrata a MU..

Inoltre la riduzione era avvenuta in modo non conforme alle prescrizioni delle linee guida conducendo cosi' il paziente ad uno scompenso conclamato come risultava da vari episodi: il paziente, in piu' occasioni, aveva lamentato la sparizione del suo danaro in banca, aveva manifestato il timore di essere avvelenato, aveva affermato che il suo medico era morto, circostanza non vera); a questo scompenso e' stato ritenuto causalmente ricollegata la crisi che aveva condotto all'aggressione dell'educatore da parte del paziente.

In conclusione la Corte ha ritenuto che qualora, a scompenso conclamato, il dott. PO. avesse adottato adeguate misure terapeutiche di pronta efficacia non vi sarebbe stata l'aggressione nei confronti della persona offesa. Inoltre la Corte ha ritenuto che, oltre a queste condotte di natura commissiva, ve ne fosse una di tipo omissivo, in rapporto di causalita' con l'evento, costituita dall'omessa richiesta del t.s.o. in una situazione che rendeva necessaria la richiesta medesima sia per l'esistenza di una situazione di scompenso che per il rifiuto del paziente di assumere la terapia iniettiva.

La Corte di merito ha concluso ribadendo gli elementi di colpa gia' ricordati ed inoltre precisando, ad ulteriore conferma dell'inadeguatezza della terapia, che il dott. PO., quando si era reso conto della modifica peggiorativa della situazione patologica, aveva introdotto nella terapia un farmaco antipsicotico di pronto effetto ma in dose inadeguata rispetto alla gravita' della situazione.

3) I motivi di ricorso. Contro la sentenza della Corte bolognese (nonche' contro l'ordinanza 12 gennaio 2007 che ha rigettato le richieste di cui ai primi due motivi di ricorso di cui infra) ha proposto ricorso PO. EU. il quale ha dedotto i seguenti motivi d'impugnazione.

a) Con il primo motivo si deduce la violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d) ed e), con riferimento alla mancata acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio disposta nell'ambito del giudizio civile avente il medesimo oggetto e come parti gli eredi di CA., la coop. (OMESSO) e l'AUSL di (OMESSO). La richiesta e' stata respinta dalla Corte di merito che non ha pero' considerato che si trattava in realta' di un rito "riaperto" d'ufficio perche' il giudice, dopo aver disposto l'integrazione probatoria prevista dall'articolo 438 c.p.p., comma 5, aveva poi d'ufficio disposto una perizia.

Da cio' conseguiva, secondo il ricorrente, che doveva ritenersi riaperta anche per le parti la possibilita' di acquisire elementi di prova necessari per il giudizio e cio' aveva formato oggetto di un motivo d'appello. I giudici di secondo grado, respingendo la richiesta ritenendola preclusa perche' si era proceduto con il rito abbreviato, non hanno considerato che il rito abbreviato ha perso le caratteristiche originarie di processo allo stato degli atti e cio' ha reso applicabile a tale rito l'intera disciplina prevista dall'articolo 603 c.p.p. ed in particolare le disposizioni previste dal comma 2 nel caso di prove nuove sopravvenute dopo il giudizio di primo grado.

La Corte di merito non avrebbe inoltre tenuto conto della circostanza che il giudizio abbreviato era stato dall'imputato subordinato all'integrazione probatoria; il che, secondo la giurisprudenza di legittimita', consente la rinnovazione dell'istruzione in appello e comunque non puo' escludere il diritto alla controprova a favore dell'imputato anche nel giudizio di appello verificandosi, in caso contrario, una grave lesione del diritto di difesa.

In ogni caso, secondo il ricorrente, e' sempre consentito alla parte di sollecitare al giudice d'appello l'esercizio dei poteri officiosi ai sensi dell'articolo 603 c.p.p. e la mancanza di motivazione sul diniego di esercitare questi poteri e' censurabile in Cassazione. Per di piu', secondo il ricorrente, la natura documentale del documento di cui si era chiesta l'acquisizione non richiedeva neppure la riapertura dell'istruzione dibattimentale per il combinato disposto dell'articolo 441 c.p.p., comma 1 e articolo 421 c.p.p., comma 3.

b) Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'articolo 121 c.p.p., per il diniego di acquisire al fascicolo un parere pro veritate espresso da un esperto in materia psichiatrica che la Corte ha ritenuto non potersi acquisire considerandola una consulenza tecnica di parte proveniente da persona che non rivestiva la qualita' di consulente tecnico.

Al di la' della correttezza delle ragioni indicate dalla Corte nel ricorso si sottolinea che i difensori - che avevano firmato il parere - avevano chiesto espressamente che l'elaborato venisse considerato come memoria difensiva e a questa richiesta la Corte non ha fornito alcuna risposta.

c) Con il terzo motivo di ricorso si censura invece la sentenza impugnata per aver affermato che esisteva un obbligo giuridico, per il dott. PO., di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio nei confronti del paziente MU. GI..

Il ricorrente precisa al contrario che il t.s.o. puo' essere richiesto solo in presenza di tre presupposti: alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; mancata accettazione di tali interventi da parte dell'infermo; impossibilita' di adottare idonee misure sanitarie extraospedaliere. La proposta deve essere convalidata da un medico psichiatra e ulteriormente convalidata dal sindaco. Infine il giudice tutelare nelle 48 ore successive deve verificare la correttezza del provvedimento e decidere se confermarlo o farlo decadere.

Dall'esame di questa complessa procedura consegue, secondo il ricorrente, che la procedura e' finalizzata alla tutela del paziente e quindi sarebbe contrario a queste finalita' far prevalere le esigenze di tutela della collettivita' rispetto al principio della liberta' di cura.

Nel caso di specie il dott. PO. si e' attenuto a questi principi perche', nella visita del (OMESSO) (l'omicidio e' avvenuto il (OMESSO)), avendo constatato il peggioramento delle condizioni del paziente, aveva ripristinato il trattamento farmacologico in precedenza ridotto e poi sospeso e, a fronte del rifiuto della cura da parte del paziente, aveva raggiunto un accordo con il medesimo perche' l'iniezione venisse effettuata dal medico di base. Cosa che era effettivamente avvenuta.

In definitiva: con l'assunzione volontaria della cura era venuto meno il presupposto del rifiuto della cura. In ogni caso l'eventuale obbligo di richiedere il t.s.o. sarebbe spettato al medico che aveva visitato per ultimo il paziente, cioe' la dott. D'., medico di base che aveva somministrato la terapia il 19 maggio.

