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La nullità del contratto principale per illiceità della causa si trasmette al contratto di garanzia rendendolo nullo
Pubblicata il 14/01/2008
Siffatto principio incontra tuttavia una prima eccezione, costituita dall'escussione fraudolenta o abusiva, a fronte della quale il garante può e deve opporre la exceptio doli.
Una seconda deroga è costituita dal caso in cui l'eccezione sia fondata sulla nullità del contratto principale per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa. In quest'ultima ipotesi in cui, attraverso il secondo contratto si tende ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta, l'invalidità del contratto "presupposto" si comunica al contratto di garanzia, rendendo la sua causa illecita.
(Cassazione – Sezione I civile – 14 dicembre 2007, n. 26262).
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Giampiero Brach Prever e Franca Solero, con distinti atti di citazione, proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo del Tribunale di Torino del 2 ottobre 2000, per la somma di £ 403.215.565, oltre interessi, pari al saldo passivo dei c/c n. 8300 ed 8344 accessi dalla Brach Prever s.r.l. presso la Banca Sella s.p.a., in relazione ai quali avevano prestato fideiussione.
Gli opponenti deducevano: il difetto di esigibilità, liquidità e certezza del credito; l'illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, operata in virtù di una clausola contrattuale nulla, siccome in contrasto con l'art. 1283 c.c.; il carattere usurario degli interessi; l'illegittimità del recesso dall'apertura di credito.
La Banca Sella s.p.a. (di seguito, Banca) si costituiva nel giudizio, chiedendo il rigetto della domanda e, in riconvenzionale, la condanna degli attori al pagamento della somma ingiunta.
Riunite le cause e, in seguito, disposta la separazione della causa proposta dalla Brach Prever s.r.l., il Tribunale di Torino, con sentenza dell'8 agosto 2002, rigettava l'opposizione, reputando valida la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, generiche le deduzioni in ordine al carattere usurario degli interessi e legittimo il recesso dalla apertura di credito.
Avverso detta sentenza proponevano appello i soccombenti, chiedendo in sua riforma l'accoglimento delle domande proposte in primo grado.
La Banca resisteva al gravame.
La Corte d'appello di Torino, con sentenza del 14 agosto 2003, rigettava l'appello, condannando Giampiero Brach Prever e Franca Solero a pagare le spese del grado.
Per quanto qui interessa, la sentenza impugnata:
a) riteneva che la contestazione in ordine al criterio di computo degli interessi non escludeva il requisito della liquidità del credito, ma concerneva il merito della controversia e, quindi, non giustificava la revoca, per motivi formali, del decreto ingiuntivo;
b) b) osservava che la irritualità del provvedimento monitorio, conseguente dalla carenza dei requisiti formali stabiliti dall'art. 50 d.lgs. n. 385 del 1993 - e cioè la mancanza di analiticità degli estratti conto e «la inadeguata loro certificazione di conformità alle scritture contabili» - era stata dedotta per la prima volta nella comparsa conclusionale.
Pertanto, configurando «eccezioni processuali» erano inammissibili, in quanto non potevano essere dedotte, per la prima volta, con tale atto e, conseguentemente, non erano scrutinabili nel secondo grado;
c)sottolineava che il titolo invocato dall'opposta consisteva in lettere di fideiussione del 29 novembre 1999 a garanzia della società Brach Prever; quindi, era irrilevante la trasformazione della medesima in s.r.l. da s.a.s., della quale Giampiero Brach Prever era accomandatario, dato che la responsabilità di quest'ultimo era stata invocata non in quanto socio illimitatamente responsabile, bensì in quanto fideiussore;
d) precisava che i contratti di fideiussione contenevano «l'impegno dei fideiussori a pagare senza eccezioni ed anche in caso di invalidità dell'obbligazione principale», affermando che siffatta clausola, «sia che la si intenda nel contenuto sostanziale di contratto autonomo di garanzia, sia che la si interpreti con la valenza processuale di un onere di "solve et repete", preclude l'esame in questa sede di eccezioni (quali quelle relative alla capitalizzazione trimestrale e all'usurarietà degli interessi) attinenti al rapporto con il debitore principale».
