Usucapione del comproprietario

Il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinato funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte del compossessore, risultando per converso necessaria, ai fini dell'usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell'interessato attraverso un'attività apertamente contrastante e incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene.
Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, con sentenza del 20 settembre 2007, n. 19478. La S.C. ha quindi precisato che il comproprietario può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall'uso della cosa, occorrendo al riguardo che il suddetto comproprietario ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale cioè da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus.



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel novembre del 1988 moriva a. c. lasciando quali suoi successori i figli A., as., Ef. e Ca.Gi. e la moglie Sp.Ma..

Con atto di citazione notificato il 26.2.1996 Ca.Ma., fratello di Ca.An., conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Cagliari C.A., ca.as., Ca. Ef., Ca.Gi. e Sp.Ma. assumendo di aver acquistato insieme con il defunto e per la quota di un mezzo dei terreni siti in (OMESSO) ((OMESSO)) nonche' un trattore, due aratri, un erpice, una seminatrice ed una imballatrice.

L'attore esponeva di essere proprietario esclusivo degli attrezzi custoditi nei beni immobili di proprieta', comune e chiedeva lo scioglimento della comunione e le condanna dei convenuti alla restituzione dei beni da sua proprieta' esclusiva.

I convenuti costituitisi in giudizio negavano l'esistenza della comunione deducendo di aver acquistato per usucapione la piena proprieta' dei suddetti beni; in via riconvenzionale chiedevano accertarsi la loro proprieta' esclusiva sui beni oggetto della domanda o, in subordine, la condanna della controparte alla corresponsione di una indennita' per i miglioramenti e le addizioni.

Nel corso del giudizio interveniva volontariamente nel processo No.Ad. assumendo di essere proprietaria di un fondo intercluso da quelli di proprieta' delle parti e chiedendo una pronuncia di accertamento del suo diritto a partecipare allo scioglimento della comunione.

Con sentenza del 29.6.1999 il Tribunale rigettava la domanda di restituzione dei beni mobili proposti dall'attore, le domande riconvenzionali introdotte dai convenuti nonche' la domanda formulata dalla, intervenuta, e rimetteva la causa con separata, ordinanza dinanzi al giudice istruttore per le operazioni di divisione.

A seguito di impugnazione da parte di C.A., ca. as., Ca.Ef., Ca.Gi. e Sp.Ma. cui resisteva Ca.Ma. mentre la Na. restava contumace la Corte di Appello di Cagliari con sentenza del 31.12.2001 ha rigettato il gravame. La Corte territoriale, premesso che sugli immobili per cui e' causa ciascuno degli acquirenti si trovava in una situazione giuridica di compromesso, ha affermato che ai fini dell'accoglimento della domanda di usucapione proposta dagli eredi di c. a. era necessaria la prova della intenzione manifesta di escludere il comproprietario dal possesso dei beni comuni intervenuta in un preciso momento dal quale soltanto poteva iniziare a decorrere il termine di venti anni per determinare l'acquisto per usucapione della proprieta' esclusiva; invece la stessa prospettazione difensiva evidenziata. nell'atto di appello non prevedeva l'ipotesi che ad un certo momento il dante causa degli appellanti o loro stessi avessero esternato inequivocabilmente la volonta' di disporre in modo esclusivo dei beni comuni.

Per la cassazione di tale sentenza Sp.Ma., Ca.Ef., Ca.Gi., Ca.Al., C.A. e ca. as. hanno proposto un ricorso articolato in un unico motivo cui Ca.Ma. ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l'unico motivo formulato i ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 1102, 1141 e 1164 c.c., censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto che gli esponenti non avevano assolto all'onere probatorio circa il possesso esclusivo dei beni oggetto di comunione tra le parti con la volonta' di esserne gli unici proprietari per tutto il tempo necessario all'acquisto per usucapione.

Premesso che l'articolo 1102 c.c., nello stabilire che il comunista non puo' estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, non fa riferimento ad una interversione formale cosi' come richiesto dagli articoli 1141 e 1164 c.c., bensi' ad una interversione di fatto incompatibile con il perdurare del compossesso degli atti compartecipi, i ricorrenti sostengono che nella fattispecie C. A. ed i suoi eredi avevano utilizzato gli immobili per cui e' causa secondo le modalita' ritenute piu' opportune recintandoli, riparandoli ed esercitando il potere di proprieta' in maniera piena ed esclusiva, cosi' da ingenerare nei testi escussi la convinzione che i proprietario di tali beni fosse c.a.; in definitiva quindi dall'istruttoria svolta era emerso da parte di quest'ultimo e dei suoi eredi il compimento di atti idonei a mutare il titolo del proprio possesso verificatosi non per mera tolleranza del comproprietario Ca.Ma. ma per volonta' inequivocabile ed univoca di chi li esercitava diretta ad estendere il proprio diritto sull'intero compendio immobiliare.

