L'installazione di una ringhiera protettiva e la scala in ferro per l'accesso ad un terrazzo non necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire

La ringhiera protettiva e la scala in ferro per l'accesso ad un terrazzo si configurano come pertinenze di un immobile, sicché la loro installazione non è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire, bensì al regime autorizzatorio di cui all'art. 7 comma 2, lett. a), L. 25/3/1982 n. 94.
(Tribunale Amministrativo Regionale PIEMONTE - Torino Sezione 1, Sentenza del 25 marzo 2008, n. 505)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 1044 del 1999, proposto da:

Da. Ma., rappresentato e difeso dagli avv. Ri. Lu., Ma. Sa., con domicilio eletto presso l'avv. Ri. Lu. in To., corso Mo., (...);

contro

Comune Va., in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

nei confronti di:

An. Gu. Fl., rappresentato e difeso dagli avv. Ni. Do., Al. Ri., con domicilio eletto presso l'avv. Ni. Do. in To., via De So., (...);

per l'annullamento

del provvedimento del Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Va. prot. n. 114/1998 del 2.3.1999, avente ad oggetto l'autorizzazione in sanatoria per la realizzazione di un tratto di recinzione e di una scala esterna sul terreno di proprietà del controinteressato,

nonché per l'annullamento

di ogni altro atto preparatorio presupposto, connesso e conseguente

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di An. Gu. Fl.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'Udienza Pubblica del giorno 21/02/2008 il Referendario Avv. Alfonso Graziano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Il ricorrente è comproprietario in Va., Via Pa., (...), di un appezzamento di terreno confinante con altro fondo di proprietà del sig. An. Gu. Fl., distinto in catasto al foglio (...), mappale (...), su cui insiste anche un edificio abitativo. An. Gu. Fl. realizzava sul lato nord del fondo in assenza di titolo edilizio, una piccola recinzione di soli m. 3, 90, in rete metallica alta m. 1, 50 poggiante su un muretto di m.0, 50 e poneva in opera una scala metallica in piccola carpenteria in ferro per collegare l'area cortiliva retrostante il fabbricato abitativo, con il primo piano dell'abitazione. Rilevata l'assenza di titolo edilizio, il Comune di Va. ne ingiungeva la demolizione, di poi rilasciando, in esito all'istanza di concessione in sanatoria presentata da An. Gu. Fl., l'autorizzazione in sanatoria ex art. 13 l. n. 47/1985, prot. N. 115/98 del 2.3.1999.

Avverso siffatto provvedimento autorizzatorio insorgeva il sig. Da. Ma. adendo con il ricorso in epigrafe questo Tribunale e deducendo i seguenti due motivi di gravame di seguito meglio riassunti.1) Violazione ed errata applicazione dell'art. 13 l. n. 47/1985 e dell'art. 873 c.c.; eccesso di potere per errore essenziale e carenza assoluta di presupposti. 2) Violazione ed errata applicazione dell'art. 13 l. n. 47/1985, 48 e 56 L. U.R. n. 56/1977; eccesso di potere per errore essenziale e carenza assoluta di presupposti sotto diverso profilo e carenza di motivazione.

Non si costituiva in giudizio il Comune intimato, mentre si costituiva il An. Gu. Fl. con memoria del 2.12.1999 chiedendo il rigetto del gravame.

Successivamente le parti depositavano ulteriori memorie in vista dell'Udienza pubblica del 21.2.2008, corroborando di ulteriori argomenti le rispettive tesi.

All'Udienza pubblica del 21.2.2008, uditi i difensori delle parti come da verbale e la Relazione del Referendario Avv. Alfonso Graziano, la causa veniva introitata per la definitiva decisione.

DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce violazione ed errata applicazione di legge con riferimento all'art. 13, L. 8.2.1985, n. 47 nonché con riferimento all'art. 873 c.c.; eccesso di potere per errore essenziale carenza assoluta di presupposti.