Secondo la Corte territoriale, l'applicabilità dell'art. 1945 c.c., in virtù del quale il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, «implicitamente invocata dagli appellanti là dove prospettano motivi di invalidità attinenti al debito garantito», era rilevabile d'ufficio, attenendo alla fondatezza delle eccezioni degli opponenti, convenuti in senso sostanziale. Tuttavia, detta norma non poteva venire in considerazione, «stanti le rilevate clausole derogative al principio di accessorietà della fideiussione» e la «operatività della menzionata clausola "a prima richiesta"», «non ravvisandosi estremi legittimanti la c.d. "exceptio doli generalis"» (...) neppure addotti dalle parti», con conseguente inutilità della chiesta c.t.u., al fine di calcolare il debito, tenendo conto delle eccezioni di invalidità degli appellanti.
Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso Giampiero Brach Prever e Franca Solero (i quali hanno designato un nuovo difensore con procura per notaio Beligni di Torino del 31 ottobre 2007), affidato a quattro motivi, illustrati con memoria; ha resistito con controricorso la Banca Sella s.p.a.
Motivi della decisione
I ricorrenti, con il primo motivo, denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c e nullità della sentenza (artt. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.), esponendo che la Corte territoriale ha affermato che le clausole della fideiussione imponevano ai garanti di «pagare senza eccezioni e anche in caso di invalidità dell'obbligazione principale», ritenendo che l'inopponibilità delle eccezioni fosse rilevabile d'ufficio, non trattandosi di eccezioni in senso proprio, deducendo a conforto le argomentazioni trascritte nel mezzo in esame.
Inoltre, prosegue testualmente il motivo, «la Corte escludeva l'ipotesi di dolo della creditrice, che, correlata alla manifesta insussistenza/invalidità del credito azionato, avrebbe potuto rendere inoperante il pactum de non excipiendo, sulla scorta della motivazione riportata nel mezzo.
Infine, concludono espressamente i ricorrenti, «sotto un secondo profilo, la Corte ha respinto l'eccezione di irritualità del decreto ingiuntivo per insufficiente prova scritta dei crediti azionati», sulla scorta della motivazione trascritta nel mezzo.
Con il secondo motivo è denunciata «nullità della sentenza per violazione del contraddittorio (artt. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.)», nella parte in cui ha rilevato d'ufficio l'inopponibilità alla Banca delle eccezioni di invalidità dell'obbligazione principale, senza provocare il contraddittorio sul punto, in violazione dei principi enunciati da Cass. n. 14637 del 2001 n. 8993 del 2003, così incorrendo in un errore grave, in quanto concernente l'interpretazione di clausole contrattuali, sottratta al controllo in sede di legittimità.
I ricorrenti, con il terzo motivo, denunciano «violazione/falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1283 e 1284 c.c., art. 2, 1. 7.3.1996, n. 108 e art. 2, 1.7.3.1996, n. 108 e art. 112 c.p.c); nullità della sentenza/del procedimento (art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c», dolendosi che la Corte territoriale abbia «ritenuto fosse suo potere rilevare d'ufficio le clausole b e c delle due lettere fideiussorie (docc. 2 e 3 di controparte), che, a suo avviso, sancirebbero l'inopponibilità alla banca delle "eccezioni" sollevate dai ricorrenti».
A loro avviso, nella specie le deduzioni non integrerebbero mere "eccezioni", in quanto essi hanno proposto domande di accertamento della nullità delle clausole e sussisterebbero due ragioni per escludere che il giudice d'appello potesse rilevare, d'ufficio, la questione concernente l'operatività di dette clausole:
a) la Banca non ha allegato l'esistenza delle clausole e, quindi, in virtù delle pronunce di questa Corte indicate nel mezzo, ciò precludeva qualunque eccezione fondata su di esse, non essendo sufficiente, ai fini dell'allegazione di un fatto, la produzione del documento dal quale è desumibile il fatto stesso;
b) l'eccezione non era rilevabile d'ufficio, dato che, in, riferimento alla clausola solve et repete, Cass. n. 5819 del 1993 e n. 616 del 1970 hanno affermato che l'avvalersi della stessa costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto.