D'altro canto la comunita' (OMESSO) era attrezzata per la sorveglianza e l'osservazione dei pazienti avendo a sua disposizione educatori ed assistenti oltre ad uno psichiatra di turno (diverso dal dott. PO. che era lo psichiatra curante di MU.). Difettava quindi, per l'adozione del t.s.o., l'impossibilita' di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere.

d) Con il quarto motivo di ricorso la sentenza della Corte bolognese viene censurata sotto diversi profili riguardanti la causalita' e la colpa.

Sotto il primo profilo, ed in particolare relativamente all'esistenza di una posizione di garanzia, il ricorrente evidenzia l'erroneita' dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che ha ritenuto irrilevante il titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato. MU. risultava infatti affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunita', operava anche un medico psichiatra con l'incarico di consulente diverso dal dott. PO..

Nell'ambito di questa organizzazione - la cui struttura e i cui compiti vengono descritti nel ricorso - un gruppo di lavoro di cui faceva parte il dott. PO. aveva il compito di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali.

Un altro errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata e' costituito dall'affermazione che il ricorrente aveva l'obbligo di informarsi degli episodi allarmanti che avevano caratterizzato la condotta del paziente; con questa affermazione i giudici di merito non hanno tenuto conto della circostanza gia' evidenziata che MU. era affidato ad una struttura autonoma e autosufficiente e l'intervento del consulente esterno, dott. PO., rientrava nell'autonoma discrezionalita' dei componenti la struttura. In base al principio di affidamento l'imputato aveva ragione di ritenere che la condotta della struttura nella trattazione del caso era corretta.

Nel medesimo motivo il ricorrente affronta il tema della colpa anche sotto il profilo della prevedibilita' dell'evento. In particolare si sottolinea nel ricorso che il paziente era in remissione da oltre 15 anni; che il dott. PO. non aveva affatto eliminato la terapia antipsicotica ma l'aveva soltanto ridotta in una prospettiva di ridurre la sedazione cui MU. era sottoposto da tempo. In realta' la sentenza impugnata avrebbe tratto il giudizio di prevedibilita' dell'evento in concreto verificatosi dalla sola esistenza della malattia psicotica.

e) Con il quinto ed ultimo motivo si denunziano invece il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento all'affermata esistenza del rapporto di causalita' tra la condotta dell'imputato e il verificarsi dell'evento.

Secondo il ricorrente la Corte di merito, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimita', si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo sulla causalita' ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento.

Non avrebbe poi considerato, la sentenza impugnata, che la riduzione della terapia era avvenuta somministrando per un certo periodo la meta' del farmaco e che, nel periodo di sospensione, erano ancora presenti gli effetti del farmaco, di tipo "depot" che ha tempi lunghissimi di eliminazione; questo processo non si era certamente esaurito quando era stata ripristinata la posologia originaria.

La Corte non avrebbe poi preso in considerazione che al paziente veniva somministrato anche altro farmaco antipsicotico idoneo a prolungare ulteriormente i tempi dell'eventuale scompenso da sottodosaggio.

Se si tiene conto di queste circostanze e del fatto che anche la condotta ritenuta esigibile non esclude il verificarsi di scompensi psicotici e' da escludere, secondo il ricorrente, che il rapporto di causalita' tra condotta ed evento possa essere ritenuto esistente al di la' di ogni ragionevole dubbio tanto piu' che, come riconosce la sentenza impugnata, anche il trattamento antipsicotico ritenuto corretto non esclude il rischio di ricadute ma lo riduce di due terzi.

Infine, quanto all'efficienza causale della mancata adozione del t.s.o., il ricorrente sottolinea che questa iniziativa sarebbe stata illegittima e avrebbe potuto essere giustificata solo con la consumazione di un falso costituito dall'attestazione di un fatto non veritiero e cioe' l'esistenza di un rifiuto del paziente di assumere la terapia.

4) Le memorie delle parti e il motivo nuovo. Con memoria datata 16 ottobre 2007 e successivamente depositata il difensore del ricorrente ha prodotto copia dei seguenti atti (contenuti nel fascicolo processuale) dei quali il giudice di appello non avrebbe tenuto conto nella sua decisione:

- il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunita' del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. PO.;

- il verbale di sommarie informazioni di D'. DA. e stralcio delle dichiarazioni rese dal dott. PO. sul punto del t.s.o..

Il difensore della parte civile ha replicato con memoria depositata presso questa Corte con la quale si ribadisce la correttezza della soluzione adottata dal giudice d'appello ed in particolare, con riferimento ai vari motivi di ricorso proposti dal ricorrente, si afferma:

- che l'eccezione sul diniego di acquisizione della consulenza tecnica disposta nel giudizio civile si fonderebbe sulla possibilita' di ipotizzare un terzo genere di rito abbreviato diverso sia da quello ordinario che da quello condizionato mentre, sull'esercizio dei poteri officiosi, il giudice di appello avrebbe motivato logicamente e adeguatamente;

- che analogamente corretta deve ritenersi la decisione di non ammettere la produzione del parere tecnico trattandosi di consulenza tecnica svolta da chi non era stato nominato consulente tecnico.

Con ulteriore memoria, datata 30 ottobre 2007, i difensori dell'imputato hanno richiamato ulteriormente - a fondamento della tesi che la Legge n. 180 del 1978 esclude una visione custodialistica a tutela della sicurezza delle persone essendo finalizzata esclusivamente alla tutela del malato - una sentenza del 1990 della seconda sezione di questa Corte e un testo di dottrina sul reato omissivo improprio che, secondo la tesi esposta nella memoria, potrebbe avere per oggetto esclusivamente l'oggetto immediato dell'obbligo e non anche gli obblighi riflessi o accessori.

Con la medesima memoria si propone poi un motivo nuovo di ricorso per l'omessa valutazione, da parte della Corte di merito, delle risultanze del registro della comunita' che dimostrerebbe che le manifestazioni di aggressivita' all'interno della comunita' erano gravi e frequenti (e quelle di MU. non erano le piu' significative) e che al personale non medico della struttura era attribuito l'intero compito socioriabilitativo mentre il dott. PO. aveva solo compiti di consulenza.

La mancata completa informazione sulle manifestazioni dei pazienti, ed in particolare del MU., non consentivano dunque di ritenere prevedibile l'evento e di addebitarlo causalmente al ricorrente.

5) Le questioni processuali. L'acquisizione della consulenza tecnica svolta nel giudizio civile e del parere pro veritate. Come si e' gia' accennato il ricorrente, con il primo motivo di ricorso, si duole della mancata acquisizione di una consulenza tecnica svolta in un giudizio civile instaurato tra le odierne parti civili, la comunita' (OMESSO) e l'Ausl territoriale competente.

