Le plusvalenze derivanti dalla cessione di un'azienda gestita in regime di impresa familiare vanno imputati ai singoli partecipanti a prescindere dalla loro effettiva percezione

Le plusvalenze derivanti dalla cessione di un'azienda gestita in regime di impresa familiare, cosi' come i redditi derivati dall'esercizio della stessa, vanno imputati ai singoli partecipanti a prescindere dalla loro effettiva percezione. Ne consegue che ai fini della determinazione dell'imposta sul reddito del singolo partecipante all'impresa familiare, che risulti avere incassato i proventi della cessione d'azienda, occorre stabilire non gia' se questi abbia o meno fornito la prova di avere liquidato agli altri partecipanti la quota ad essi spettante, ma soltanto quale fosse la sua quota di partecipazione agli utili dell'impresa, e cio' a prescindere anche dalla indicazione nella relativa dichiarazione (V. pure Cass. Sentenze n. 21535 del 15/10/2007, n. 2895 del 2002).



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore - rel. Consigliere

Dott. MERONE Antonio - Consigliere

Dott. PARMEGGIANI Carlo - Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

- ricorrenti -

contro

SC. VI., VA. MA., elettivamente domiciliati in ROMA VIA COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell'avvocato AMOROSO GAETANO, che li rappresenta e difende giusta delega in calce;

- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 4/2003 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 17/02/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2009 dal Consigliere Dott. SALVATORE BOGNANNI;

udito per il resistente l'Avvocato ARGIOLA LUCIANO, che deposita procura speciale notarile Dr.ssa M. Antonietta CAVALLO di nomina a difensore di fiducia con revoca del precedente e si riporta agli scritti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO RICCARDO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso presentato alla commissione tributaria provinciale di Roma i coniugi Sc.Vi. e Va.Ma. impugnavano l'avviso di accertamento per Irpef ed Ilor per l'anno d'imposta 1989, fatto loro notificare dall'ufficio delle imposte di questa citta' a seguito della cessione di un ristorante per il plusvalore, costituito dall'avviamento commerciale e dalle attrezzature varie. I contribuenti rappresentavano di non essere tenuti al pagamento di tali tributi, in quanto l'attivita' d'impresa era di carattere familiare, posto che quel locale era gestito solo dal marito, con la collaborazione del fratello Dino; semmai la prima imposta doveva essere corrisposta in proporzione alla ripartizione degli utili pro-quota, mentre la seconda comunque non era dovuta, trattandosi di attivita' svolta prevalentemente con il lavoro proprio rispetto al capitale; in ogni caso quell'atto impositivo non era stato notificato al collaboratore familiare, anch'egli interessato, e cioe' il fratello, cui quindi non veniva garantito il diritto di difesa. Chiedevano percio' l'annullamento della rettifica.

Instauratosi il contraddittorio, l'ufficio delle imposte eccepiva l'infondatezza dell'opposizione, posto in particolare che la ripartizione pro-quota del carico fiscale in base alla entita' della partecipazione non era possibile, dal momento che i contribuenti avevano omesso di dichiarare la cessione dell'esercizio; percio' chiedeva il rigetto del ricorso.

Il giudice adito, in parziale accoglimento del medesimo, annullava l'atto impositivo in parte con sentenza n. 343 del 2001.

Avverso tale decisione l'agenzia delle entrate proponeva appello principale, cui Sc. e Va. resistevano, svolgendo a loro volta quello incidentale, dinanzi alla commissione tributaria regionale del Lazio, la quale, con sentenza del n. 4 del 7.2.2003, ha rigettato il primo e accolto il secondo gravame, osservando che nel caso di specie l'imponibile era costituito soltanto dalla quota percepita dal titolare dell'impresa familiare, e che il lavoro dei partecipanti all'impresa aveva carattere prevalente sul capitale, sicche' l'Ilor non andava corrisposta.

Contro questa decisione il Ministero dell'economia e delle finanze e l'agenzia delle entrate hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico articolato motivo.

Sc. e Va. hanno resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va rilevato che il Ministero non era stato parte nel giudizio di secondo grado, e percio' non poteva impugnare la sentenza del giudice di appello; pertanto il ricorso proposto dallo stesso e' inammissibile per difetto di legittimazione.