Inoltre, i ricorrenti lamentano che la pronuncia ha ricondotto la fattispecie ad un caso di solve et repete, ovvero ad un contratto autonomo di garanzia, lasciando irrisolta l'alternativa e, comunque, in entrambi i casi ci si troverebbe di fronte ad eccezioni in senso stretto.
Peraltro, la sentenza non ha considerato che anche il contratto autonomo di garanzia «viene meno quando il contratto principale è illecito» (Cass. n. 3326 del 2002) e, nella specie, non sussisterebbero dubbi «sulla illiceità della clausola impositiva di interessi anatocistici in violazione dell'art. 1283 c.c.», comportando, inoltre, il ricorso illecito all'anatocismo la violazione del tasso soglia stabilito per individuare il carattere usurario degli interessi.
Gli istanti deducono altresì che il limite dell'usura è stato superato con riferimento alle operazioni di «sconto e/o accredito in conto corrente», in considerazione della pattuizione di «interessi convenzionali dell'11,375% (v. contratto 13.8.96 sub doc. 1 di controparte», tenuto conto del tasso di usura in riferimento agli anni 1999/2000 (indicati nel mezzo).
Questa circostanza era stata invocata quale motivo di contestazione della pretesa azionata con la domanda monitoria e quale causa di nullità dei contratti di conto corrente. Tuttavia, la Corte d'appello non l'ha esaminata, ritenendola assorbita dalle diverse ragioni «su cui ha fondato la propria decisione "della terza via"», sicché, «una volta caduta la premessa che sorregge la sentenza impugnata, anche questo motivo andrà esaminato dal giudice del rinvio».
In ogni caso, secondo i ricorrenti, «il medesimo profilo costituisce autonomo motivo di cassazione della sentenza impugnata».
Infine, deducono testualmente gli istanti: «si ribadisce la doglianza mossa alla sentenza di primo grado, che ha ritenuto tardivamente dedotto il presente motivo di censura. In realtà i ricorrenti lo avevano già formulato nell'atto di citazione [è riportato sul punto un brano desunto dalla citazione], ribadito nelle conclusioni dell'atto medesimo [è riportata al riguardo una frase asseritamente estratta dalla citazione] confermato nelle conclusioni definitive».
2. I ricorrenti, con il quarto motivo, denunciano «insufficiente/contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.) nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto tardiva l'eccezione di irritualità del decreto ingiuntivo in relazione al combinato disposto degli artt. 633 c.p.c. e 50 del d.lgs. n. 385 del 1993.
A loro avviso, gli estratti conto prodotti dalla Banca consistono in una «asettica indicazione del saldo negativo dei due conti correnti e non contengono alcuna indicazione degli elementi che hanno concorso a formare il dato contabile; tanto meno recano la completa e chiara evidenziazione dell'intero svolgimento del rapporto .di conto corrente», non sono stati sottoscritti da uno dei dirigenti della banca e non recano la certificazione di conformità alle scritture contabili e l'attestazione della verità e liquidità del credito.
Secondo i ricorrenti, «è documentato che già nell'atto di citazione in opposizione (...) avevano eccepito la carenza dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità», formulando la censura «in apertura di motivazione (pag. 2) e in termini generali» e gli ulteriori dettagli in cui si sostanziava la censura «venivano indicati in comparsa conclusionale (pagg. 8 e 9)».
Pertanto, l'unico elemento nuovo sarebbe consistito nel richiamo dell'art. 50 cit. e ciò «basterebbe (...) a respingere la decisione resa sul punto dal Tribunale».
