Casa:
Il proprietario dell'appartamento al primo piano può farne una pizzeria se non espressamente vietato dal regolamento condominiale
Pubblicata il 07/11/2016
Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Sentenza 20 ottobre 2016, n. 21307
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BIANCHINI Bruno - Presidente
Dott. ORILIA Lorenzo - Consigliere
Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere
Dott. FALASCHI Milena - Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20516/2012 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrenti -
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliate in Roma presso la Cancelleria della Corte di cassazione, e rappresentate e difese dagli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrenti -
e contro
CONDOMINIO in (OMISSIS);
- intimato -
avverso la sentenza n. 1716/2012 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/05/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/09/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
udito l'Avvocato (OMISSIS) per le controricorrenti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l'accoglimento del primo motivo, assorbito il secondo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Fusa) Giuseppe conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) affinche' fossero condannati al ripristino dello status quo ante oltre al risarcimento dei danni.
Assumeva di essere proprietario di un appartamento in (OMISSIS) nel condominio al (OMISSIS), confinante con quello contrassegnato dal numero interno 2 appartenente ai convenuti, i quali, in violazione del regolamento condominiale e di una delibera assembleare dell'11 giugno 2001, avevano adibito il loro immobile, destinato esclusivamente ad uso abitativo, a pizzeria, mediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante terraneo, adibito a sua volta a pizzeria-ristorante, creando in tal modo intollerabili immissioni di rumori.
Si costituivano i convenuti i quali insistevano per il rigetto, chiedendo di essere autorizzati a chiamare in causa il condominio, anche al fine di vedere accolta la domanda riconvenzionale di annullamento della citata delibera assembleare.
Tale domanda veniva poi rinunziata dai convenuti, ed il giudizio si interrompeva per il decesso dell'attore, al quale subentravano le credi (OMISSIS) e (OMISSIS).
Il Tribunale con sentenza del 18/9/2008 rigettava la domanda ed a seguito di gravame proposto dalle istanti, la Corte d'Appello di Napoli con la sentenza n. 1716 del 19 maggio 2012, in riforma della pronuncia impugnata, condannava i convenuti, anche quali credi della (OMISSIS), deceduta nelle more del giudizio, al rispristino della destinazione abitativa per l'immobile di loro proprieta' ubicato al primo piano interno 2.
Rilevavano i giudici di appello, che, attesa la pacifica vincolativita' del regolamento condominiale, in quanto trascritto anche nei registri immobiliari, e richiamato anche nel titolo di provenienza dei convenuti, non poteva condividersi l'interpretazione dell'articolo 5 del regolamento offerta da parte del giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto che le limitazioni ivi contemplate valessero solo per i locali cantinati e terranei, non sussistendo quindi analoghi vincoli per l'utilizzo degli immobili posti ai piani superiori.
Invece, secondo la Corte distrettuale, la previsione di una specifica possibilita' di utilizzo solo per i detti locali, imponeva di ritenere che ab implicito per gli altri locali, quale appunto l'appartamento degli appellati, fosse vietata una diversa destinazione.
Il regolamento era costruito sul principio dell'espressa elencazione delle destinazioni consentite, sicche' in mancanza di un'analoga previsione anche per gli altri locali diversi dai cantinati e dai terranei, doveva concludersi per il divieto di adibire l'appartamento per cui e causa allo svolgimento di attivita' commerciale.
Quanto poi alla domanda delle appellanti finalizzata a denunziare l'intollerabilita' delle immissioni, che il giudice di prime cure aveva ritenuto inammissibile, in quanto avanzata solo con le memorie istruttorie, ad avviso della Corte partenopea doveva invece ritenersi che la stessa era invece ammissibile, in quanto alle immissioni si faceva gia' riferimento nell'atto di citazione.
Tuttavia, la domanda era infondata in quanto rimasta priva di prova, non apparendo in grado di documentare l'effettiva intollerabilita' delle immissioni, i generici capi di prova articolati dagli appellanti.
