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L'obbligo della collazione ereditaria riguarda le donazioni (dirette e indirette) ma non i beni oggetto di trasferimento a titolo oneroso (anche se a favore del coerede), poiché, in tal caso, esso sorge solo dopo che sia stata dichiarata la simulazio

L'obbligo della collazione ereditaria riguarda le donazioni (dirette e indirette) ma non i beni oggetto di trasferimento a titolo oneroso (anche se a favore del coerede), poiché, in tal caso, esso sorge solo dopo che sia stata dichiarata la simulazione dell'atto, in accoglimento di apposita azione formulata dal coerede che chiede la divisione, il quale, nel proporre l'azione di simulazione, non è terzo ma subentra nella posizione del "de cuius", anche ai fini della prescrizione dell'azione medesima che già rientrava nel patrimonio del "de cuius". Solo quando l'azione di simulazione viene esercitata in funzione della riduzione della donazione (che si asserisce dissimulata) il termine prescrizionale decorre dalla data di apertura della successione, mentre quando la declaratoria di simulazione sia richiesta non per far valere il diritto alla quota di riserva ma al solo scopo dell'acquisizione del bene oggetto di donazione alla massa ereditaria, in vista della determinazione delle quote dei condividenti e senza che avvenga addotta alcuna lesione di legittima, il termine di prescrizione della relativa azione decorre dal compimento dell'atto che si assume simulato." E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 21 febbraio 2007, n. 4021, che ha così confermato l'impugnata sentenza con la quale si era ritenuto che il ricorrente, non avendo agito come legittimario, bensì deducendo la simulazione al fine di acquisire alla massa ereditaria il bene ceduto in donazione ad altro coerede, si era posto nella stessa posizione del "de cuius", anche con riguardo alla prescrizione dell'azione, in concreto maturata, dovendo farsi decorrere il "dies a quo" dalla data di stipulazione dell'atto e non dall'apertura della successione.



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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 3 ottobre 1997 Co.Lu. convenne innanzi al Tribunale di Verbania la sorella Co.Gi. esponendo di essere erede, unitamente alla predetta, della madre Go.Ma., deceduta il 1° febbraio 1995, e del padre Co.Gi., deceduto il 13.4.1996; che i defunti erano proprietari di un appartamento di tre locali ed accessori ed erano titolari di pensione nonché proprietari di beni mobili (titoli, danaro gioielli ed arredi); che la sorella si era appropriata di tutti i beni di proprietà dei genitori e dei depositi bancari; che a seguito di ricerche presso la Conservatoria dei RR.II., esso attore era venuto a conoscenza che, con atto del 19 febbraio 1987, i genitori avevano venduto alla convenuta la nuda proprietà dei beni immobili siti in Gr.To.; che tale vendita dissimulava una donazione. Chiese, pertanto, che, premesse le declaratorie del caso e la collazione degli immobili, la convenuta fosse condannata a consegnargli la metà dei beni facenti parte degli assi ereditari dei defunti genitori.

Il Tribunale rigettò la domanda di simulazione; accolse quella di divisione, limitatamente agli arredi esistenti nell'immobile, e, di conseguenza, condannò Co.Gi. e restituire all'attore la quota della metà di detti beni. Il Co.Lu. propose appello cui resistette Co.Gi.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 21 gennaio 2003, ha rigettato il gravame regolando le spese.

La Corte ha osservato:

- che l'appellante non aveva mai proposto azione di riduzione, essendosi limitato a chiedere la dichiarazione di simulazione dell'atto di vendita;

- che pertanto, non avendo agito come legittimario, ma avendo dedotto la simulazione al fine di acquisire alla massa ereditaria il bene ceduto, si era posto nella stessa posizione del de cuius, anche con riguardo alla prescrizione dell'azione, nella specie maturata, dovendo farsi decorrere il dies a quo dalla data di stipulazione dell'atto e non dall'apertura della successione;

- che, quanto alla somma di L. 69.000.000, asseritamente esistente sul conto corrente intestato al padre, da cui la convenuta aveva effettuato prelievi durante la vita del genitore, l'attore non aveva chiesto la collazione, previa dimostrazione che le medesima era stata donata e che la convenuta se ne fosse indebitamente appropriata, avendo invece chiesto soltanto la divisione dei beni esistenti all'epoca della morte, previa collazione dei soli immobili;

- che, neppure in relazione alla collezione di armi era stata formulata domanda di collazione né era stato evocato in giudizio Ag.Pa., nipote del de cuius, al quale, con testamento olografo del 24.12.1998, il bene era stato legato; mancando, quindi, la prova che la convenuta fosse in possesso delle armi, la stessa non era legittimata all'azione.