Inoltre, «la sussistenza di una prova scritta ex art. 633 c.p.c. costituisce una condizione dell'azione (...), onde la sua mancanza impedisce non tanto l'accoglimento del ricorso, quanto la possibilità di deciderlo nel merito». Pertanto, si tratta «di un presupposto processuale (...) , la cui carenza è rilevabile d'ufficio (...) in ogni stato e grado del giudizio», sicché erroneamente la sentenza ha ritenuto che il vizio doveva costituire oggetto dell'eccezione della parte, non avendo la Banca posto rimedio alla carenza documentale nel corso del giudizio di opposizione.
3. L'avviso di udienza alla controricorrente è stato correttamente notificato presso la Cancelleria di questa Corte.
Infatti, detto avviso è stato comunicato, con esito negativo, presso il domicilio eletto indicato nel ricorso, dato che uno dei due difensori, e domiciliatario, avv. Giuseppe Neri, è risultato deceduto e, tuttavia, tale evento fa venire meno l'elezione di domicilio, ma non la rappresentanza ritualmente conferita all'altro procuratore rimasto in vita. Pertanto, da un canto, non sussistono i presupposti per il rinvio della causa a nuovo ruolo (in virtù del principio enunciato da Cass. S.U. n. 477 del 2006); dall'altro, il decesso di uno dei difensori, che era anche domiciliatario, determina, ai sensi dell'art. 141, quarto comma, c.p.c, l'inefficacia dell'elezione di domicilio, con la conseguenza che la notifica degli atti va eseguita nei modi previsti per le ipotesi nelle quali non vi sia stata elezione di domicilio, quindi l'avviso d'udienza va notificato presso la cancelleria di questa Corte, ai sensi del secondo comma dell'art. 366 c.p.c. (Cass. S.U. n. 4632 del 1998; Cass. n. 12424 del 2006).
4. Il quarto motivo, da esaminare per primo, in quanto logicamente pregiudiziale, poiché attiene all'esistenza dei requisiti per la pronuncia del provvedimento monitorio, è infondato.
4.1. Preliminarmente va ricordato che la statuizione del giudice di merito il quale non esamini e non decida una questione oggetto di specifica doglianza è impugnabile per cassazione attraverso la deduzione del relativo error in procedendo, ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c, in riferimento alla violazione dell'art. 112 dello stesso codice. Tuttavia, qualora il giudice abbia preso in considerazione tale questione e l'abbia risolta senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione adottata sul punto, la relativa statuizione è denunciabile per vizio di motivazione, ex art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 4201 del 2006). L'interpretazione della domanda spetta infatti al giudice del merito, sicché, quando questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata - ed era compresa nel thema decidendum -, ovvero che non era stata proposta, tale statuizione non può essere direttamente censurata per violazione del principio della domanda, in quanto, avendo il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse o meno ritenersi compresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione o di omessa pronuncia non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella medesima motivazione. In tal caso, il dedotto errore del giudice non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte (Cass. n. 17451 del 2006).
Quest'ultima è l'ipotesi sussistente nella specie, quindi correttamente i ricorrenti hanno dedotto il vizio di motivazione. La sentenza impugnata ha, infatti, affermato che «l'opposizione è stata originariamente fondata sulla sola addotta non liquidità dei crediti, in conseguenza delle sollevate contestazioni sui criteri giuridici di conteggio degli interessi», osservando che tanto «non incide sul requisito della liquidità, di per sé emergente dall'estratto conto, ma attiene al merito del credito controverso e non giustifica perciò la revoca del decreto ingiuntivo per motivi formali e indipendentemente dall'accertamento dell'inesistenza, in tutto o in parte, del credito ingiunto».
La Corte territoriale ha aggiunto che «solo nella comparsa conclusionale di primo grado (...) gli attuali appellanti hanno addotto, come autonomo motivo di irritualità del decreto ingiuntivo, la non ricorrenza dei requisiti formali di cui all'art. 50 T.U. n. 385/93, e cioè l'assenza di analiticità degli estratti conto e la inadeguata loro certificazione di conformità alle scritture contabili», ritenendo dette eccezioni non proponibili, per la prima volta, nella comparsa conclusionale.