Assume che l'art. 13 della l. n. 47/1985 subordina la possibilità del rilascio della concessione in sanatoria alla conformità dell'intervento alle previsioni urbanistiche applicabili, di legge o di piano regolatore, conseguendone l'illegittimità del provvedimento impugnato poiché l'intervento realizzato dal controinteressato violerebbe l'art. 873 c.c. che impone la distanza minima di tre metri tra costruzioni, salva maggiore distanza prescritta dai regolamenti locali. La scala realizzata dal An. Gu. Fl., invero, avrebbe dovuto rispettare la distanza di tre metri dall'immobile del ricorrente, là dove detta scala disterebbe solo m. 0, 25 dal fabbricato del ricorrente.

La censura non ha pregio, sia in punto di diritto che in punto di fatto.

Intanto, è assolutamente inesatto affermare che l'art. 13 della. n. 47/1985 subordina l'assentibilità della sanatoria alla conformità dell'intervento alle norme di legge, oltre che di piano regolatore.

Vi osta il chiaro tenore laterale della norma, la quale, scolpendo il principio della c.d. doppia conformità, stabilisce che ai fini del rilascio dalla sanatoria l'opera realizzata non debba contrastare con le sole disposizioni di piano regolatore approvato ed anche solo adottato, sia al tempo della realizzazione dell'abuso, sia al tempo della presentazione della domanda di sanatoria.

Nessun cenno è dato riscontrare nella norma alla necessità della conformità dell'intervento a generiche norme di "legge", né tanto meno alle distanze imposte dal Codice civile.

Che poi il rispetto della distanza minima tra fondi finitimi o tra costruzioni, condizioni anche l'istituto della sanatoria, dipenderà non dalla immediata influenza delle disposizioni del codice civile sulle distanze, bensì dalla loro indiretta rilevanza, mediata dalle norme regolamentari e di piano comunali prescriventi una distanza minima, sia ove esse la fissino in misura maggiore di quella di cui all'art. 873 c.c., sia ove la stabiliscano unicamente mediante rinvio alla norma codicistica, che risulterà applicabile alla sanatoria non in via diretta ma in quanto mediata dal richiamo ad essa contenuto nella norma locale.

In chiave teorica ricorda il Collegio che la concessione edilizia (oggi, permesso di costruire) legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, disciplinando i rapporti tra Comune e concessionario, "ma non attribuisce a quest'ultimo diritti soggettivi verso i terzi, i quali possono agire innanzi al giudice ordinario per ottenere la rimozione o modificazione dell'opera lesiva di diritti scaturenti da rapporti privatistici" (Consiglio di Stato, sez.V, 20.12.1993 n. 1341; Cass. Civ., 21.2.1983 n. 1311).

Chiarito ciò in termini di corretto inquadramento concettuale e posta la cogenza di una distanza minima tra costruzioni come stabilita nelle norme comunali, rileva il Collegio che il motivo in analisi è comunque infondato nel merito.

Lamenta nella sostanza il ricorrente che la scala in ferro realizzata dal controinteressato per collegare il primo piano della propria abitazione con il cortile di sua proprietà retrostante il fabbricato e, quindi, intuitivamente, posta sul retro dell'abitazione - dista solo m. 0, 25 dal fabbricato di proprietà del ricorrente, costruito tempo addietro sul confine laterale al bordo sinistro della scala stessa per chi la percorre per acceder al primo piano dell'edificio che detta scala collega al cortile terranno. Non fa questione il ricorrente, di posizionamento della recinzione realizzata da An. Gu. Fl. sul lato nord, prospiciente l'attiguo vicoletto.

Precisata in tali termini fattuali la controversia, si tratta di stabilire se la posa di una scala "realizzata in piccola carpenteria in ferro con la funzione di collegare il cortile retrostante il fabbricato con il balcone ed il terrazzo del piano primo" (v. Relazione tecnica allegata al progetto a corredo dell'istanza di sanatoria presentata dal An. Gu. Fl.) debba avvenire nel rispetto della distanza di m.3 prescritta dall'art. 873 c.c. disciplinante la distanza tra costruzioni su fondi finitimi non unite o aderenti.

Sostiene parte ricorrente che anche una scala quale quella posta in opera da An. Gu. Fl. sia soggetta al disposto della cita norma codicistica, all'uopo invocando Cass., II, n. 4322/1989, che statuì che "la distanza di un edificio dal confine, ove caratterizzato da sporgenze non decorative, ma stabilmente incorporate in esso, deve misurarsi a partire da dette sporgenze".