Avverso la indicata sentenza della Corte di Appello di Napoli hanno proposto ricorso per cassazione (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), anche quali eredi di (OMISSIS), articolandolo su due motivi.
(OMISSIS) e (OMISSIS) hanno resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 e 1370 c.c., nonche' dell'articolo 832 c.c., in merito alla corretta interpretazione fornita dalla Corte territoriale dell'articolo 5 del regolamento di condominio.
Ed, infatti, l'interpretazione dei regolamenti condominiali di origine contrattuale, quale quello in esame, richiede al fine della individuazione di limiti all'utilizzo dei beni di proprieta' esclusiva, che siano adoperate espressioni non equivoche, occorrendo che una limitazione al diritto di proprieta' derivi da una precisa volonta' del predisponente il regolamento.
Nel caso in esame, la clausola oggetto di interpretazione da parte della Corte distrettuale, e precisamente l'articolo 5 del regolamento cosi' dispone "I locali cantinati e i terranei potranno essere destinati ad autorimesse, a deposito, ad officina tecnicamente organizzata con rumorosita' pero' da non superare i limiti consentiti dalle disposizioni di P.S. e comunale ed all'esercizio di qualsiasi attivita' commerciale, industriale, artistica e professionale, nonche' ad uffici, senza alcuna limitazione.
Sia i locali terranei che agli (incomprensibile) potranno essere destinati a scuole".
Rilevano i ricorrenti che manca una previsione specificamente rivolta a disciplinare l'uso delle unita' immobiliari collocate dal primo piano in su e clic l'interpretazione offerta dalla Corte di merito violi l'articolo 1363 c.c., nella parte in cui ha omesso di valutare il complesso delle previsioni contrattuali, l'articolo 1367 c.c., in quanto, in violazione del principio della conservazione del contratto, gli immobili dal primo piano a salire non avrebbero alcuna destinazione, e l'articolo 1369 c.c., poiche' deve privilegiarsi l'interpretazione piu' coerente con la natura del contratto, essendo viceversa priva di coerenza la soluzione per la quale verrebbe ad essere impedito l'utilizzo di gran parte delle unita immobiliari presenti nell'edificio.
Assumono poi che il canone ermeneutico, richiamato n motivazione "ubi vouit dixit, ubi noluit tacuit" sarebbe stato erroneamente applicato, atteso che il discorso della volonta' implicita poteva avere ad oggetto solo le unita' immobiliari espressamente richiamate nell'articolo 5, ma non poteva estendersi ai locali posti ai piani superiori, di cui non vi e' menzione alcuna.
Infine, atteso il principio costantemente affermato dalla Corte di legittimita' per il quale le limitazioni alle facolta' di uso della proprieta' individuale previste nel regolamento condominiale devono connotarsi per chiarezza ed inequivocita', la soluzione raggiunta nella sentenza gravata contravviene evidentemente allo stesso, in quanto manca una disposizione regolamentare che si occupi espressamente delle unita' immobiliari poste ai piani superiori, essendo peraltro presenti altre disposizioni (quali gli articoli 2 e 4 del regolamento) che hanno invece espressamente disposto anche in ordine alle restanti unita' immobiliari.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 99 e 112 c.p.c., articolo 163 c.p.c., nn. 3 e 4, e articolo 184 c.p.c., e dell'articolo 844 c.c., e dei principi che presiedono all'interpretazione degli atti giudiziari, nonche' la insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine all'affermazione secondo cui, ad avviso della sentenza impugnata, sarebbe stata tempestivamente avanzata la domanda di intollerabilita' delle immissioni.