La Corte d'Appello di Bologna ha respinto la richiesta - con ordinanza ritualmente impugnata unitamente alla sentenza - sia perche' l'acquisizione dell'atto sarebbe incompatibile con il rito abbreviato sia perche' si tratterebbe di atto non necessario per la decisione; occorre quindi valutare la correttezza di questa decisione.

Va premesso in generale, sulla disciplina della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello di cui all'articolo 603 c.p.p., che, se le nuove prove sono sopravvenute o sono state scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede secondo le regole ordinarie (comma 2); nel caso di prove nuove o di richiesta di riassunzione di prove gia' acquisite dispone la rinnovazione solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (comma 1).

Al di fuori di questi due casi il giudice puo' disporre d'ufficio la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale - anche nel caso in cui le parti siano rimaste inerti o siano decadute - solo se la ritiene assolutamente necessaria (comma 3: norma corrispondente a quella contenuta nell'articolo 507 c.p.p., comma 1, per il giudizio di primo grado).

La giurisprudenza di legittimita' e' uniforme nel ritenere che questa iniziativa diretta al completamento del quadro probatorio -in particolare per quanto attiene all'assoluta necessita' (da ritenere evenienza eccezionale: v. Cass., sez. 2, 1 dicembre 2005 n. 3458, Di Gloria, rv. 233391) - sia fondata su una valutazione attribuita in via esclusiva al giudice di merito e da ritenere insindacabile nel giudizio di legittimita' ove sia logicamente e adeguatamente motivata la valutazione sulla possibilita' di decidere allo stato degli atti (in questo senso v. Cass., sez. 4, 19 febbraio 2004 n. 18660, Montanari, rv. 228353; sez. 2, 4 novembre 2003 n. 45739, Marzullo, rv. 226977; sez. 6, 2 dicembre 2002 n. 68, Raviolo, rv. 222977).

E' anche orientamento uniforme di legittimita' che, solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado, la mancata assunzione possa costituire violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d). mentre, negli altri casi previsti dall'articolo 603 c.p.p., il vizio deducibile e' quello attinente alla motivazione previsto dalla lettera e) del medesimo articolo (v. Cass., sez. 2, 11 novembre 2005 n. 44313, Picone, rv. 232772; sez. 5, 21 dicembre 2000 n. 6924, Delfino, rv. 218279).

Questa disciplina va vista, per quanto riguarda il giudizio di appello nel rito abbreviato, in relazione alle peculiarita' del rito speciale.

E' noto che sull'ammissibilita' e sui limiti dell'integrazione probatoria nel giudizio abbreviato in grado di appello si erano formati orientamenti diversi nella giurisprudenza di legittimita': per l'ammissibilita' dell'integrazione si erano espresse Cass., sez. 5, 20 ottobre 1996 n. 2628, Camerano; sez. 6, 24 novembre 1993 n. 1944, De Carolis; in senso opposto sez. 1, 2 novembre 1995 n. 3661, Abategiovanni; 24 febbraio 1994 n. 5168, Pepe; sez. 6, 28 ottobre 1992 n. 2987, Nappo; sez. 1, 24 marzo 1992 n. 5440, Vallera'.

Il contrasto e' stato risolto dalla sentenza delle sezioni unite 13 dicembre 1995 n. 930, Clarke, che, pur escludendo ogni potere di iniziativa delle parti, avendo esse rinunziato al diritto alla prova, ha affermato che il giudice puo' disporre d'ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della sua decisione.

Il principio affermato dalle sezioni unite e' da ritenere attuale anche dopo la riforma del giudizio abbreviato intervenuta nel 1999.

E' vero che, con questa riforma, e' stato superato il precedente principio dell'immutabilita' del materiale probatorio ed e' stata quindi consentita la richiesta condizionata del rito speciale subordinata all'ammissione delle prove richieste. Ma e' rimasto fermo il principio che la richiesta del rito speciale, pur condizionata, comporta rinunzia all'assunzione di prove diverse da quelle alle quali e' stata subordinata la richiesta. Con la conseguenza che la scelta del giudizio abbreviato comporta l'accettazione di ogni elemento di valutazione (salvo, ovviamente, quelli affetti da inutilizzabilita' patologica) per cui deve ritenersi insindacabile, secondo i criteri indicati dalla citata sentenza delle sezioni unite, la valutazione del giudice d'appello che abbia motivatamente ritenuto che il mezzo di prova richiesto non fosse assolutamente necessario ai fini della decisione.

Non ignora la Corte che, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimita' (cfr. Cass., sez. 4, 20 dicembre 2005, Coniglio, rv. 233956; sez. 3, 2 marzo 2004 n. 15296, Simek, rv. 228535; contra Cass., sez. 6, 26 giugno 2003 n. 37389, Crollo, rv. 226806; sez. 3, 13 febbraio 2003 n. 12853, Paccone, rv. 224865) la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio abbreviato d'appello e' consentita soltanto all'imputato che abbia proposto la richiesta del rito speciale subordinandola all'integrazione probatoria - mentre chi abbia richiesto l'abbreviato allo stato degli atti puo' limitari a sollecitare il giudice all'esercizio dei poteri officiosi - ma, indipendentemente dalla soluzione sulla correttezza di questo orientamento deve osservarsi che, nel caso in esame, la richiesta del rito abbreviato era stata incondizionata ne' puo' ritenersi, come ritiene il ricorrente, che l'integrazione probatoria disposta d'ufficio dal giudice, valga a mutare la natura del giudizio in quella di abbreviato condizionato. Di fatto l'imputato aveva infatti rinunziato all'integrazione probatoria e il provvedimento del giudice non consente di ritenere mutata la natura del giudizio per quanto riguarda le condizioni cui il medesimo e' subordinato.

Il ricorrente fonda pero' la sua censura anche sulla circostanza che la prova di cui era stata chiesta l'ammissione era una prova nuova sopravvenuta al giudizio di primo grado (la sentenza di primo grado nel presente processo e' stata pronunziata il 25 novembre 2006 mentre la consulenza tecnica nel giudizio civile e' stata depositata, secondo quanto riferisce il ricorrente, il 1 marzo 2006).

Orbene ritiene la Corte che, nel caso di prova sopravvenuta dopo la sentenza di primo grado pronunziata nel giudizio abbreviato, la regola da applicare sia pur sempre quella di carattere generale per l'ammissione delle prove nel giudizio abbreviato prevista dall'articolo 441 c.p.p., comma 5; cioe' un potere di ammissione della prova da esercitarsi d'ufficio dal giudice quando ritenga di non poter decidere allo stato degli atti e in relazione al quale la parte ha soltanto un potere sollecitatorio (cfr. le gia' citate sentenze Carollo e Paccone).

