In tema di licenziamento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento è insindacabile in sede di legittimità

In tema di licenziamento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento è rimesso al Giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza del 11 dicembre 2007, n. 25928, ha confermato la legittimità del licenziamento del lavoratore che era stato arrestato al di fuori dell'azienda con 22 dosi di cocaina che, altrimenti, avrebbe portato all'interno dell'azienda.



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in data 16/4/2003 Be.An. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 611 del 2003, chiedendo che, in riforma della stessa, fosse accertata la illegittimita' del licenziamento, intimatogli con lettera del 22/8/2002, e condannata la societa' Me. It. Ca. an. Ca. s.p.a. a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno Legge n. 300 del 1970 ex articolo 18.

L'appellante lamentava che il primo giudice: aveva ritenuto, senza alcuna prova, che egli stesse portando in azienda le sostanze stupefacenti che i carabinieri avevano rinvenuto sulla sua persona, per distribuirle; aveva censurato il suo comportamento senza considerare, sotto il profilo soggettivo, che egli gia' aveva pagato il suo debito alla giustizia; non aveva tenuto conto che gli era stata data la condizionale dopo il patteggiamento per consentirgli di riprendere il lavoro.

Sosteneva altresi' che il datore di lavoro aveva violato gli articoli 131 e 160, comma 5 del CCNL di settore (Terziario) richiamati nella lettera di licenziamento, non avendo motivato perche' non potesse riprendere l'attivita' di magazzino, dopo avere patteggiato la pena.

Si costituiva la societa' e resisteva all'appello sostenendo: che il fatto era grave ed esistevano evidenti prove di colpevolezza del soggetto, come risultava dalla sentenza emessa a seguito del patteggiamento, che equivaleva ad una condanna;

che ricorreva l'ipotesi di cui all'articolo 160, comma del CCNL, riferendosi la norma a qualsiasi reato non colposo mentre l'articolo 131 conteneva un elenco soltanto esemplificativo dei fatti costituenti giusta causa;

che la gravita' del reato comportava la perdita della fiducia irrimediabilmente, anche se il fatto non era connesso con il rapporto di lavoro.

La Corte d'Appello di Milano, con sentenza depositata il 20/4/2004, confermava la sentenza appellata e condannava l'appellante alle spese.

In sintesi la Corte, valutate "le circostanze pacifiche in causa, cioe' l'arresto in flagranza del lavoratore, trovato in possesso di 22 dosi di cocaina mentre si recava al mattino presto sul luogo di lavoro", riteneva che i fatti erano gravi e giustificavano il licenziamento, perche' dagli stessi ragionevolmente si poteva desumere "che il lavoratore avesse contatti con spacciatori di professione e stesse portando in azienda la cocaina per venderla o semplicemente per nasconderla sul luogo di lavoro".

Per la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso il Be. con quattro motivi.

La Me. It. Ca. an. Ca. s.p.a. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della Legge n. 604 del 1966 articolo 1, e vizio di motivazione sul punto della sussistenza della giusta causa di licenziamento in sostanza lamenta una contraddittorieta' nella motivazione dell'impugnata sentenza, la quale "da un lato sostiene che, dalla condotta tenuta dal lavoratore, devesi desumere che costui stesse portando la cocaina per venderla o semplicemente per nasconderla sul luogo di lavoro, lasciando intendere sussistente a suo carico l'onere probatorio - nella specie non assolto - di dimostrare che le dosi non sarebbero state portate in azienda. Cio' nonostante che la parte motiva termini con l'affermazione ex qua "nella specie si puo' ritenere che il reato non e' stato commesso in azienda". Dall'altro, da per scontato che l'introduzione di sostanze stupefacenti in azienda costituirebbe per la societa' datrice di lavoro un non meglio specificato "rischio" tale da legittimare il licenziamento".

Aggiunge inoltre il ricorrente che la sentenza sarebbe basata non su "fatti e circostanze obiettive" bensi' su "supposizioni" e "elucubrazioni". Peraltro, secondo il ricorrente, nella fattispecie (arresto fuori del luogo di lavoro e successiva condanna ex articolo 444 c.p.p., per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti per uso non personale) non sarebbe "di alcuna utilita' disquisire sulla destinazione delle dosi di cocaina ed effettuare un processo alle intenzioni del dipendente", dovendosi soltanto valutare i dati di fatto ai fini della sussistenza della lesione irreparabile del vincolo fiduciario.

Il motivo e' infondato.