Si assume che, ancorche' la domanda sia stata poi respinta nel merito in quanto non provata, in realta' la domanda e' da reputarsi inammissibile. Nell'atto di citazione manca un'esplicita richiesta in tal senso, in quanto con il petitum ci si limitava a chiedere l'accertamento dell'illegittimita' del cambio di destinazione dell'immobile alla luce del regolamento di condominio e della volonta' assembleare, sicche' l'affermazione secondo cui la domanda de qua era gia' contenuta in citazione e' frutto di un'erronea interpretazione dell'atto introduttivo del giudizio e viola pertanto le previsioni di cui agli articoli 99 e 112 c.p.c..
3. Il secondo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile atteso il difetto della condizione legittimante la sua proposizione costituito dalla soccombenza dei ricorrenti.
Ed, infatti, ancorche' la Corte d'Appello abbia ritenuto ammissibile la domanda de qua, e' poi pervenuta al suo rigetto nel merito, per difetto di prova, con la conseguenza che sulla stessa non si concretizza la condizione di soccombenza sostanziale in capo agli appellati, i quali pertanto non sono legittimati a proporre ricorso al mero fine di ottenere una declaratoria di inammissibilita' sotto il profilo processuale, trattandosi di statuizione che peraltro non offrirebbe alcuna utilita' a fronte di quella offerta dal rigetto nel merito, con la formazione del giudicato sostanziale, e non solo processuale formale, che invece discenderebbe dalla richiesta declaratoria di inammissibilita'.
4. Passando alla disamina del primo motivo di ricorso, deve premettersi che costituisce orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. 2, 08/01/2016, n. 138) non e' censurabile in Cassazione l'interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (conf. Cassazione civile, sez. 2, 23/05/2012, n. 8174; Cassazione civile, sez. 2, 04/04/2011, n. 7633).
Inoltre, e proprio in relazione all'interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, si e' ribadito che (cfr. Cassazione civile, sez. 2, 19/10/2012, n. 18052) ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento e' rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, sicche' le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell'articolo 1363 c.c., e dovendosi intendere per "senso letterale delle parole" tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte cd in ogni parola che la compone, e non gia' in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di piu' clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato.
Una volta ribadita la necessita' di fare applicazione delle regole legali di interpretazione in materia di contratti anche al caso in esame, va altresi' ricordato che costituisce principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimita', quello secondo il quale, con riguardo all'interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l'invocato sindacato di legittimita' non puo' investire il risultato interpretativo in se, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore all'articolo 1362 c.c. e ss., e sulla (in)coerenza e (il)logicita' della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10 febbraio 2015, n. 2465): l'indagine ermeneutica, e', in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e puo' essere censurata in sede di legittimita' solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non puo' trovare ingresso la critica della ricostruzione della volonta' negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.
Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, reputa il Collegio che l'interpretazione che della clausola regolamentare di cui sopra e' stata offerta dalla Corte distrettuale, non possa essere condivisa, ponendosi la stessa in contrasto con i principi che debbono presiedere l'interpretazione, tenuto conto in particolare dei consolidati principi espressi da questa Corte in tema di limitazioni convenzionali al diritto di proprieta', scaturenti per l'appunto da un regolamento condominiale di natura contrattuale.
11d, infatti, anche di recente si e' ribadito che (cfr. Cass. n. 19229/2014) il regolamento condominiale di origine contrattuale puo' imporre divieti e limiti di destinazione alle facolta' di godimento dei condomini sulle unita' immobiliari in esclusiva proprieta' sia mediante elencazione di attivita' vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare. In quest'ultimo caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprieta' dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, piu' che alla clausola in se', alle attivita' e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentate intende impedire, cosi' consentendo di apprezzare se la compromissione delle facolta' inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela. Si e' infatti ribadito che la compressione di facolta' normalmente inerenti alle proprieta' esclusive dei singoli condomini, deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze (cfr. Cass. nn. 20237/09 non massimata, Cass. n. 16832/09 non massimata, Cass. n. 9564/97, Cass. n. 1560/95; Cass. n. 11126/94; Cass. n. 23/04 e Cass. n. 10523/03).