Nel nostro caso il giudice di appello, con l'ordinanza impugnata - richiamando l'ampia discussione avvenuta in primo grado e l'espletamento della perizia - ha, con motivazione incensurabile in questa sede perche' logicamente motivata, escluso di non poter decidere il processo allo stato degli atti (cfr., per una soluzione analoga nel caso di giudizio abbreviato e di prova sopravvenuta, Cass., sez. 6, 18 dicembre 2006 n. 5782, Gagliano, rv. 236064; per l'estensione al giudizio abbreviato in appello della regola prevista dall'articolo 441 c.p.p., comma 5, v. inoltre Cass., sez. 5, 9 maggio 2006 n. 19388, Biondo, rv. 234157).

Ma a non diversa conclusione dovrebbe pervenirsi ove volessero ritenersi integralmente applicabili al giudizio abbreviato in appello le regole relative alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale indicate nell'articolo 603 c.p.p., gia' ricordato e, in particolare, la regola indicata nel comma 2. Il richiamo all'articolo 495 c.p.p., comma 1 - e dunque all'articolo 190 c.p.p., comma 1, cui fa riferimento l'articolo 495 c.p.p., comma 1 - non fa venir meno la correttezza della decisione perche' fondata su un giudizio corrispondente a quello di manifesta superfluita' della prova di cui era stata chiesta l'ammissione.

Ad analoga soluzione deve pervenirsi in relazione al diniego di acquisizione del parere pro veritate. Al di la' della valutazione sul carattere di inammissibilita' della nuova prova dedotta appare nella sostanza corretta la decisione dei giudici d'appello. La possibilita' per la parte di nominare consulenti tecnici anche fuori dei casi di perizia (articolo 233 c.p.p.) va infatti incontro alle medesime preclusioni previste per le altre prove quando l'imputato abbia chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato, condizionato o meno.

In questo caso non si tratta poi di prova sopravvenuta e dunque - nell'ipotesi maggiormente favorevole al ricorrente - i criteri di valutazione non possono che essere quelli previsti dall'articolo 441 c.p.p., comma 5, in relazione ai quali la Corte di merito ha espresso un giudizio di completezza del materiale probatorio nell'esame della censura precedentemente esaminata.

Va infine rilevato che la natura di consulenza tecnica del parere - che ne determina la preclusione all'acquisizione - non puo' essere modificata con la semplice sottoscrizione dei difensori evidentemente volta ad eludere il divieto di ulteriore integrazione del materiale probatorio.

6) Il concorso colposo nel delitto doloso. Malgrado il tema non sia stato sollevato con i motivi di ricorso la sua rilevabilita' d'ufficio (in quanto la risposta negativa sull'ammissibilita' del concorso colposo nel delitto doloso renderebbe immediatamente applicabile l'articolo 129 c.p.p., comma 1) rende necessario l'esame di questo aspetto della responsabilita' sul quale esistono opinioni divergenti in dottrina e in giurisprudenza.

In particolare non ignora la Corte che autorevoli orientamenti dottrinali si sono espressi negativamente sulla possibilita' che, nel nostro ordinamento, possa configurarsi una simile forma di compartecipazione. I pilastri di questa posizione negativa sono sostanzialmente due: l'articolo 42 c.p., comma 2 - che prevede la punibilita' a titolo di colpa nei soli casi espressamente preveduti dalla legge (e la legge non prevederebbe il concorso colposo nel delitto doloso) - e l'articolo 113 c.p., che prevede la compartecipazione colposa solo nel caso di delitto colposo.

L'esame della giurisprudenza di legittimita' consente di rilevare che la decisione piu' recente che abbia affrontato il problema e' orientata in senso favorevole a ritenere ammissibile il "concorso" colposo nel reato doloso. Ci si riferisce a Cass., sez. 4, 9 ottobre 2002 n. 39680, Capecchi, rv. 223214, che si rifa' a piu' risalenti precedenti (Cass., sez. 4, 20 maggio 1987 n. 8891, De Angelis, rv. 176499 e 4 novembre 1987 n. 875, Montori, rv. 177472) che hanno ritenuto ammissibile il concorso colposo in casi di incendio doloso sviluppatosi per la negligente sistemazione del materiale infiammabile (lo stesso caso della sentenza Capecchi).

Di contrario avviso erano stati altri precedenti, uno della medesima sezione 4 (sentenza 11 ottobre 1996 n. 9542, De Santis, rv. 206798), uno della terza sezione (20 marzo 1991 n. 5017, Festa, rv. 187331) e uno delle sezioni unite 3 febbraio 1990 n. 2720, Cancilleri, rv. 183495); questi ultimi due precedenti riguardano il caso del concorso colposo del notaio nel reato di lottizzazione abusiva.

In realta' solo il primo precedente indicato puo' ritenersi contrario all'ammissibilita' della forma di partecipazione di cui stiamo parlando perche' il caso del concorso del notaio e' caratterizzato dalla circostanza che il reato di lottizzazione abusiva e' ritenuto di natura dolosa; e come sarebbe possibile configurare una partecipazione colposa in un reato previsto solo nella forma dolosa ? D'altro canto l'orientamento espresso dalle sezioni unite si limita ad una mera enunciazione non motivata su questo problema.

Ritiene la Corte, pur trattandosi di tema particolarmente complesso e accidentato al quale sarebbe illusorio pretendere di dare risposte definitive ed esenti da critiche che, pur con i limiti di seguito indicati, possa darsi al quesito una risposta positiva.

Va premesso, pur non essendo questa la sede per addentrarsi in ricostruzioni teoriche, che la premessa da cui questa Corte ritiene di dover partire e' costituita dal riconosciuto superamento delle teorie che si rifanno al concetto di unitarieta' del fatto reato di natura concorsuale (ritenuto un "dogma" da parte di un illustre Autore pur contrario alla tesi dell'ammissibilita' del concorso colposo nel delitto doloso). Le difficolta' di inquadramento teorico di queste forme di partecipazione soggettiva eterogenea (i problemi si pongono anche per la partecipazione dolosa nel delitto colposo) si attenuano riconoscendo la pluralita' dei fatti reato nei casi in cui l'evento sia unico.

Esaminando le obiezioni alla tesi che ritiene ammissibile il concorso in precedenza indicate ritiene invece la Corte che queste obiezioni (certamente serie) siano superabili. E' infatti proprio l'esame congiunto delle due norme indicate (articolo 42 c.p., comma 2 e articolo 113 c.p.) che consente questa risposta; la compartecipazione e' stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perche', nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore - potrebbe dirsi "in aggiunta" - rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioe' l'aver previsto e voluto l'evento (sia pure con la sola accettazione del suo verificarsi, nel caso di dolo eventuale). Insomma il dolo e' qualche cosa di piu', non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione e' stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso della colpa che l'ha cosi' sintetizzata: "non c'e' dolo senza colpa".