Invero in tema di contenzioso tributario, una volta che l'appello avverso la sentenza della commissione provinciale era stato proposto soltanto dall'ufficio periferico dell'agenzia delle entrate, succeduta a titolo particolare nel diritto controverso al Ministero delle finanze nel corso del giudizio di primo grado, e la societa' contribuente aveva accettato il contraddittorio nei confronti del solo nuovo soggetto processuale, il relativo rapporto si svolgeva soltanto nei confronti dell'agenzia delle entrate, che ha personalita' giuridica ai sensi del Decreto Legislativo n. 330 del 1999, e che era divenuta operativa dal 1.1.2001 a norma del Decreto Ministeriale 28 dicembre 2000, senza che il dante causa Ministero delle finanze fosse stato evocato in giudizio, l'unico soggetto legittimato a proporre ricorso per Cassazione avverso la sentenza della commissione tributaria regionale allora era solamente l'agenzia delle entrate (V. pure Cass. Sentenze n. 18394 del 2004, n. 19072 del 2003).

Va altresi' in via pregiudiziale rilevato che l'eccezione di mancanza di legittimazione passiva nel rapporto d'imposta dedotto, e proposta da Va. e' di carattere nuovo, giacche' non sottoposta all'esame del giudice di secondo grado, sicche' essendosi sul punto determinato il giudicato interno, la relativa doglianza e' inammissibile in questa sede.

Cio' premesso, col motivo addotto a sostegno del ricorso la ricorrente agenzia deduce violazione e/o falsa applicazione della Legge n. 408 del 1990, articolo 9 comma 2, articolo 5, comma 4 e Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 115 oltre che omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all'articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in quanto il giudice dell'impugnazione non ha considerato che il reddito dell'impresa non poteva essere ripartito fra i partecipanti in proporzione alla loro quota, atteso che si trattava di accertamento dovuto alla omessa dichiarazione della cessione dell'impresa. Quanto all'Ilor la relativa esenzione non era invocabile, atteso che la cessione era avvenuta in epoca anteriore all'introduzione del beneficio istituito con la Legge n. 408 del 1990 entrata in vigore all'inizio dell'anno successivo.

Il motivo, che si articola in due argomentazioni, e' infondato.

A) In ordine alla prima va osservato che le plusvalenze derivanti dalla cessione di un'azienda gestita in regime di impresa familiare, cosi' come i redditi derivati dall'esercizio della stessa, vanno imputati ai singoli partecipanti a prescindere dalla loro effettiva percezione. Ne consegue che ai fini della determinazione dell'imposta sul reddito del singolo partecipante all'impresa familiare, che risulti avere incassato i proventi della cessione d'azienda, occorre stabilire non gia' se questi abbia o meno fornito la prova di avere liquidato agli altri partecipanti la quota ad essi spettante, ma soltanto quale fosse la sua quota di partecipazione agli utili dell'impresa, e cio' a prescindere anche dalla indicazione nella relativa dichiarazione (V. pure Cass. Sentenze n. 21535 del 15/10/2007, n. 2895 del 2002).

B) In ordine alla seconda doglianza va rilevato che la Legge n. 408 del 1990, articolo 9 ha aggiunto il Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 115 lettera e bis), estendendo la categoria dei redditi esenti da Ilor a quelli di impresa derivanti da esercizio di attivita' commerciali svolte da soggetti diversi da quelli indicati nell'articolo 87, comma 1 cit., Decreto del Presidente della Repubblica, organizzate prevalentemente con il lavoro proprio e dei familiari, ovvero con quello dei soci, a condizione che il numero complessivo delle persone addette, esclusi gli apprendisti fino ad un massimo di tre, compreso il titolare, ovvero i soci, non sia superiore a tre.

Questa norma, secondo la giurisprudenza richiamata dalla stessa ricorrente (Cass. 4 febbraio 2003 n. 1625) ha portata innovativa rispetto al sistema precedente solo per quanto riguarda specificamente le societa' commerciali; anche nel precedente regime, peraltro, restavano esclusi dall'assoggettamento all'Ilor i redditi percepiti dai collaboratori dell'impresa familiare, che ha natura individuale e non collettiva (v. Cass. 17 aprile 1992 n. 4714, 2 dicembre 2008 n. 28558). Come osservato dal Cass. 30 luglio 1999 n. 8267, la norma introdotta con la citata Legge n. 408 del 1990 integrativa del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 115 TUIR (lettera e bis), costituisce nella sua prima parte, allorche' considera l'impresa individuale, la sistemazione legislativa di un principio gia' assunto nel sistema attraverso il giudice delle leggi (Corte Cost. n. 42/1980) con la prevalenza assegnata al lavoro proprio dell'imprenditore e dei suoi familiari sulla componente patrimoniale, quale dato discriminatorio tra attivita' di impresa e attivita' assimilata al lavoro autonomo.

Su tali punti percio' la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato e giuridicamente corretto.

Ne deriva che il ricorso del Ministero va dichiarato inammissibile, e quello dell'agenzia va rigettato.

Quanto alle spese di questa fase, sussistono giusti motivi per compensarle.

P.Q.M.

La Corte:

Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell'economia e delle finanze; rigetta quello dell'agenzia, e compensa le spese.

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