Ad avviso del Collegio il motivo è, all'evidenza, infondato. Non pertinente appare, infatti, il richiamo al citato precedente della Cassazione, la quale vi afferma solo che è la distanza di un realizzando edificio con annessa sporgenza incorporata, che va misurata a partire dalla linea della sporgenza stessa e, quindi, in ipotesi, dalla linea di una scala costituente detta sporgenza. Ma non può certo equipararsi un costruendo edificio complessivamente considerato e comprensivo anche della sporgenza - scala, ad una mera scala che venga collocata su un preesistente edificio, per arrivare a sostenere che la scala uti singula, per sé sola, debba essere posta a distanza di metri tre dal confine, come se detta scala sostanziasse un edificio in muratura.

La statuizione della Corte, inerisce, invero, all'"edificio"(dal latino aedes, casa) comprensivo della scala e stabilisce che la di esso distanza va misurata partendo dalla scala che non costituisca una sporgenza meramente decorativa ma strutturale. Ma una scala da sola, realizzata dopo la costruzione dell'edificio preesistente e semplicemente appoggiata ad esso, è ictu oculi elemento ontologicamente diverso da un edifico da realizzare ex novo e comprensivo di una scala. Ed è elemento, la scala, da sola, di consistenza e aggravio urbanistico enormemente inferiore rispetto ad un edificio, cui acceda anche una scala/sporgenza.

Irragionevolmente, dunque, il ricorrente equipara ed assimila un "edificio", cioè una casa, più una scala, ad una semplice scala. Trattasi, intuitivamente, di insiemi diversi, non di diversi elementi di un unico insieme.

In tale ottica appare condivisibile l'osservazione di cui alla memoria del controinteressato, circa le caratteristiche dalla scala de qua, come struttura estremamente leggera e non in muratura.

Suffraga la tesi espressa dal Collegio, la giurisprudenza civile di legittimità che intravede la ratio dell'art. 873 nello scongiurare la formazione di intercapedini dannose alla sicurezza e alla salubrità dei fondi, esentando dal relativo regime delle distanza minime, opere inidonee, per struttura e consistenza, a formare intercapedini nocive inglobando aria luce (Cass. Civ., II, 8.9.1986, n. 5467).

La Cassazione ha quindi correttamente ritenuto soggetta all'obbligo di rispetto della distanza minima di cui all'art. 873 c.c. ogni opera edilizia fuori terra avente un'apprezzabile consistenza, escludendo da siffatto regime un scala esterna scoperta.

Va segnalato che la Corte di Cassazione ha in epoca più recente confermato il suo orientamento che porta ad escludere che dal concetto di costruzione, rilevante ai fini dell'assoggettamento al regime delle distanze, rientrino opere non creative di volumetria, affermando che integra costruzione un manufatto che, quantunque privo di pareti, realizzi una determinata volumetria: Cass. Civ.Sez. II, 21.12.1999, n. 14379. E una scala posta all'esterno dell'edificio non dà luogo affatto ad una volumetria. Del resto, come correttamente osserva la difesa del controinteressato nella memoria in data 8.2.2008, le stesse NTA del Comune di Va. icludono nei manufatti soggetti alla disciplina sulle distanze, i bow-windows, le verande, gli spazi porticati e i "vani semiaperti di scale"(art. 7, punto 4, lett.b) Piano Regolatore Generale del Comune di Va., Norme Tecniche di Attuazione, doc. 6 produz. controint.) conseguendone che una scala che non presenti al suo interno una superficie vuota, un vano, non può essere ragionevolmente assoggettata al rispetto delle distanze tra costruzioni, non costituendo, per le ragioni già dette, una costruzione.

La censura appare dunque priva di pregio e va rigettata.