Se questa ricostruzione e' plausibile la conseguenza e' che non fosse necessario prevedere espressamente l'applicabilita' del concorso colposo nel delitto doloso perche' se e' prevista la compartecipazione nell'ipotesi piu' restrittiva non puo' essere esclusa nell'ipotesi piu' ampia che la prima ricomprende e non e' caratterizzata da elementi tipici incompatibili. Questa rilettura incrina anche il valore dell'obiezione che si fonda sulla previsione dell'articolo 42 c.p., comma 2: non si tratterebbe di una previsione implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto che la disciplina riguardasse anche il tema piu' generale.

E' poi da rilevare che la gia' ricordata sentenza Capecchi ha ritenuto superabile l'ostacolo della previsione dell'articolo 40 c.p., comma 2, con un'ulteriore argomentazione che appare condivisibile: questa disciplina, anche per la formulazione letterale usata dal legislatore, non puo' che riguardare esclusivamente la previsione delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa, ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre dagli articoli 110 e 113 c.p..

Fermo restando, come si e' gia' accennato, che la partecipazione colposa puo' riguardare esclusivamente un reato previsto anche nella forma colposa: diversamente sarebbe palesemente violato il disposto dell'articolo 42 c.p., comma 2.

A questo punto si pone un ulteriore problema: che cosa avviene se ci si trova in presenza di concorso di cause colpose indipendenti ? Per natura e per definizione in questo caso non ci troviamo in presenza di un "concorso" di persone nel reato: tutte contribuiscono causalmente al verificarsi dell'evento ma gli atteggiamenti soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della consapevolezza dell'altrui partecipazione come invece avviene nella cooperazione colposa. In questi casi la concezione che si fonda sull'unitarieta' del reato non e' solo un dogma ma e' proprio da ritenersi errata perche' alcun legame esiste, sotto il profilo soggettivo, tra le varie condotte anche se l'evento e' unico.

Quando ci si trovi in presenza di cause colpose indipendenti l'applicabilita' delle regole sul concorso di cause e' espressamente prevista, sotto il profilo causale, dall'articolo 41 c.p., il cui comma 3, prevede espressamente che questa disciplina si applichi anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consista nel fatto illecito altrui.

Ma proprio perche' le condotte sono indipendenti le medesime andranno autonomamente valutate e per ciascuna di esse andra' accertato se abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e se la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti tipici della colpa. In questi casi, proprio per l'indipendenza delle azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, cio' che assume particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene irrilevante che uno o piu' dei contributi causali possa avere carattere doloso perche' la disciplina sulla causalita' contenuta nel citato articolo 41 c.p., riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.

E allora se per il riconoscimento della partecipazione colposa indipendente al reato doloso non esistono ostacoli insuperabili e' agevole concludere che sarebbe irragionevole, nel caso di cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso solo perche' l'agente e' consapevole dell'altrui condotta dolosa.

Il dippiu' costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di questa condotta e non quando questa consapevolezza esista ?

Deve dunque concludersi, sul tema esaminato, che e' ammissibile il "concorso" colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti che nel caso di cooperazione colposa e purche', in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa.

Riconosciuta l'astratta ammissibilita' del concorso colposo nel delitto doloso non e' necessario addentrarsi nell'ulteriore aspetto che presenta il caso in esame caratterizzato dalla circostanza che il fatto "doloso" del terzo e' stato compiuto da persona non imputabile.

Il riconoscimento della natura non dolosa della condotta della persona non imputabile sarebbe infatti idoneo a rafforzare la possibilita' di riconoscere la compartecipazione dell'estraneo.

Va pero' precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilita' di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perche', una volta accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente, andra' verificata l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento.

Per la soluzione di questo complesso problema puo' intanto osservarsi che, nel caso in cui l'evento dannoso si verifichi all'esito di una sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del terzo e' necessario verificare anzitutto, sotto il ricordato profilo dell'elemento soggettivo, se la regola cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo: si pensi a chi, preposto alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo all'assalitore di ledere l'integrita' fisica della persona protetta. E' la posizione di garante rivestita dall'agente che fonda l'obbligo di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione integra la colpa.

Indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia analoghi obblighi di tutela possono discendere dall'esistenza di un potere di controllo di fonti di pericolo quali per es. armi, veleni, esplosivi; per es. il farmacista non puo' vendere un farmaco potenzialmente letale alla persona che sa aver gia' tentato di avvelenare un familiare; chi possiede un'arma non puo' lasciarla incustodita in un luogo frequentato da bambini. I casi gia' indicati relativi alla creazione dei presupposti perche' si sviluppi un incendio doloso si inquadra in questa categoria del controllo delle fonti di pericolo.

Un utile strumento di verifica puo' poi essere quello che si rifa' allo scopo della regola cautelare violata dall'agente in colpa. Se la regola cautelare e' diretta anche alla tutela di terzi dall'aggressione dolosa dei loro beni e' la tutela finalizzata di essi che rende configurabile la partecipazione dell'agente in colpa.

I casi piu' complessi sono ovviamente quelli nei quali la regola e' stata predisposta non tanto per altri fini ma in vista di decorsi causali diversi: si pensi al lavoratore che opera in altezza e che non sia stato munito delle cinture di sicurezza. Risponde il datore di lavoro anche delle conseguenze di una caduta (che non si sarebbe verificata con l'uso del mezzo di protezione) volontariamente cagionata da un terzo ?

E' ragionevole ritenere, in questi casi, che cio' che rileva e' l'individuazione dell'evento dannoso che la regola cautelare mira ad evitare : anche se questa regola e' stata pensata in relazione a percorsi causali diversi il rischio che la norma concretamente vuole evitare e' quello di caduta indipendentemente dalle cause che l'hanno provocata. E cosi' in tutte quelle situazioni nelle quali l'evento volontariamente cagionato e' della stessa natura di quello preso in considerazione nella formazione della regola cautelare.

Diverso e' ancora il caso in cui la condotta dell'agente costituisca l'occasione perche' il terzo compia l'atto doloso. In questo caso si torna alle considerazioni iniziali: per ravvisare la responsabilita' colposa del primo agente occorrera' che questi sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che sia prevedibile l'atto doloso del terzo.