Co.Lu. ha chiesto la cassazione della sentenza affidandosi a quattro motivi. Resiste con controricorso Co.Gi.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2946, 2935, 724 e 737 c.c. nonché degli artt. 112, 184 e 345 c.p.c. Il ricorrente aveva chiesto che, ai fini della divisione, si tenesse conto, ai sensi dell'art. 724 c.c., anche del bene trasferito alla sorella. Solo dopo la ricostituzione degli assi ereditari egli poteva conoscere l'eventuale lesione della sua quota di legittima e valutare se alla domanda dovesse conseguire anche la riduzione della donazione. La domanda, così come formulata con l'atto di citazione, non poteva essere proposta dal de cuius. Gli artt. 724 e 737 c.c. impongono al coerede la collazione di tutto ciò che egli abbia ricevuto in donazione, sia direttamente che indirettamente, e diversamente opinando, si giungerebbe all'assurdo di ritenere, in ogni caso, non soggette a "collazione ed imputazione" le donazioni indirette o mascherate effettuate dal de cuius prima del decennio dalla sua morte. Nessun mutamento della domanda era intervenuto in appello allorché il ricorrente aveva richiesto che nella divisione dei beni e diritti esistente alla morte dei genitori si tenesse conto del valore della donazione simulata.

Il motivo non è fondato.

Il ricorrente confonde l'azione di simulazione con quella di divisione e con l'obbligo di collazione (o, per certi versi, di imputazione).

L'obbligo di collazione, che è previsto in sede di divisione al fine di non alterare il trattamento spettante a ciascuno degli eredi, sorge automaticamente con l'apertura della successione, con la conseguenza che i beni donati concorrono alla formazione della massa ereditaria da dividersi. La collazione riguarda le donazioni (dirette e/o indirette) ma non i beni oggetto di trasferimento a titolo oneroso (anche se a favore del coerede), poiché, in tal caso, l'obbligo di collazione sorge solo dopo che sia stata dichiarata la simulazione dell'atto, in accoglimento di apposita azione proposta dal coerede che chiede la divisione, il quale, nel proporre l'azione di simulazione, non è terzo ma subentra nella posizione del de cuius, anche ai fini della prescrizione dell'azione medesima che già rientrava nel patrimonio del de cuius.

Solo quando l'azione di simulazione viene esercitata in funzione della riduzione della donazione (che si asserisce dissimulata) il termine prescrizionale decorre dalla data di apertura della successione (Cass. n. 6493 del 1986; Cass. n. 7909/90), ma ciò non accade quando sià domandata la declaratoria di simulazione non per far valere il diritto alla quota di riserva ma al solo scopo della acquisizione del bene alla massa ereditaria, in vista della determinazione delle quote dei condividenti e senza che venga addotta lesione di legittima.

La Corte territoriale, nel ritenere prescritta l'azione di simulazione si è attenuta a tali principi.

2. Col secondo motivo si denunzia violazione degli artt. 112. 184, 345 c.p.c. nonché degli artt. 724 e 737 c.p.c., l'importo della somma di L. 69.000.000 doveva essere considerato nella formazione dell'asse ereditario in quanto per i prelievi effettuati dalla sorella non sussisteva alcuna (provata) giustificazione. Non poteva condividersi la motivazione adottata dalla Corte torinese per escludere la somma dalla divisione, nella quale dovevano rientrare non solo i beni presenti all'atto della morte,, ma anche i diritti di credito del de cuius. La Corte aveva erroneamente ritenuto che si dovesse chiedere la collazione delle somme che si assumevano donate o comunque "prelevate" laddove, invece, la collazione deve avvenire automaticamente a seguito dell'apertura della successione. Il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi sulla questione dei 69 milioni.