Cio' implica che nella ricerca della comune intenzione, o come nella fattispecie, nell'individuazione della regola dettata dal regolamento contrattuale, non possa prescindersi dall'univocita' delle espressioni letterali utilizzate, dovendosi in linea di principio rifuggire da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto attiene all'ambito delle limitazioni imposte alla proprieta' individuale, ma ancor piu' per quanto concerne la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione circa le facolta' di destinazione di norma spettanti al proprietario.
Orbene, come si ricava in maniera evidente dal tenore della motivazione della sentenza gravata, la previsione del divieto di utilizzo delle unita' immobiliari poste a partire da) primo piano del fabbricato, ad un uso diverso da quello abitativo, e' stata tratta da una previsione che, come si evidenzia dalla lettura del sopra riportato articolo 5 del Regolamento, si occupa specificamente solo dei limiti alla facolta' di utilizzo dei locali terranei e dei cantinati, ricavandosi quindi da una previsione, che pur lascia ampie facolta' di utilizzo dei suddetti locali, cd in assenza di una chiara ed univoca volonta' esplicitata, l'esistenza di un limite estremamente rigoroso quanto alle possibilita' di utilizzo degli immobili aventi diversa natura, tra cui anche l'appartamento dei ricorrenti.
D'altronde, come correttamente evidenziato da parte della difesa dei ricorrenti, lo stesso regolamento, laddove ha inteso disporre dei limiti alle facolta' di utilizzo di tutti i locali, ivi inclusi anche gli appartamenti posti a partire dal primo piano, lo ha chiaramente esplicitato, come appunto nelle previsioni di cui agli articoli 2 e 4 del regolamento, quanto alla possibilita' per la societa' costruttrice di apporre cartelli o bandiere luminose anche in corrispondenza della facciata dell'edificio, ovvero quanto alla possibilita' di ospitare solo animali quali cani, gatti ed uccelli.
La necessita', in ragione della esigenza di limitare al massimo la compressione delle proprieta' individuali, in considerazione della storica configurazione del diritto di proprieta', imponeva quindi un'interpretazione del regolamento fondata sulla chiarezza ed univocita' del tenore e delle espressioni letterali, dovendosi rifuggire quindi da un'esegesi invece ancorata alla ricostruzione di una volonta' implicita, come invece accaduto nella fattispecie, trascurandosi altresi' l'adeguamento al canone interpretativo di cui all'articolo 1363 c.c., che, tenuto conto dell'esistenza di altre previsioni in materia di limitazioni della proprieta' individuale, avrebbe dovuto impone di salutare le limitazioni alla proprieta' individuale dal coacervo delle previsioni regolamentari, secondo un principio di tendenziale e rigida tassativita'. Tradisce evidentemente l'elaborazione giurisprudenziale circa la portata ed i limiti suscettibili di essere dettati dal regolamento condominiale, la premessa alla quale dichiara volersi rifare nell'interpretazione dell'articolo 5 il giudice di appello, laddove afferma che il regolamento condominiale sarebbe costruito sul principio, non gia' dell'espressa individuazione delle limitazioni imposte, come suggerito dai precedenti sopra citati, ma dell'espressa elencazione delle destinazioni consentite.
Alla luce dei suesposti principi, proprio il brocardo, ubi voluiti dixit, ubi noluit tacuit, richiamato nella motivazione del giudice adito, avrebbe dovuto condurre ad una conclusione affatto diversa da quella raggiunta, dovendosi appunto reputare che solo le limitazioni espressamente previste possono reputarsi operative, essendo il silenzio sintomatico, piu' che di una volonta' di porre dei limiti, piuttosto della necessita' di preservare integre le facolta' tipiche del diritto di proprieta'. La sentenza deve essere quindi cassata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli per un nuovo giudizio attenendosi ai suesposti principi.
5. Il giudice del rinvio provvedera' anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso, accoglie il primo motivo e per l'effetto cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli.