Deve essere licenziato il portiere che minacci il proprio sostituto o usi turpiloquio riferendosi al condominio

Integra giusta causa di licenziamento il comportamento del portiere di un edificio condominiale di abitazione, il quale ritenga di difendere i propri interessi attraverso minacce rivolte contro un suo sostituto o contro un addetto alle pulizie, fino a provocarne allontanamento dal posto di lavoro, o ancora usi turpiloquio riferendosi al condominio.
(Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, sentenza del 12 dicembre 2007, n. 26073)



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SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Fa.Cl., domiciliato in Ro. presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato Sa.Se., giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

Condominio di via Ge.Di.Ma. (...), Pa., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Ro. via Li.Ca. (...), presso lo studio dell'avvocato Mi.Re.D'A., rappresentato e difeso dall'avvocato Mi.Fr., giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 496/04 della Corte d'Appello di Palermo, depositata il 20/05/04 r.g.n. 385/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/07 dal Consigliere Dott. Federico Roselli;

udito l'Avvocato St.Be. per delega Sa.Se.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ignazio PATRONE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 20 maggio 2004 la Corte d'appello di Palermo confermava, per quanto qui ancora interessa, la decisione, emessa, dal Tribunale, di accoglimento della domanda proposta dal Condominio di via Ge.Di.Ma. (...) contro il lavoratore subordinato con mansioni di portiere Cl.Fa. ed intesa all'accertamento della legittimità del licenziamento intimato il 19 marzo 1997 per giusta causa.

Con la stessa sentenza la Corte d'appello confermava il rigetto, pronunciato dal Tribunale, della domanda risarcitoria proposta in riconvenzionale dal Fa. ed il parziale accoglimento delle sue pretese retributive.

La Corte, come già il primo giudice, riteneva che i fatti giustificanti il licenziamento fossero provati dalle deposizioni testimoniali di alcuni condomini, la cui asserita incapacità ex art. 246 cod. proc. civ. era stata dal Fa. eccepita troppo tardi ossia dopo l'udienza successiva alla deposizione (art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.).

Quanto alla proporzione della sanzione espulsiva, quei fatti, consistiti in minacce contro un addetto alla pulizia dell'edificio condominiale, seguite dall'allontanamento dell'addetto, ed ancora in minacce contro un sostituto portiere accompagnate da turpiloquio verso il condominio, erano contrari al vivere civile della comunità dell'edificio ed interrompevano il legame di fiducia necessariamente intercorrente fra datore e prestatore di lavoro.

La contrarietà di quei fatti ai valori elementari della vita associata li rendeva suscettibili di sanzione anche in mancanza di affissione del codice disciplinare di cui all'art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300.

Due licenziamenti che avevano preceduto quello del 1997 erano stati revocati dal datore di lavoro perché formalmente illegittimi e non avevano causato alcuna interruzione della retribuzione: essi perciò non avevano prodotto alcun danno risarcibile ai sensi dell'art. 8 l. 15 luglio 1966 n. 604.

Quanto al lamentato danno biologico, consistito in nevrosi reattiva, la sua derivazione da quegli atti di licenziamento non era stata provata, apparendo anzi preesistenti l'instabilità psichica e l'irritabilità. Contro questa sentenza ricorre per cassazione il Fa. mentre il Condominio resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2119 cod. civ., 1 l. n. 604 del 1966 7 l. n. 300 del 1970 cod. proc. civ. e vizi di motivazione, formulando in realtà diverse censure.

La prima è manifestamente priva di fondamento giacché esattamente la Corte d'appello ha ritenuto integrante giusta causa di licenziamento il comportamento del portiere di un edificio condominiale di abitazione, il quale ritenga di difendere i propri interessi attraverso minacce rivolte contro un suo sostituto o contro un addetto alle pulizie, fino a provocarne allontanamento dal posto di lavoro, o ancora usi turpiloquio riferendosi al condominio.

Né il licenziamento presuppone la previsione di tale comportamento nel codice disciplinare di cui all'art. 7 cit., poiché compilazione ed affissione di questo codice sono imposte dal legislatore al fine di impedire che il datore di lavoro possa arbitrariamente e post iactum configurare e di conseguenza addebitare un illecito disciplinare. L'esigenza di affissione sussiste quando trattisi di illeciti consistenti in violazione di discipline aziendali ignote alla generalità e perciò difficilmente conoscibili se non espressamente previste, mentre non sussiste per i comportamenti manifestamente contrastanti con la legge e col contratto o con valori comunemente accettati. (Cass. 18 febbraio 1995 n. 1747, 18 giugno 1996 n. 5583, 8 febbraio 2000 n. 1412).

Infondata è anche la censura di illegittima assunzione delle deposizioni testimoniali dei condomini, interessati alla causa, poiché la relativa doglianza fu tardivamente formulata nel giudizio di merito, come esattamente afferma la Corte d'appello, ossia dopo la prima udienza successiva all'assunzione dei testi (art. 157, capoverso, cod. proc. civ.), avendo così la parte tacitamente rinunziato all'eccezione di inammissibilità ex art. 246 cod. proc. civ., sollevata prima della detta assunzione.

La censura sull'attendibilità dei testimoni è poi inammissibile poiché diretta ad ottenere da questa Corte di legittimità nuovi, impossibili apprezzamenti di fatto.

Col secondo motivo il ricorrente invoca le stesse norme di diritto, oltre all'art. 2043 cod. civ., per avere la Corte d'appello escluso che i due licenziamenti, revocati dal datore di lavoro perché pacificamente illegittimi, avessero provocato danni risarcibili ex art. 8 l. n. 604 del 1966 o comunque da essi derivati.

Il motivo non è fondato.

La questione che il ricorrente sottopone a questa Corte, e che consiste nello stabilire se il licenziamento illegittimo revocato dia nondimeno al lavoratore il diritto al risarcimento del danno ex art. 8 l. n. 604 del 1966, dev'essere risolta in senso negativo, poiché la norma ora detta pone il risarcimento come alternativo alla riassunzione onde il relativo diritto non ha ragion d'essere quando il lavoratore abbia ripreso il suo posto, salvo restando il risarcimento di eventuali danni ex art. 1218 cod. civ., ad esempio per retribuzione ritardata o inferiore al dovuto, oppure per licenziamento ingiurioso. In senso analogo questa Corte si è espressa con riferimento all'indennità sostitutiva della reintegrazione, di cui all'art. 18 quinto comma, l. n. 300 del 1970 (Cass. 21 dicembre 1945 n. 13047 e vedi anche Cass. 12 luglio 2004 n. 12867).

Né la giurisprudenza della Corte è orientata diversamente con riguardo alla clausola penale legale di cui al quarto comma dello stesso art. 18, quando, come nel caso qui in esame, il licenziamento sia stato revocato prima che il licenziato abbia esercitato l'azione giudiziale (Cass. 26 febbraio 1988 n. 2068 maggio 1991 n. 5969, 4 dicembre 1986 n. 7197, 19 giugno 1993 n. 6837, 12 ottobre 1993 n. 10085).

Nella specie gli ulteriori danni ex art. 1218 cit., lamentati dal lavoratore come nocumento alla salute, sono stati negati dai giudici di merito per difetto di prova, con valutazione incensurabile nel giudizio di legittimità, come s'è detto.

Col terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112, 115, 132, 161 cod. proc. civ. e vizi di motivazione con riguardo al rigetto delle pretese retributive, deciso "acriticamente e senza alcuna motivazione".

Il motivo è infondato poiché la Corte d'appello ha negato la retribuzione per lavoro straordinario, essendo risultato lo svolgimento di tante ore di lavoro giornaliero quante previste come ordinarie dal contratto collettivo.

Per il resto il motivo è inammissibile per genericità ossia per inosservanza dell'art. 366 n. 3 cod. proc. civ.

Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro 20,00, oltre ad euro duemila per onorario, nonché spese generali IVA e CPA.

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