Si tratta, come è chiaro, di una motivazione completa, coerente e congruente, che si sottrae alle censure svolte nel mezzo, risolventisi, in buona sostanza, in una reiterazione delle deduzioni svolte in appello, con le quali i ricorrenti non si danno carico di confutare le argomentazioni poste dal giudice del merito a base del loro rigetto. In questa parte, le censure sono dunque inammissibili, dato che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il ricorrente ha l'onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata e siffatto requisito non può ritenersi soddisfatto mediante il mero richiamo dei motivi di appello, poiché una tale modalità di formulazione del motivo si rivela del tutto carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione (Cass. n. 10420 del 2005; n. 16763 del 2002; n. 14075 del 2002; n. 4013 del 1998; n. 2749 del 1995).
Peraltro, a fronte della esatta precisazione contenuta nella pronuncia in ordine alla differenza tra i requisiti di certezza liquidità ed esigibilità del credito ed i requisiti formali stabiliti dall'art. 50 del d.lgs. n. 385 del 1993, i ricorrenti non soltanto non hanno dissentito in ordine a siffatta diversità, come delineata dalla sentenza, ma hanno dedotto che con l'atto di citazione avevano contestato detti requisiti «in termini generali», affermando che «gli ulteriori dettagli in cui si sostanziava la censura (...) venivano ricordati in comparsa conclusionale», confortando in tal modo la correttezza della conclusione affermata dalla Corte d'appello, così da fare escludere che l'elemento nuovo dedotto nella comparsa conclusionale sarebbe consistito soltanto nel richiamo dell'art. 50, d.lgs. n. 385 del 1993.
Inoltre, la sentenza espone che essi si erano limitati a lamentare la «assenza di analiticità degli estratti conto» e la «inadeguata loro certificazione di conformità alle scritture contabili». Pertanto, se si considera che, ai sensi del citato art. 50, «la Banca d'Italia e le banche possono chiedere il decreto d'ingiunzione previsto dall'art. 633 del codice di procedura civile anche in base all'estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido», risulta chiaro che la contestazione, così come formulata, secondo quanto risulta dalla sentenza, non prospettava affatto la totale carenza dei requisiti dalla stessa previsti, tale da rendere irriconducibile la documentazione a quella prevista dalla norma sino a configurare una mancanza di prova scritta, rilevabile d'ufficio. Al fine di prefigurare la ricorrenza di detta ipotesi, ed in contrasto con l'affermazione contenuta nella sentenza, i ricorrenti sostengono invece che «i due estratti conto non sono stati sottoscritti da uno dei dirigenti della banca e nemmeno vi risulta la certificazione di conformità alle scritture contabili né l'attestazione della verità e liquidità del credito», con deduzione inammissibile, siccome, in violazione del principio di autosufficienza, neppure hanno indicato in quale atto avrebbero prospettato una siffatta deduzione, configurante la sostanziale inesistenza di un atto astrattamente riconducibile alla fattispecie delineata dalla norma.
5. I primi tre motivi - il primo dei quali non è peraltro apprezzabile autonomamente, costituendo mera premessa dei successivi, come riconosciuto dagli stessi ricorrenti con la memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica -, da esaminare congiuntamente, in quanto logicamente e giuridicamente connessi, sono in parte fondati e vanno accolti per quanto di ragione, entro i limiti di seguito precisati.
La sentenza impugnata ha affermato che il contratto invocato dalla Banca per far valere il proprio credito nei confronti dei ricorrenti conteneva «l'impegno dei fideiussori a pagare senza eccezioni ed anche in caso di invalidità dell'obbligazione principale», ritenendo che siffatta clausola, «sia che la si intenda nel contenuto sostanziale di contratto autonomo di garanzia, sia che la si interpreti con la valenza processuale di un onere di "solve et repete" preclude l'esame in questa sede di eccezioni (quali quelle relative alla capitalizzazione trimestrale e all'usurarietà degli interessi) attinenti al rapporto con il debitore principale».