Il motivo è infondato.

Nel secondo motivo di appello (cui il motivo di ricorso espressamente rimanda per sostenere l'omessa pronunzia da parte del Tribunale) si deduceva che la convenuta aveva prelevato dal conto paterno tale somma senza giustificazione e che si trattava di "appropriazioni "del danaro paterno per cui "l'importo corrispondente doveva essere considerato ai fine della formazione dell'asse ereditario e delle divisione con l'attore". Nessun accenno, quindi, veniva fatto ad una donazione (neppure indiretta) o alla collazione e neppure all'obbligo di imputazione della somma alla quota della sorella come debito di costei verso il defunto (di cui all'art. 724 e 2 c.c.). Il Co. si limitava semplicemente a sostenere che il danaro faceva parte dell'asse ereditario in quanto oggetto di appropriazione.

Ebbene, la Corte di Appello è partita dalla premessa che sul conto paterno vi era, all'epoca della morte, soltanto la somma di L. 1.200.000 e che il fratello si era limitato a "chiedere la divisione dei beni esistenti" senza aver chiesto la collazione della somma maggiore - che era tenuto a chiedere in maniera specifica, "previa dimostrazione che la stessa era stata donata" - e senza neppure addurre l'impossessamento della somma stessa, che, quindi, secondo la stessa Corte, non faceva parte dell'asse ereditario di cui era stata chiesta la divisione. La Corte di Appello, dunque - a parte l'impreciso rilievo circa la necessità di una specifica domanda (forse, nel contesto del discorso motivazionale, ha inteso riferirsi alla necessità di una specifica domanda volta a far accertare la donazione) - ha, in sostanza, escluso sia l'impossessamento illegittimo. da parte della Co.Gi. sia la ricorrenza di una donazione, allegata dall'attore solo per i beni immobili. Di conseguenza la Corte territoriale ha motivatamente escluso che la somma di che trattasi fosse caduta in successione ("la somma non era più nel patrimonio del de cuius al momento della morte") e che, solo per i beni immobili, era stata "domandata" la collazione. La questione (adombrata pag. 10 ricorso), che potesse trattarsi di un credito del de cuius, verso l'erede, è nuova e non può essere esaminata in questa sede.

In definitiva, correggendosi la motivazione; per quanto riguarda l'erronea affermazione di diritto sulla necessità della specifica domanda per la collazione, il motivo deve essere rigettato.

3. Col terzo motivo - denunziandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 620, 724 e 737 c.c. - si critica la sentenza per non avere la Corte territoriale considerato che il testamento (contenente il legato della collezione di armi a favore del nipote) non era stato pubblicato. La mancanza di pubblicazione comportava che la collezione doveva ritenersi ancora facente parte del patrimonio ereditario ed il ricorrente aveva chiesto al giudice di appello di provare che le armi erano più numerose di quelle indicate nel (preteso) testamento.

Neppure questa censura è fondata.

Il motivo di appello, relativo alla collezione di armi, riguardava, per come riportato nella sentenza impugnata, soltanto: a) la mancata pubblicazione del testamento; b) la richiesta di provare (tramite informazioni ai c.c.) che "le armi non erano tutte quelle di proprietà ed in possesso del de cuius al momento della morte" (prova illegittimamente disattesa).

La Corte di Appello non si è occupata dell'efficacia del testamento poiché ha disatteso il motivo sul rilievo che non era stata chiesta la collazione - né era stato evocato in giudizio il (presunto) legatario, "con la conseguenza che, non essendovi prova che la controparte fosse in possesso delle armi, la stessa non risulta (va) legittimata all'azione" giungendo, in sostanza, a negare la legittimazione passiva della coerede.

Il richiamo fatto dalla Corte di appello alla collazione è - in questo caso - un fuor d'opera, non essendo in questione beni donati direttamente o indirettamente, al coerede.

Il giudice di appello è pervenuto alla conclusione del difetto di legittimazione passiva della coerede sulle premesse che (a) l'erede non aveva chiesto la collazione né evocato in giudizio il legatario, con la conseguenza (b) che non era dimostrato il possesso dei beni ereditari da parte della convenuta per cui (c) la stessa non era legittimata passiva all'azione. L'assunto finale (c) non è logicamente collegabile alle premesse (a) e (b), non potendosi né ricavare (b) da (a) né, a maggior ragione, (c) dalle due proposizioni precedenti.