2.Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che entrambi gli interventi edilizi realizzati dal An. Gu. Fl., ossia la posa della scala metallica e la recinzione posta in opera sul lato nord della sua proprietà, siano stati assentiti mediante il rilascio di un provvedimento di autorizzazione edilizia in sanatoria, in luogo di uno di concessione in sanatoria. Relativamente alla scala invoca l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale la precarietà di un'opera, che esclude la necessità del titolo concessorio, non deriverebbe dalla sua più o meno agevole rimuovibilità, bensì dalla sua attitudine a soddisfare esigenze non transeunti ma costanti nel tempo, citando T.R.G.A. Trentino Altro Adige - Bolzano, n. 246/1997 e T.A.R. Liguria, sez. I, n. 251/1998. Caratteri che sarebbero da ravvisare nella scala di collegamento posta in opera dal controinteressato, la quale doveva quindi essere ritenuta soggetta a concessione. Altrettanto sarebbe a dirsi quanto alla modesta recinzione su piccolo muretto (di m. 0, 50) eretta sul lato nord del fondo, trattandosi di opera non precaria e destinata a rapida rimozione e comportante una apprezzabile modificazione estetico edilizia, citando all'uopo T.A.R: Marche n. 749/1997 nonché una datata decisione del Consiglio di Stato, in sede di parere (II, 8.11.1989).

Ad avviso del Collegio la censura non merita accoglimento per le considerazioni che seguono.

Anzitutto, occorre preliminarmente disattendere l'eccezione di difetto di interesse al ricorso sollevata dalla difesa del controinteressato sia nella memoria di costituzione che in quella di udienza. Stando a siffatta eccezione il ricorrente non avrebbe interesse a dolersi del mancato assoggettamento dell'intervento de quo alla concessione invece che all'autorizzazione, in quanto la differenza tra i due tipi di provvedimento ampliativo si rinverrebbe solo nella onerosità del primo, derivandone che sarebbe interesse solo del Comune ricondurre le opere alla concessione piuttosto che all'autorizzazione.

L'eccezione non ha pregio. L'interesse al ricorso, per insegnamento costante, si apprezza, infatti, con riguardo all'utilità che al ricorrente ridonderebbe da una pronuncia giurisdizionale di accoglimento del gravame e di conseguente annullamento del provvedimento. E non v'è alcun dubbio che al ricorrente deriverebbe un vantaggio dall'eventuale annullamento del provvedimento autorizzatorio impugnato, posto che in forza di siffatta pronuncia giurisdizionale il controinteressato verrebbe a trovarsi ex post privato del titolo edilizio stesso e con effetti retroattivi, con evidente accrescimento della sera giuridica del controinteressato.L'eccezione va pertanto disattesa.

Venendo al merito della doglianza, va ricordato che non è poi così pacifico in giurisprudenza l'assunto che una scala sia assoggettata a concessione e non ad autorizzazione. In contrario basti segnalare, proprio con riguardo ad una scala collegante un giardino e un terrazzo, T.A.R. Campania - Napoli, sez. III, 5.10.1988, n. 240, ad avviso del quale detta scala in ferro costituisce "se non pertinenza, un'opera di manutenzione straordinaria soggetta ad autorizzazione e non a concessione edilizia" Ancor più netta è T.A.R. Campania - Napoli, sez. I, 25.7.1990, n. 467, secondo la quale una scala in ferro per l'accesso ad un terrazzo è proprio una pertinenza, come tale soggetta ad autorizzazione.

Il Tribunale partenopeo recentissimamente ha ribadito il proprio orientamento, affermando che una ringhiera protettiva e "una scala in ferro per l'accesso ad un terrazzo si configurano come pertinenze di un immobile, sicché la loro installazione non è soggetta al preventivo rilascio della concessione edilizia, bensì al regime autorizzatorio" (T.A.R. Campania - Napoli, Sez. VII, 20.11.2007, n. 14443) ex art. 4 della L. n. 94/1982 (c.d. Legge Nicolazzi, pure invocata dalla decisione del Consiglio di Stato su cui infra).

Ritiene il Collegio di dover aderire al rassegnato indirizzo, sante il ridotto aggravio edilizio di una scala, quale quella per cui è causa, costituita da "piccola carpenteria metallica" com'è incontroverso e non comportante affatto una impattante alterazione urbanistica.

Relativamente, poi, alla recinzione, la conclusione medesima, cui il Collegio opina di dover pervenire nel caso che ne occupa, è suffragata da maggiori supporti giurisprudenziali e, prima ancora, legislativi. Con ciò, senza, peraltro, rinnegare i propri precedenti invocati dal ricorrente, di cui alle sentenze 9.6.1994, n. 293, 212/1997 e 236/1997, le quali appaiono, all'evidenza, non propriamente calzanti nella soluzione del caso di specie.