Secondo la Corte, territoriale, l'applicabilità dell'art. 1945 c.c., in virtù del quale il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, «implicitamente invocata dagli appellanti là dove prospettano motivi di invalidità attinenti al debito garantito», era rilevabile d'ufficio, attenendo alla fondatezza delle eccezioni degli opponenti, convenuti in senso sostanziale.
Con i primi tre mezzi i ricorrenti, in buona sostanza, pongono le seguenti questioni:
a) se sia rilevabile d'ufficio la rinuncia dei garanti ad eccepire l'invalidità dell'obbligazione principale, in quanto risultante dal contratto fatto valere dal creditore e, in caso affermativo, se il giudice debba sottoporre la medesima al contraddittorio delle parti;
b) se la rinuncia sub a) operi anche nel caso in cui il contratto principale sia illecito, in quanto è stato convenuto un tasso di interessi superiore alla soglia dell'usura.
5.1. In riferimento al secondo profilo della prima questione, va osservato che i ricorrenti, benché l'abbiano posto nei succitati termini, hanno tuttavia espressamente dedotto: «la Corte ha ritenuto suo potere rilevare d'ufficio le clausole b) e c) delle due lettere fideiussorie (...), che, a suo avviso, sancirebbero l'inopponibilità alla banca delle "eccezioni" sollevate dai ricorrenti. In realtà non si tratta di semplici "eccezioni": gli opponenti non si sono limitati ad eccepire la nullità delle clausole contrattuali in oggetto, ma hanno proposto domande di accertamento della loro nullità» (così, testualmente, alla fine della pg. 7 del ricorso).
Questa prospettazione, svolta testualmente in detti termini dai ricorrenti, è da sola sufficiente ad inficiare il presupposto della tesi a base della questione, dimostrandone l'infondatezza.
Infatti, se i ricorrenti, per loro esplicita ed univoca ammissione, hanno sollevato questione in ordine alla validità delle citate clausole, sulle quali era fondata la rinuncia ad eccepire l'invalidità dell'obbligazione principale, è evidente che proprio questa loro deduzione, basata sulla invalidità sia dell'obbligazione principale, sia delle clausole che prevedevano la rinuncia a farla valere, aveva reso la questione oggetto del thema disputandum, da esaminare sulla scorta del contratto allegato dalla Banca, con conseguente inconferenza del principio evocato in punto di violazione del principio del contraddittorio.
In relazione al primo profilo della questione, va ricordato che le Sezioni Unite hanno qualificato come "eccezione in senso stretto" (riservata alla parte) unicamente quella per la quale la legge richieda espressamente che sia soltanto la parte a rilevare il fatto impeditivo, estintivo o modificativo, ed inoltre quella eccezione che corrisponda alla titolarità di una azione costitutiva (sentenza n. 1099 del 1998). In dette ipotesi l'eccezione comprende la contrapposizione di fatti che, senza escludere la sussistenza del rapporto implicato dalla domanda, sono tuttavia tali che, in loro presenza, risulta accordata al convenuto e disciplinata dal diritto sostanziale una pretesa esercitabile al fine di far venir meno il diritto dell'avversario.
Tutte le altre ragioni che possono portare al rigetto della domanda per difetto delle sue condizioni di fondatezza o per il successivo venire meno del diritto con essa fatto valere, secondo l'orientamento di questa Corte, possono invece essere rilevate anche d'ufficio (Cass. n. 4008 del 2006; n. 421 del 2006; n. 16501 del 2004).
Nella specie, la Banca aveva agito nei confronti dei ricorrenti facendo valere il contratto di garanzia, e perciò era questo il fatto costitutivo invocato dalla Banca a fondamento del proprio credito, essendo incontroverso che detto contratto era stato prodotto ed allegato.