La censura e' infondata.

Il giudice di appello ha anzitutto affermato che ai fini dell'accoglimento della domanda degli appellanti di acquisto per usucapione dei beni oggetto di comunione con Ca.Ma. non era sufficiente provare che i terreni in questione fossero stati materialmente detenuti e coltivati esclusivamente prima dal loro dante causa e poi da loro stessi e neppure la mancata frequentazione dei luoghi dove erano situati i beni suddetti da parte dell'appellato, posto che il possesso di essi poteva essere esercitato anche in via mediata senza la materiale disponibilita' degli immobili e, come nella fattispecie, anche tramite il comproprietario. La Corte territoriale ha quindi rilevato che l'accoglimento della suddetta domanda comportava la prova della intenzione manifesta di escludere il comproprietario dal possesso dei beni comuni intervenuta in un determinato momento dal quale soltanto iniziava a decorrere il termine ventennale necessario per l'acquisto per usucapione delle proprieta' esclusiva, ed ha evidenziato che invece le stessa prospettazione difensiva illustrata nell'atto di appello escludeva l'ipotesi che ad un dato momento C.A. o i suoi eredi avessero esternate inequivocabilmente la loro volonta' di disporre in modo esclusivo di beni comuni.

Orbene il convincimento espresso nella sentenza impugnata e' corretto e conforme all'orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non e', di per se', idoneo a far ritenere lo stato di fatto cosi' determinato funzionale all'esercizio del possesso "ad usucapionem", e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte del compossessore, risultando per converso necessaria, ai fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla "res" da parte dell'interessato attraverso una attivita' apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova per colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (Cass. 18.2.1999 n. 1367; Cass. 15.6.2001 n. 8152).

Pertanto il comproprietario puo' usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla "res communis", ma a tal fine non e' sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall'uso della cosa, occorrendo al riguardo che il suddetto comproprietario ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilita' di godimento altrui, in modo tale cioe' da evidenziare una inequivoca volonta' di possedere "uti dominus" e non piu' "uti condominus" (Cass. 20.8.2002 n. 12260). Per tali considerazioni, quindi, contrariamente all'assunto dei ricorrenti, la circostanza che dapprima c. a. e successivamente i suoi eredi avessero goduto in via esclusiva degli immobili per cui e' causa non si configura come elemento di per se' sufficiente all'accoglimento della domanda di acquisto dell'intero compendio immobiliare per usucapione, in assenza di comportamenti apertamente ed oggettivamente contrastanti ed incompatibili con il possesso altrui e tali da rivelare in modo certo ed inequivocabile l'intenzione di comportarsi come proprietari esclusivi. E' pur vero, poi, come dedotto dai ricorrenti, che il singolo comunista, ove intenda espandere in via esclusiva il possesso sul bene, non deve necessariamente compiere gli atti di "interversio possessionis" previsti dagli articoli 1141 e 1164 c.c.; e tuttavia egli deve pur sempre porre in essere atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo "et animo domini" della cosa, incompatibili con il permanere di quello altrui sulla stessa, ne' tale comportamento puo' consistere soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo partecipante (Cass. 26.5.1999 n. 5127).

Correttamente quindi il giudice di appello ha escluso nelle stesse prospettazioni difensive degli appellanti la configurabilita' di atti o comportamenti riconducibili a loro o al dante causa c. a. i cui compimento da un lato determinasse l'impossibilita' assoluta per Ca.Ma. di proseguire un rapporto diretto con i beni oggetti di comproprieta' tra le parti e dall'altro lato denotasse inequivocabilmente l'intenzione di possedere tali immobili in maniera esclusiva; e d'altra parte i profili di censura sollevati dai ricorrenti non riguardano specificamente tale "ratio decidendi".

Il ricorso deve pertanto essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento di euro 100,00 per spese e di euro 1300,00 per onorari di avvocato.

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