Orbene, già il Consiglio di Stato, in materia di recinzioni, ha chiaramente statuito che "la recinzione di un edificio, non essendo suscettibile di valutazione autonoma, costituisce pertinenza del medesimo e, come tale, è soggetta a autorizzazione e non già a concessione edilizia" (Consiglio di Stato, Sez. II, 13.11.1991, n. 358/91 - Ministero dei Lavori Pubblici, in Il

Cons. di Stato, 1993, I, 145). Massima già espressa con Cons. di Stato, Sez. II, 13.6.1990, n. 566/90 - Comune di Gallarate, in Il Cons. di Stato, 1990, I, 1162, che ha affermato che "la recinzione in muratura di un fabbricato non costituisce opera edilizia soggetta a concessione, essendo per essa richiesta una semplice autorizzazione, ai sensi dell'art. 7 D.L. 23.1.1982 n. 9 convertito dalla L 25.3.1982, n. 94". Addirittura secondo il Giudice Amministrativo d'appello è soggetta a mera autorizzazione una recinzione interamente in muratura e interessante un intero fabbricato.

Non va sottaciuto, sul punto, come meglio si dirà appresso, che la recinzione di cui è controversia è una modestissima opera, lunga appena m.3, 90 e poggiante su n muretto di soli 50 cm.

Vale la pena ora confrontarsi con i precedenti di questo T.A.R., invocati dal ricorrente, e in particolare con T.A.R. Piemonte, n. 293/1994, secondo cui la realizzazione di una recinzione relativa d un'area di notevole ampiezza, costituita da un basamento in muratura di m.0, 50 con sovrastante rete metallica alta m.1, 50 importa una modificazione tale dell'assetto del territorio da rendere necessaria una concessione edilizia.

Ebbene, il Collegio reputa doveroso calare siffatta affermazione di principio, nella fattispecie di causa, che si connota per la peculiarità rappresentata dalla modestia della recinzione contestata, la quale è lunga solo m. 3,90 e quindi non può ad essa estendersi quanto questo Tribunale ha sancito con la pronuncia citata, che aveva ad oggetto "una recinzione relativa ad un'aera di notevole ampiezza". In quel caso l'opera recintava, appunto, un terreno notevolmente ampio, in rapporto al quale certamente costituisce modificazione dell'assetto del territorio un intervento costituente un muro anche non alto (di soli m. 0,50) sormontato da una rete metallica alta m. 1,50. Tale muro con sovrastante recinzione, se riguardato in una prospettiva di insieme, rapportata a un'area notevolmente ampia con lo stesso recintata, chiaramente fa emergere una considerevole modificazione del territorio, la quale non può non richiedere la concessione edilizia.

All'evidenza, il caso che ci occupa si differenza non poco da quello appena delineato, stante l'assoluta modestia della recinzione in questione, lunga solo m. 3,90.

Non è luogo quindi a farsi questione di applicazione alla fattispecie di cui è causa, di una decisione resa a proposito di un'opera notevolmente impattante, siccome estesa a tutta l'area, notevolmente ampia, che veniva in quel caso recintata.

Né vale invocare, come fa il ricorrente, nel motivo in analisi, il presunto contrasto con l'aart. 56 della L. Reg. Piemonte n. 56/1977, posto che tale norma, alla lettera g), assoggetta ad autorizzazione enon a concessione "le opere costituenti pertinenze". E non v'ha dubbio che una recinzione ed anche una scala metallica posta chiaramente a servizio dell'immobile abitativo, integrino una pertinenza, come pure evidenziato nelle citate decisioni del T.A.R. Campania.

Ma ad avviso del Collegio milita a favore della tesi della non necessità della concessione in sanatoria e della sufficienza della mera autorizzazione, un dirimente dato normativo.