Il nostro caso puo' dunque essere risolto solo dopo che si accerti l'esistenza di una posizione di garanzia del dott. PO. in favore del paziente e l'ambito di questa posizione (se sia cioe' prevista non tanto per la tutela dei terzi quanto per evitare l'aggressione da parte del paziente anche ai beni di terzi) oltre che della prevedibilita' ed evitabilita' dell'evento dannoso. Queste risposte potranno quindi essere date solo dopo l'esame dei motivi di ricorso.

L'intreccio che presenta questo processo tra i temi della causalita' e quelli della colpa rende necessaria una trattazione dei medesimi per cosi' dire "asimmetrica". Fermo restando che non e' in discussione la causalita' "materiale" dell'evento e che all'imputato sono state contestate condotte colpose omissive e commissive sembra opportuno procedere preliminarmente alla verifica dell'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. PO. al fine di verificare se su di lui incombesse l'obbligo giuridico di impedire l'evento. Successivamente, essendo in discussione la c.d. "causalita' della condotta" e la ed, "causalita' della colpa", si procedera' alla verifica della correttezza logico giuridica della motivazione della sentenza impugnata sull'esistenza di una condotta causalmente efficiente dell'imputato sul verificarsi dell'evento e sull'esistenza della violazione, da parte sua, di regole cautelari che abbia avuto analoga efficacia su queste conseguenze della condotta inosservante.

7) L'esistenza della posizione di garanzia. Si e' gia' accennato che, all'interno del quarto motivo dedicato ai temi della colpa il ricorrente contesta l'esistenza di una posizione di garanzia a lui riferibile. Secondo il motivo di ricorso, infatti, sarebbe erronea l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, sull'irrilevanza del titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato perche' il paziente risultava affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunita', operava anche un diverso medico psichiatra con l'incarico di consulente e il dott. PO. aveva il solo compito, all'interno del gruppo di lavoro di cui faceva parte, di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali.

A conferma della sua tesi il ricorrente, con la memoria 16 ottobre 2007, ha prodotto il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunita' del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. PO..

All'esame di queste censure vanno premesse alcune considerazioni. Com'e' noto l'obbligo di garanzia si fonda sul disposto del capoverso dell'articolo 40 c.p., secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, laddove si fa riferimento all'obbligo giuridico di impedire l'evento.

Il fondamento di questa disposizione e' da ricercare nei principi solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute negli articoli 2 e 32 Cost. e articolo 41 Cost., comma 2) una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni - non essendo i titolari di essi in grado di proteggerli adeguatamente - con l'attribuzione, a determinati soggetti, della qualita' di "garanti" della salvaguardia dell'integrita' di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona; a questa qualita', naturalmente, devono contestualmente accompagnarsi poteri impeditivi dell'evento.

Diversamente, sotto il profilo soggettivo, difetterebbe l'esigibilita' della condotta (la madre risponde di non aver nutrito l'infante non di aver omesso di salvarlo dall'annegamento se non sapeva nuotare).

Sull'origine e sull'ambito di applicazione della posizione di garanzia v'e' contrasto tra le teorie che ritengono che gli obblighi del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti si parla di teoria "formale" della posizione di garanzia) e le teorie che fanno riferimento piuttosto a criteri sostanzialistici (ma esistono anche teorie c.d. "miste").

La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell'articolo 40 c.p., (che parla infatti di obbligo "giuridico"), individua, quali fonti dell'obbligo in questione, la legge e il contratto (e su queste fonti sostanzialmente non esistono divergenze; l'unica difformita' di orientamento riguarda forse il caso del contratto cui non partecipi il titolare del ben protetto) nonche' la precedente condotta illecita o pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste fonti invece le opinioni sono divergenti anche perche', piu' in generale, la soluzione del problema della fonte e' strettamente connessa al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie).

Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il rispetto dei principi di tassativita' e determinatezza richiede che la cerchia dei titolari dell'obbligo di garanzia sia determinata soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati con esclusione quindi di doveri esclusivamente morali. E naturalmente i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante purche' gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare (anche giudizialmente) che l'evento dannoso venga cagionato (per es. i poteri dei sindaci delle societa' su cui peraltro esiste dissenso in dottrina).

La giurisprudenza di legittimita' ha piu' volte riaffermato che la posizione di garanzia puo' avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr. Cass., sez. 4, 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari; 5 novembre 1983 n. 9176, Bruno).

Passando ad esaminare piu' specificamente il tema della responsabilita' medica va osservato che una posizione di garanzia del medico puo' sorgere esclusivamente con l'instaurazione della relazione terapeutica tra il paziente e il professionista. Questa relazione si puo' instaurare su base contrattuale - come avviene nel caso di paziente che si affidi al medico di fiducia - ma anche in base alla normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene nel caso di ricovero ospedaliero o in strutture protette; casi nei quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge un obbligo giuridico di impedire l'evento. E' invece stato escluso in dottrina che sorga una posizione di garanzia "in capo al medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere, nel quadro di una relazione di amicizia, convivialita', familiarita' o convivenza, ma al di fuori di uno specifico conferimento di incarico professionale".

Naturalmente l'esistenza di una posizione di garanzia non si pone in contraddizione con una causazione attiva dell'evento da parte del garante; in particolare con il mancato esercizio dei poteri impeditivi che e' obbligato ad esercitare (il medico che somministra erroneamente un medicinale al quale il paziente a lui affidato e' allergico - causalita' attiva - e' tenuto ai necessari interventi per escludere o ridurre le conseguenze della somministrazione).

V'e' ancora da osservare che la posizione di garanzia e' riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione.

La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrita': tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell'incolumita' personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l'integrita' sessuale dei minori).

Come e' evidente l'ambito elettivo di questi obblighi e' quello familiare ma l'obbligo di protezione puo' derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).

La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attivita' pericolose - che trova il fondamento normativo nell'articolo 2050 c.c., - il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc..

Il piu' delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all'esistenza di un "potere di organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica incolumita'.

Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare che al dott. PO. fosse attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute psichica del paziente MU.. Diversamente non si comprendono le ragioni per cui siano stati a lui attribuiti il trattamento del caso di MU. sotto il profilo psichiatrico, l'adeguamento e la modifica della terapia farmacologia, i colloqui terapeutici con il paziente, la richiesta di intervento quando si manifestarono i sintomi di scompenso. Quale che fosse l'incarico formalmente attribuito al dott. PO. all'interno della comunita' (OMESSO) egli ha di fatto svolto la funzione di tutelare la salute psichica del paziente ed ha accettato di svolgere questo incarico che dunque trova la sua origine in un vincolo contrattuale che la struttura (pubblica o privata che sia) gli ha conferito l'incarico e in un vincolo normativo conseguente all'instaurazione di una relazione terapeutica con il paziente.

