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Un islamico residente in Italia, se maltratta la moglie, va punito con la stessa severità riservata agli italiani

Chi risiede nel territorio italiano non può ottenere sconti di pena adducendo il suo diverso contesto culturale di appartenenza. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione Sezione 6 Penale con sentenza del 16 dicembre 2008, n. 46300. Ne consegue che un islamico residente in Italia, se maltratta la moglie, va punito con la stessa severità riservata agli italiani.



- Leggi la sentenza integrale -

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLIVA Bruno - Presidente

Dott. GRAMENDOLA Francesco Paol - Consigliere

Dott. LANZA Luigi - Consigliere

Dott. DOGLIOTTI Massimo - Consigliere

Dott. MATERA Lina - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FA. Ab. nato il (OMESSO), cittadino dello Stato del (OMESSO);

avverso la sentenza della Corte di appello di Torino, in data 31 marzo 2006, che ha confermato la sentenza 27 maggio del G.I.P. del Tribunale di Torino, la quale ha dichiarato la responsabilita' dell'imputato: per il reato di maltrattamenti in famiglia di cui al capo A (in esso assorbito il reato di minacce del capo E); di sequestro di persona di cui al capo B; di violenza sessuale in danno della moglie di cui al capo C), di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sia nei confronti del coniuge che del figlio minore A. , di cui al capo D), piu' grave il reato del capo A e lo ha condannato alla pena di anni 2 mesi 6 e giorni 20 di reclusione.

Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso.

Sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LANZA Luigi;

Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa DE SANDRO Anna Maria, che ha concluso per la pronuncia di inammissibilita' del ricorso.

CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO

Con un primo ed unico motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce la violazione dell'articolo 606, comma 1, lettera e), per carenza di motivazione in punto di elemento soggettivo dei reati contestati.

In buona sostanza il ricorso lamenta che il giudice della condanna, in punto di rapporti e relazioni socio-affettive tra coniugi e di rapporti economici genitori/figli, abbia applicato schemi valutativi, tipici della cultura occidentale, senza rispetto delle esigenze di integrazione razziale e senza pesare, nella condotta del reo, cittadino (OMESSO) la diversita' culturale e religiosa che ha improntato ed informato, finalisticamente, le azioni da lui compiute e ritenute illecite: maltrattamenti, sequestro di persona, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare.

In altre parole, secondo l'argomentare del ricorrente, tale vizio "culturale" ha finito con invalidare la decisione dei giudici di merito i quali hanno concluso l'azione penale sulla scorta di valutazioni assiologiche, che hanno avuto come esclusivo fondamento sostanziale un pregiudizio etnocentrico, privo di motivazione in punto di soggettivita' dei delitti ritenuti.

Il ricorso, al limite dell'inammissibilita' per la sua infondatezza, sembra muoversi dall'erronea considerazione che l'applicabilita' delle norme penali, ai cittadini di cultura ed etnia diversa, in quanto portatori di tradizioni sociologiche, abitudini antropologiche configgenti con la norma penale, debba essere filtrata da tali variabili comportamentali, con una risposta giudiziaria che, secondo il ricorso, verrebbe a scriminare l'azione penalmente illecita, introducendo una sorta di generalizzato difetto dell'elemento soggettivo.

Sotto tale suggestivo profilo, e secondo l'assunto del ricorrente, l'azione vietata e "contra legem" dello straniero (minacce, percosse, lesioni, maltrattamenti, sequestro di persona, violenza sessuale), andrebbe inquadrata e giustificata nei "profili di soglia" della concezione della famiglia, tipica del gruppo sociale di appartenenza, che tali condotte appunto consente e, come nel caso della moglie che rifiuta "il debito coniugale", talora impone.

La situazione evoca il ben noto fenomeno dei "reati culturali" che la dottrina ha definito come il frutto di un conflitto normativo, suggestivamente espresso con il termine di "interlegalita'" intesa come condizione di chi, dovendo operare una scelta, e' costretto a fare riferimento ad un quadro articolato di norme, contemporaneamente vigenti ed interagenti tra sistemi giuridici diversi.

Siffatta realta' ha determinato nei vari Stati, interessati da massicci flussi migratori, due diversificate prospettive di multiculturalismo. La prima, di tipo "assimilazionista", persegue l'inserimento dello straniero nel tessuto nazionale ed esige come contropartita una sostanziale rinuncia alle sue radici etnico - culturali; la seconda invece, orientata su protocolli di "integrazione-inclusione" (simbolica e pratica), e' tendenzialmente disposta ad accettare le richieste identitarie ed e' sensibile alle specificita' culturali "altre".

In tale ultimo modello, fondato su logiche multirelazionali e moduli di "co-apprendimento evolutivo", il risultato che viene prospettato come realizzabile e' quello di una societa' politica (priva di identita' culturale dominante o maggioritaria) costituita da identita' culturali molteplici, con eguale diritto di riconoscimento.