Traendo spunto da quanto adombra il controinteressato nella memoria di costituzione, secondo la quale la recinzione sarebbe stata sottoposta ex D.L. 154/1996 alla mera autorizzazione "comunale soggetta al regime del silenzio - assenso in attuazione dell'art. 19 della l.n. 241/1990" (pag.5 memoria 2.11.1999) (in realtà più correttamente avrebbe dovuto parlare di D.I.A. in attuazione dell'art. 19 l.cit.) ricorda il Collegio che all'epoca dei fatti di causa e del rilascio dell'impugnato titolo concessorio in sanatoria era vigente l'art. 4 della L. 4.12.1993, n. 493, di conversione del D.L. 5.10.1993, n. 398, articolo poi sostituito dall'art. 2, comma 60 della L. 23.12.1996, n. 662 (Legge finanziaria per il 1997), norma recate la nuova disciplina delle procedure per il rilascio della concessione edilizia e partorita con il conclamato intento di semplificare dette procedure apprestando altresì significativi di strumenti di tutela del privato a fronte dell'inerzia della P.A.

Orbene, il comma 7 dell'art. 4 della l. n. 493/1993 assoggettava a mera denuncia di inizio di attività una serie di interventi edilizi minori, annoverando alla lettera c), proprio "recinzioni, muri di cinta e cancellate". Ora va anche soggiunto che siffatta riconduzione delle opere de quibus al regime semplificato, rectius liberalizzato della D.I.A., metteva capo ad una facoltà del privato, posto che i successivi commi 8 e 10 della norma espressamente subordinavano ad una serie di condizioni "la facoltà di denuncia di attività ai sensi del comma 7". Il che vuol dire che il privato poteva sempre optare per il tradizionale istituto dell'autorizzazione, in luogo di quello semplificato della D.I.A.

Ne consegue che il controinteressato, avendo presentato istanza tesa ad ottenere il titolo edilizio in sanatoria, benché impropriamente richiesto sub specie di concessione, ha evidentemente inteso non avvalersi della procedura semplificata. Ma è chiaro che in tale ipotesi l'intervento consistente nella recinzione non poteva essere ricondotto e assoggettato alla concessione edilizia, atteso che il legislatore lo aveva derubricato, includendolo tra quelli per i quali il privato aveva facoltà di presentare una semplice D.I.A., con il risultato che, ove, come nel la specie, il privato non optasse per la D.I.A., i relativi interventi dovevano ritenersi assoggettati a mera autorizzazione e non più a concessione.

Tale conclusione, che ad avviso del Collegio si impone con caratteri di evidenza, è inoltre supportata dal disposto del comma 13 della norma in analisi, in forza del quale "l'esecuzione di opere in assenza della o in difformità della denuncia di cui al comma 7 comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere stesse", conseguenza che è la spia che il legislatore escludeva gli interventi in questione dal regime della concessione edilizia, sanzionandone l'esecuzione in assenza del titolo tacito, con la sanzione prevista per le opere eseguite in assenza di autorizzazione e non con quella apprestata dall'ordinamento per le opere eseguite in assenza di concessione edilizia, che è la sanzione reale demolitoria

Dal ricostruito quadro normativo vigente all'epoca dell'adozione dell'impugnato provvedimento discende che il provvedimento con cui il Comune di Va. ha assoggettato le opere realizzate da An. Gu. Fl. al regime dell'autorizzazione edilizia è assolutamente legittimo al lume delle norme di fonte primaria allora vigenti (e della giurisprdudenza sopra segnalata) e, segnatamente, dell'art. 4 della L. n. 493/1993, il quale escludeva che per le opere in questione il comune dovesse rilasciare una concessione edilizia.Soluzione poi definitivamente rieditata nel d.P.R. n. 380/2001.

Ne consegue che anche il secondo motivo di ricorso è infondato e va respinto.

Dalla reiezione di entrambi i motivi discende il rigetto dell'intero ricorso.

Ravvisa peraltro il Collegio, stante la delicatezza delle questioni trattate, giusti motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese tra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte - prima Sezione - definitivamente pronunciandosi sul ricorso, in epigrafe lo Respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella Camera di Consiglio del giorno 21/02/2008 con l'intervento dei Magistrati:

Franco Bianchi, Presidente

Paolo Giovanni Nicolò Lotti, Primo Referendario

Alfonso Graziano, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 25/03/2008

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

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