Non puo' dunque negarsi che il dott. PO. fosse gravato di una posizione di garanzia in favore del paziente MU. sotto il profilo dell'instaurazione di un obbligo di protezione. Cio' che, del resto, e' ammesso nel ricorso nel quale (a p. 23) si ammette che in base all'organizzazione descritta il medico psichiatra (il dott. PO.) "era incaricato prevalentemente della gestione della terapia psicofarmacologica dei casi"; e cio' vale ad istituire la posizione di garanzia indipendentemente dalla circostanza, pure sottolineata nel ricorso, che gli aspetti sociali, relazionali, riabilitativi e comunicativi erano appannaggio degli operatori non medici e non sanitari".

8) La cura del paziente psichiatrico e il trattamento sanitario obbligatorio. Se dunque i giudici di merito hanno logicamente accertato l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. PO., finalizzata alla protezione della salute psichica del paziente MU., va ora verificato se sia corretta la motivazione la motivazione della sentenza impugnata in relazione ad una delle ipotesi di colpa contestate all'imputato: quella, di natura omissiva, concernente la mancata richiesta del trattamento sanitario obbligatorio. Su questo punto va preliminarmente osservato che la piu' parte delle considerazioni svolte nel ricorso e' da ritenere largamente condivisibile.

In particolare sono condivisibili le osservazioni che si riferiscono al grande valore innovativo della Legge 13 maggio 1978, n. 180 (accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) nel trattamento delle "malattie mentali" (cosi' la legge definisce le malattie di origine psichica).

A fronte di una disciplina previgente che prendeva in considerazione essenzialmente l'aspetto custodiale per la tutela dei terzi da atti aggressivi (ma anche per una sorta di "discredito" socialmente diffuso nei confronti del malato psichico da cui si sentivano colpite anche le famiglie dei pazienti) la Legge n. 180 del 1978 ha finalmente conferito a questa categoria di pazienti la stessa dignita' che hanno le persone affette da altre patologie e ha limitato il contenimento personale ai soli casi di necessita' in una prospettiva di cura e di superamento, ove possibile, del disagio e della malattia.

Queste finalita' non potevano dunque che essere perseguite abolendo lo strumento principale espressione della visione pressoche' esclusivamente custodiale (il manicomio) per cercare di inserire il malato in un ambiente sociale e familiare piu' adeguato alla tutela della sua persona con un trattamento terapeutico che si e' frequentemente dimostrato ben piu' efficace per il miglioramento delle condizioni di salute. Uno degli strumenti di questa lodevolissima opera di reinserimento sociale, che ha raggiunto in generale risultati molto apprezzabili, e' proprio quello dell'inserimento in comunita' terapeutiche come quella in cui si e' verificato il tragico episodio nella quale - come risulta dalle sentenze di merito - anche MO. sembrava avere raggiunto un accettabile equilibrio, disponeva di spazi di autonomia (usciva regolarmente, utilizzava disponibilita' di spesa ecc.).

Naturalmente il legislatore del 1978 non e' stato cosi' ingenuo da ritenere che bastasse abolire i manicomi per eliminare la malattia mentale (visione che ancor oggi una lettura un po' caricaturale della Legge n. 180 del 1978 tende ad accreditare) e ha previsto la possibilita' che nei confronti del malato psichico potessero essere disposti accertamenti e trattamenti sanitari "obbligatori" ma nel rispetto "della dignita' della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura" (articolo 1, comma 2).

Per venire al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera di cui si discute nel presente processo si rileva che il medesimo puo' essere disposto "nei confronti delle persone affette da malattie mentali (articolo 2, comma 1) in presenza di questi presupposti: 1) che esistano "alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici"; 2) che "gli stessi non vengano accettati dall'infermo"; 3) che non sia possibile "adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere".

Vano sarebbe pero' trovare nella Legge n. 180 del 1978 una norma che confermi la tesi del ricorrente secondo cui la tutela sanitaria obbligatoria prevista dal ricordato articolo 2, sarebbe preordinata esclusivamente alla tutela del malato e non anche dei terzi. E' vero che lo scopo primario delle cure psichiatriche e' quello di eliminare o contenere la sofferenza psichica del paziente; ma quando la situazione di questi sia idonea a degenerare - anche con atti di auto o etero aggressivita' - il trattamento obbligatorio presso strutture ospedaliere e' diretto ad evitare tutte le conseguenze negative che la sofferenza psichica cagiona.

E' del resto illusorio separare le conseguenze personali (che sole giustificherebbero il trattamento secondo il ricorrente) da quelle verso terzi: la manifestazione di violenza ed aggressivita' non reca danno solo al terzo aggredito ma anche all'aggressore. Emblematico e' il caso che stiamo trattando: a MU. (vittima anche lui del suo disturbo psichico) nel processo conseguente all'uccisione dell'operatore e' stata applicata, a seguito del proscioglimento per mancanza di imputabilita', la misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; e in questa struttura contenitiva MU., qualche anno dopo, e' deceduto. Anche nei confronti di se stesso il suo gesto omicida ha quindi avuto conseguenze personali gravissime.

Insomma il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto anche nel caso in cui la malattia si manifesti con atteggiamenti di aggressivita' verso terzi non diversamente contenibili. Del resto non si comprende quali possano essere le alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici se non le manifestazioni di aggressivita' nei confronti di se stessi o di terzi. Se non esistono queste manifestazioni, ma altre espressioni della sofferenza psichica, e' ben difficile ipotizzare situazioni nelle quali sia necessario un contenimento anche fisico in ambito ospedaliere.

Cio' premesso si osserva peraltro che il motivo di ricorso che stiamo esaminando e' da ritenere fondato sotto un diverso profilo. Abbiamo visto che uno dei tre presupposti perche' possa essere disposto il trattamento sanitario obbligatorio e' costituito dal rifiuto (mancata accettazione) delle cure da parte del paziente. Ebbene, nel caso in esame questo requisito - in base alla ricostruzione incensurabile dei fatti operata dai giudici di merito - non puo' ritenersi pienamente realizzato.

E' vero che tutto l'ultimo periodo della tragica vita di MU. e' stato costellato da continui atteggiamenti di rifiuto delle terapie e da ripensamenti e assunzioni delle medesime ma e' pur vero che, quanto meno fino al 22 maggio 2000, il paziente risulta aver assunto la terapia sia pure accompagnando la sua condotta con minacce di morte all'operatrice, rifiutando che gli venisse somministrata da altri medici ma, alla fine, accettando la somministrazione da parte del suo medico personale.