La sentenza impugnata, rilevato che il Be. era stato arrestato in flagranza perche' "trovato in possesso di 22 dosi di cocaina mentre si recava al mattino presto sul luogo di lavoro", ha ritenuto i fatti gravi e tali da giustificare il licenziamento in quanto dagli stessi si poteva "desumere che il lavoratore avesse contatti con spacciatori di professione e stesse portando in azienda la cocaina per venderla o semplicemente per nasconderla sul luogo di lavoro", osservando che "non a caso gli agenti hanno perquisito il suo armadietto in azienda, ritenendo che, a quell'ora e su quel percorso, il lavoratore portasse in azienda il suo carico".

La Corte di Appello ha poi rilevato che "la societa' ha inteso non correre rischi licenziando il lavoratore prima che fosse troppo tardi" non essendo "facile, se un lavoratore introduce la cocaina in una grande azienda, controllare i movimenti e le relazioni dello stesso" e che "l'esigenza di prevenire il rischio non consente di considerare l'inesistenza di precedenti disciplinari a favore del lavoratore".

Ha aggiunto inoltre la Corte territoriale che "la mancanza di giustificazioni circa il possesso della droga e delle sue intenzioni conferma che egli stava portando in azienda il suo pericoloso carico".

Premesso che in tema di licenziamento disciplinare il giudizio sulla proporzionalita' tra fatto addebitato e licenziamento e' rimesso al giudice di merito ed e' insindacabile in sede di legittimita' se sorretto da adeguata motivazione" (v. fra le altre Cass. 28/8/2003 n. 12651, Cass. 7/4/2004 n. 6823, Cass. 23/8/2004 n. 16628), la sentenza impugnata risulta adeguatamente motivata e priva di vizi logici.

La stessa non e' affatto fondata su supposizioni e illazioni, bensi' su elementi di fatto precisi e concordanti, dai quali la Corte di merito ha tratto la presunzione che, in sostanza, se il lavoratore non fosse stato arrestato in flagranza avrebbe senz'altro portato la cocaina (22 dosi) in azienda.

Ne' vi e' contraddizione alcuna tra tale presunzione, ritenuta tra gli elementi determinanti nella valutazione della gravita' del fatto, e la indubbia commissione del reato all'esterno della azienda, essendo evidenziata la rilevanza complessiva del comportamento del lavoratore nelle sue ripercussioni sull'incidenza nel rapporto fiduciario con il datore di lavoro.

Del tutto logica, poi, e' la valutazione della situazione aziendale e della pericolosita' del rischio corso dalla societa', valutato, in base alle circostanze, specificamente e concretamente, a prescindere dalle non acclarate intenzioni del lavoratore ed anche se lo stesso avesse voluto semplicemente nascondere la droga sul luogo di lavoro (sulla rilevanza, ai fini della lesione irreparabile del vincolo fiduciario, del rischio di diffusione della droga all'interno dell'ambiente lavorativo cfr. Cass. 19/8/2004 n. 16291).

Dalla mancanza di giustificazioni al riguardo da parte del Be., infine, la Corte di merito ha tratto soltanto una "conferma" della circostanza che egli stesse "portando in azienda il suo pericoloso carico", di guisa che la stessa Corte, in alcun modo ha invertito l'onere complessivo della prova posto a carico del datore di lavoro.

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della Legge n. 604 del 1966 articolo 2 sostiene che, anche ai sensi dell'articolo 131 del ccnl, i motivi del licenziamento dovevano essere specificati dal datore di lavoro in forma analitica e completa, in specie soprattutto sulla lesione irreparabile del vincolo fiduciario e sulla improseguibilita' del rapporto, e lamenta inoltre che la societa', genericamente ed erroneamente, avrebbe risposto alle controdeduzioni offerte dal Be. ritenendole "non corrispondenti alla situazione, ai fatti ed alle risultanze" in suo possesso.

Anche tale motivo e' infondato in base al principio affermato da questa Corte secondo cui "nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore l'essenziale elemento di garanzia in suo favore e' dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben puo' limitarsi a far riferimento sintetico a quanto gia' contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui (come nella specie) il contratto collettivo preveda espressamente l'indicazione dei motivi, ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, ne' in particolare e' tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle" (cosi' da ultimo Cass. 9/2/2006 n. 2851, v. anche Cass. 7/8/2004 n. 15320, Cass. 13/11/2000 n. 14680, Cass. 21/10/1998 n. 10461).