E' del tutto evidente che entrambe le prospettive, nel nostro sistema penale, in tanto possono attuarsi se e nella misura in cui non contrastino con i principi cardine del nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia, rapporti interpersonali di coppia ivi compresa l'interazione sessuale che nel nostro sistema e' stata rigidamente ed innovativamente regolata dalla Legge n. 66 del 1996.

Sul piano pratico, gli esperti di filosofia e sociologia del diritto hanno osservato come i paesi europei, investiti da fenomeni migratori abbiano di fatto perseguito una politica "mistilinea", piu' o meno assimilazionista, con sostanziale richiesta al "non-nativo" di rinuncia alla sua specificita' culturale. Per l'Italia, oggi, appare decisamente "pro-immigrato" (e quindi "integrazionista - indusionista"), la previsione della configurabilita' della circostanza aggravante (stabilita dal Decreto Legge 26 aprile 1993, n. 122, articolo 3, comma 1, conv. con modif. in Legge 25 giugno 1993, n. 205) della "finalita' di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso", mentre e' invece di segno culturale decisamente contrario e "assimilazionista" la norma sulla repressione penale dell'infibulazione, stabilita dall'articolo 583 bis c.p., (Legge 9 gennaio 2006, n. 7, articolo 6, comma 1), nonche' la norma sulla bigamia (articolo 556 c.p.) in tema di delitti contro il matrimonio.

Tuttavia, al di la' di tali nozioni, di inquadramento socio - culturale e storico del fenomeno, anche per i reati culturali o culturalmente orientati, il giudice non puo' sottrarsi al suo compito naturale - come sembra pretendere il ricorrente - di rendere imparziale giustizia con le norme positive vigenti, "caso per caso", "situazione per situazione", assicurando ad un tempo:

a) tutela alle vittime (irrilevante l'eventuale loro consenso alla lesione di diritti indisponibili: cfr. Cass. Penale sez. 6, 3398/1999, Rv. 215158, Bajarami);

b) garanzie agli accusati, in punto di rigore nella ricerca della verita' e nell'applicazione delle norme;

c) e infine, a responsabilita' accertata, personalizzazione della condanna (Corte Costituzionale, 253/2003), con una sanzione che va ricercata ed individuata nel rispetto del principio di "legalita' delle pene", sancito dall'articolo 25 Cost., comma 2, atteso che tale norma costituzionale ha dato forma ad un sistema in cui l'attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione piu' che l'uniformita' (Corte Costituzionale n. 50/1980 Num. mass.: 0009478; Sent. n. 299/1992).

In tale ottica, il ruolo di mediatore culturale che la dottrina attribuisce al giudice penale, non puo' mai attuarsi - come richiesto nel ricorso - al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita ed i profili soggettivi che presiedono ai comportamenti, che integrano ipotesi di reato, nella cornice della irrilevanza della "ignorantia juris", pur letta nell'alveo interpretativo della Corte delle leggi.

L'assunto difensivo, secondo cui (ferma la consapevolezza della illiceita' della condotta, secondo le regole dello Stato di residenza) l'elemento soggettivo del delitto de quo sarebbe escluso dal concetto che l'imputato, quale cittadino di religione musulmana, ha della convivenza familiare e delle potesta' anche maritali, a lui spettanti quale capo-famiglia (concetto abbondantemente differente dal modello e dalla concezione corrente nello Stato italiano), non e' in alcun modo accoglibile, in quanto si pone in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno a base dell'ordinamento

giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali.

Vanno in proposito adesivamente richiamati i principi costituzionali dettati: dall'articolo 2, attinenti alla garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (ai quali appartiene indubbiamente quello relativo all'integrita' fisica e la liberta' sessuale), sia come singolo sia nelle formazioni sociali (e fra esse e' da ascrivere con certezza la famiglia); dall'articolo 3, relativi alla pari dignita' sociale, alla eguaglianza senza distinzione di sesso e al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la liberta' e l'eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (cfr. in termini: Cass. Sez. 6, 20 ottobre 1999, Bajrami). Tali principi costituiscono infatti uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione, di diritto e di fatto, nella societa' civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come "antistorici" a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l'affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero.

Ne consegue l'indubbia ricorrenza nella fattispecie del dolo degli illeciti contestati, stante l'obbligo per l'imputato di conoscere, ai sensi dell'articolo 5 c.p., il divieto imposto dalla legge ai comportamenti lesivi da lui posti in essere, quale che possa essere stata, per lui, la valutazione della condotta che ha voluto e realizzato, quand'anche essa sia stata ritenuta innocua, oppure socialmente utile e non riprovevole (Cass. Penale sez. 6, 55/2003, Khouider). Profilo quest'ultimo, sicuramente da apprezzarsi nel quadro multiforme delle variabili apprestate dall'articolo 133 c.p., in punto di personalizzazione e adeguatezza della pena, ma non oggetto di critiche nei motivi di ricorso portati all'attenzione del Suprema Corte.

L'impugnazione risulta pertanto infondata, per gli aspetti prospettati, e la parte proponente va condannata ex articolo 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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