Da tale ricostruzione operata dai giudici di merito non appare dunque realizzato il requisito della mancata accettazione delle terapie da parte del paziente che avrebbe giustificato la richiesta di t.s.o. e quindi questo elemento di colpa di natura omissiva non puo' essere addebitato all'imputato. Ne' questo ostacolo puo' essere superato, come ha fatto il giudice di primo grado, con il rilievo che esisteva il forte dubbio che MU. assumesse la terapia orale essendo, questa circostanza, comunque rimasta a livello di congettura perche' indimostrata.

9) Gli elementi di colpa consistenti nella riduzione e sospensione della terapia. Sono invece infondate le censure che si riferiscono agli altri elementi di colpa ravvisati dai giudici di merito nella condotta del dott. PO.; condotta da sola sufficiente a fondare l'affermazione di responsabilita' perche' ad essa e' causalmente ricollegabile l'evento verificatosi.

In sintesi l'elemento fondamentale di violazione delle leggi dell'arte medica psichiatrica e' costituito dalla drastica riduzione (alla meta') e, successivamente, dalla eliminazione della terapia farmacologia in precedenza assunta da MU.. Dalla sentenza impugnata emerge che il dott. PO. prese in carico il paziente negli ultimi mesi del 1999 (la data precisa non e' stata accertata) e il primo intervento documentato e' del 1 ottobre 1999. Dopo alcuni mesi - il 16 marzo 2000 - il dott. PO. riduceva della meta' il farmaco neurolettico (Moditen) di tipo "depot" (ad assorbimento graduale del principio attivo, la flufenazina); avendo ritenuto che la riduzione non avesse avuto effetti negativi l'imputato decideva quindi, il 24 aprile 2000, di sospendere la somministrazione del farmaco.

E' da sottolineare che la sentenza impugnata descrive vari episodi di scompenso psicotico verificatisi dall'ottobre 1999 fino alla data di sospensione del trattamento farmacologico per cui esente da alcuna illogicita' deve ritenersi la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto incongrua la scelta terapeutica del dott. PO. peraltro sconsigliata dai precedenti medici che avevano seguito il paziente proprio per l'elevato rischio di scompenso che la riduzione o sospensione avrebbe comportato.

Ancor piu' grave e' stata ritenuta la scelta di sospendere il trattamento il 24 aprile anche perche' due degli episodi di scompenso (MU. aveva denunziato per due volte la sparizione dei suoi soldi in banca) erano avvenuti dopo la riduzione e prima della sospensione della somministrazione del farmaco (il 3 e l'11 aprile) e la Corte di merito riferisce che gli episodi erano stati portati a conoscenza dell'imputato.

Dopo la sospensione del trattamento le condizioni del paziente peggioravano e, dopo vari episodi significativi dello scompenso in atto, il dott. PO. era costretto a ripristinare la terapia con la somministrazione del farmaco neurolettico nella posologia originaria (peraltro con efficacia immediata assai ridotta per le modalita' di rilascio del principio attivo), introducendo anche un altro farmaco ad efficacia piu' immediata, da assumere per via orale, nella specie risultato privo di efficacia.

Il primo problema che si pone e' quello di valutare l'adeguatezza della motivazione con cui i giudici di merito hanno ritenuto imperita e imprudente (oltre che negligente per l'inadempimento degli obblighi conoscitivi, come si dira' piu' avanti) la scelta dell'imputato di operare prima una riduzione cosi' drastica e successivamente l'eliminazione della terapia farmacologia in un paziente affetto da una grave forma di "schizofrenia paranoide cronica in fase di parziale remissione" (e' la diagnosi postuma formulata dai consulenti tecnici dell'imputato).

A questo fine va premesso che non e' (ovviamente) in discussione la liberta' delle scelte terapeutiche del medico che - in cio' appare corretto quanto si afferma nel ricorso - deve indirizzarle anzitutto al miglioramento del benessere del paziente e alla riduzione degli effetti collaterali della somministrazione dei farmaci (nel caso di specie particolarmente pesanti in termini di sedazione e di effetti parkinsoniani); ma questa condivisibile finalita' deve essere perseguita con la gradualita' e l'attenzione richieste in relazione alla gravita' della situazione patologica del paziente. E tenendo conto che la richiesta del paziente puo' essere ricollegata, come nel caso di specie (cosi' riferiscono le sentenze di merito), ad un mancato riconoscimento della malattia da parte sua.

E' quindi del tutto logico il percorso motivazionale dei giudici di merito che hanno ricostruito (soprattutto la sentenza di primo grado) gli episodi della patologia di MU. la cui prima manifestazione di malattia risale addirittura al 1963 e la cui storia di sofferenza psichica comprende vari e lunghi ricoveri in ospedale psichiatrico giudiziario e in ospedali psichiatrici con numerosissimi episodi di delirio nonche' continue e gravi manifestazioni di aggressivita' nei confronti di terzi, di intolleranza e di episodi a sfondo persecutorio.

Legittima poteva quindi essere ritenuta la scelta di una progressiva riduzione della terapia farmacologia ma altrettanto logica la valutazione dei giudici di merito i quali hanno motivatamente condiviso il giudizio dei periti di ufficio i quali hanno sostenuto che, in un paziente affetto da una patologia di cosi' elevata gravita' (che si caratterizza altresi', rispetto ad altre patologie di natura psichica, per la maggior frequenza di episodi di aggressivita'), non cosciente della sua patologia e quindi con un atteggiamento di limitata accettazione (se non rifiuto) della terapia e con una forte carica aggressiva la scelta della riduzione e soprattutto quella della eliminazione dei farmaci neurolettici avrebbe potuto essere adottata in un paziente in remissione da almeno cinque anni.

Gia' di questa remissione era assai dubbia l'esistenza anche perche', riferiscono i giudici di merito, inspiegabilmente dall'epoca del ricovero del paziente nella comunita' (OMESSO) (avvenuto nel (OMESSO)) e fino al 1999 - non risulta alcuna annotazione nella cartella clinica di MU.. E comunque i periti d'ufficio hanno al contrario affermato che la situazione clinica di MU., al momento della modifica della terapia, non era quella di un soggetto in "remissione" sintomatologia ma, al contrario, era da tempo un paziente sull'orlo dello scompenso, e quindi ad alto rischio di scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressivita' nonche' di sintomi "positivi"".

Ma, anche ammesso che si fosse realizzata una certa stabilizzazione e che la patologia fosse attualmente in fase di parziale remissione, la sentenza impugnata richiama, condividendola, la valutazione dei periti i quali hanno ritenuto che - anche in presenza di una remissione duratura delle manifestazioni piu' eclatanti della malattia - la modificazione della terapia avrebbe dovuto essere attuata con una ben diversa gradualita'. Tanto piu'

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