E, tuttavia, l'assunto decisorio della Corte di Appello (id est: il difetto di legittimazione della convenuta) - sebbene raggiunto attraverso un procedimento logico errato - non viene fatto oggetto di una pertinente censura da parte del ricorrente il quale incentra la sua critica sugli effetti della pubblicazione del testamento, sulla impossibilità di evocare in giudizio il legatario ed, infine, sulla non necessità di formulare espressa domanda di collazione, questioni tutte superate dalla Corte di Appello che, come si è visto, ha deciso la questione in base al rilevo (assorbente) del difetto di legittimazione della convenuta.

4. Col quarto motivo si denunzia violazione dell'art. 112 c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso di pronunziare sul quarto e quinto motivo, di appello;

Il motivo è inammissibile perché generico.

4. a. In linea generale deve premettersi che il motivo di ricorso deve sempre rispettare il requisito della specificità anche allorché denunzia un vizio processuale ed, in particolare, la violazione dell'art. 112 c.p.c. Nella specie, essendo stato denunziato il vizio di omessa pronunzia, occorreva specificare chiaramente quali erano le doglianze proposte in appello e sulle quali la Corte di appello non si è (ra) pronunziata, al fine di mettere la Corte di Cassazione nelle condizioni di valutarne l'ammissibilità, l'interesse della parte a proporle, la rilevanza delle questioni proposte ed ogni altro aspetto di ammissibilità delle stesse.

La denunzia (come nella specie) dell'errar in procedendo, invero, se pur rende la Corte di Cassazione giudice anche del "fatto processuale", non esonera la parte ricorrente dall'onere di proporre un ricorso specifico ed autosufficiente quanto alla doglianza in esso contenuta, che - se generica - non può né deve essere integrata dal giudice di legittimità.

4. b. L'odierno ricorrente, che critica la sentenza per non avere preso in esame talune censure rivolte alla decisione di primo grado, era, per quanto detto, tenuto, in ossequio, al principio di autosufficienza del ricorso, a specificare compiutamente quali fossero queste censure, sì da consentire alla Corte di Cassazione di apprezzarne preliminarmente la decisiva rilevanza, che, del resto, doveva essere non solo allegata dalla parte ricorrente ma anche dimostrata con argomenti logici adeguati.

4. c. Secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte in tema di contenuto del ricorso per cassazione, la finalità perseguita dalla norma di cui all'art. 366 n. 4 c.p.c. è quella di assicurare che il ricorso stesso presenti l'autonomia necessaria a consentire, senza il sussidio di altre fonti, l'immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, consentendo quindi un controllo alla Corte di Cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (in tali sensi, e plurimis, Cass. nn. 17627/2003, 10324/2000, 8013/1998, 1161/1995).

Alla luce dell'indicato principio, può, dunque, affermarsi che, allorquando con il ricorso per Cassazione si lamenti il mancato esame da parte del giudice d'appello, delle critiche rivolte alla sentenza di primo grado, è necessario che il ricorrente specifichi quali siano state queste critiche onde consentire al giudice di legittimità di valutare la dedotta omissione. Né il requisito della specificità, completezza e riferibilità dei motivi del ricorso alla decisione impugnata può dirsi rispettato quando il ricorso per cassazione è basato sul richiamo ai motivi di appello, nonché alle deduzioni svolte nei precedenti gradi del giudizio. Per vero, l'onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per Cassazione dall'art. 366, n. 4, c.p.c., qualunque sia il tipo di errore per cui è proposto (in procedendo o in iudicando), non può essere assolto per relationem, con il generico rinvio ad atti del giudizio dì appello, senza la esplicazione del loro contenuto (cfr. Cass. nn., 14075/2002, 13258/2000, 252/1996, 5217/1967 e, da ult., Cass. 20454/2005).

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente alle spese, liquidate come nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in complessivi euro 1600,00, di cui euro 1500,00 per onorario, oltre spese fisse, IVA, CAP ed altri accessori di legge.

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