Legittimamente, quindi, e con adeguata motivazione, la impugnata sentenza ha affermato che "la societa' ha fatto correttamente riferimento nella lettera di contestazione a precise circostanze di fatto, che ha poi richiamato nella lettera di licenziamento, precisando che dopo attenta valutazione non poteva accogliere le controdeduzioni del lavoratore che si era limitato a rilevare, tramite il rappresentante sindacale, il verificarsi del fatto contestato fuori dell'azienda".

Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della Legge n. 604 del 1966 articolo 1 e articolo 2119 c.c., nonche' vizio di motivazione, premessa in generale la differenza tra "reati commessi all'interno dell'azienda o che comunque violino direttamente interessi aziendali" e "reati commessi al di fuori dell'ambito aziendale e che non coinvolgono direttamente interessi dell'imprenditore", fatte salve le ipotesi nelle quali "la prestazione lavorativa richieda un ampio margine di fiducia", lamenta, in sostanza, che la sentenza impugnata, pur assumendo come "fatto pacifico quello per cui il reato sia stato consumato al di fuori dei luoghi di lavoro, non motiva le ragioni per le quali detta condotta avrebbe un'incidenza sul rapporto fiduciario inter partes", omettendo anche di considerare la "posizione del Be. in seno all'azienda" e le mansioni svolte. Richiamato quindi il principio affermato da Cass. 13/4/1999 n. 3645, il ricorrente lamenta inoltre che la Corte di Appello non ha tenuto conto del fatto che "negli oltre venti anni di anzianita' lavorativa il dipendente aveva sempre assunto un comportamento irreprensibile" ne' "ha minimamente considerato l'invocata disciplina legale di promozione della tutela e del recupero dei soggetti che siano incorsi in esperienze negative in materia di stupefacenti".

Anche tale motivo risulta infondato.

Nel quadro della valutazione complessiva di tutti gli elementi di fatto oggettivi e soggettivi emersi, la Corte di merito, con motivazione adeguata e priva di vizi logici, ha valutato espressamente sia la "mancanza di precedenti disciplinari", sia il "venir meno dell'elemento fiduciario", sia la situazione aziendale in relazione al rischio concreto verificatosi, sia, infine, la circostanza che il lavoratore aveva beneficiato della sospensione della pena, la quale comunque "non obbligava il datore di lavoro a riammetterlo in azienda".

Il giudizio di valore cosi' espresso dalla Corte di Appello con motivazione adeguata e logica, resiste, peraltro, alla censura del ricorrente anche sotto il profilo del sindacato di legittimita' sulla valutazione applicativa della "clausola generale" dettata dalla "norma elastica" (su cui v. da ultimo Cass. 15/4/2005 n. 7838, Cass. 13/5/2005 n. 10058, Cass. 2/11/2005 n. 21213, Cass. 6/4/2006 n. 8017), che sembra essere stato invocato, in sostanza, dal ricorrente attraverso il richiamo al principio affermato da Cass. n. 3645 del 1999.

Al riguardo, infatti, come ha precisato Cass. 26/6/2004 n. 11919, "l'attivita' di integrazione del precetto normativo di cui all'articolo 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - mediante riferimento alla "coscienza generale", e' sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori del l'ordinamento, esistenti nella realta' sociale".

Tali requisiti di specificita' non possono ritenersi integrati dal semplice generico richiamo al principio espresso da Cass. n. 3645 del 1999 (con riferimento, peraltro, ad uno "standard" valutativo relativo ad una fattispecie di licenziamento irrogato per "episodi limitati di uso di sostanze stupefacenti", ben diversa da quella in esame).

Con i quarto motivo, il ricorrente, denunciando violazione della Legge n. 300 del 1970 articolo 7 nonche' vizio di motivazione sulla proporzionalita' della sanzione irrogata, deduce che la impugnata sentenza non avrebbe "motivato adeguatamente il proprio giudizio di ritenere che il comportamento penalmente rilevante tenuto dal sig. Be. sia tale da legittimare senz'altro la comminatoria del licenziamento", non essendo all'uopo sufficiente "la mera affermazione della sussistenza di un generico rischio di introduzione della droga in azienda".

Anche tale motivo e' infondato.

Come si e' gia' rilevato con riferimento al primo motivo, la impugnata sentenza al riguardo ha, in sostanza, accertato un grave, specifico rischio concreto per la azienda, in considerazione anche delle caratteristiche e delle dimensioni della stessa, evidenziando altresi', espressamente, la sussistenza di validi "motivi che hanno fatto venir meno l'elemento fiduciario".

La motivazione sopra richiamata risulta quindi senz'altro adeguata e priva di vizi logici.

Il ricorso va, pertanto, respinto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in euro 40,00, oltre euro 3.000,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

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