I ricorrenti - opponenti al decreto ingiuntivo, quindi, come correttamente ritenuto dalla sentenza, aventi la veste di convenuti (Cass. n. 24815 del 2005; n. 7539 del 2005) - a fronte di questa domanda, hanno dedotto l'inesistenza del fatto costitutivo, comunque la non azionabilità del credito, a causa di un vizio dell'obbligazione garantita, sostenendo la proponibilità di detta eccezione.
Pertanto, risulta chiaro che la Corte territoriale, per decidere l'eccezione, doveva esaminare e valutare il contratto, al fine di verificare la fondatezza e la proponibilità dell'eccezione con la quale era stato dedotto un fatto impeditivo, senza considerare che, per quanto sopra esposto, avendo gli stessi ricorrenti posto la questione della validità delle clausole contrattuali che precludevano la proposizione dell'eccezione, è palese che la medesima era stata posta nel giudizio.
5.2. Sulla seconda questione sopra sintetizzata sub b), va osservato che la sentenza ha ritenuto ininfluente accertare se la clausola di rinuncia permettesse di ritenere stipulato o meno un contratto autonomo di garanzia, inesattamente non considerando le differenze, più volte puntualizzate da questa Corte, tra siffatto contratto e la garanzia "a prima richiesta" o "a semplice richiesta scritta", nella quale il fideiussore si impegna a rinunziare ad opporre le eccezioni che gli competono, in deroga all'art. 1945 c.c. (sulla quale, per tutte, Cass. n. 27333 del 2005; n. 19300 del 2005). Tuttavia, sul punto la pronuncia non è stata specificamente censurata, secondo le modalità che era necessario osservare, dato che i ricorrenti non hanno neppure indicato, come sarebbe stato necessario, le regole ermeneutiche eventualmente violate e riportato, nell'osservanza del principio di autosufficienza, le clausole contrattuali, essendo comunque il profilo non rilevante, per quanto di seguito precisato.
Nella specie, indipendentemente da detta constatazione, essendo incontroverso che il contratto di garanzia conteneva «l'impegno dei fideiussori a pagare senza eccezioni ed anche in caso di invalidità dell'obbligazione principale» (pg. 6 della sentenza), la pronuncia non si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti in relazione alla parte in cui ha ritenuto che detta clausola precludeva ogni contestazione sul punto.
Questa Corte ha infatti affermato che, nel caso in cui il garante assuma l'impegno di pagare una determinata somma di denaro in favore del beneficiario della garanzia per il solo fatto che tale soggetto, allegando l'inadempimento dell'obbligazione principale, ne faccia richiesta, egli rinunzia ad opporre eccezioni inerenti al rapporto che lega il debitore principale al beneficiario della garanzia, anche se dirette a far valere l'invalidità del contratto dal quale tale rapporto deriva.
Siffatto principio incontra tuttavia una prima eccezione, costituita dall'escussione fraudolenta o abusiva, a fronte della quale il garante può e deve opporre la exceptio doli (Cass. n. 5997 del 2007; n. 6757 del 2001; n. 10864 del 1999), la cui ricorrenza nella specie è stata esclusa dalla Corte territoriale affermando che i relativi «estremi neppure [sono stati] addotti dalle parti interessate» (pg. 7 della pronuncia) con conclusione non specificamente censurata, quindi ormai incontestabile.
Una seconda deroga è costituita dal caso in cui l'eccezione sia fondata sulla nullità del contratto principale per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa. In quest'ultima ipotesi in cui, attraverso il secondo contratto si tende ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta, l'invalidità del contratto "presupposto" si comunica infatti al contratto di garanzia, rendendo la sua causa illecita (Cass. n. 5997 del 2006; n. 3326 del 2002).
Ebbene, è appunto questa l'ipotesi espressamente prospettata dai ricorrenti nel giudizio di merito, in quanto la sentenza impugnata espone che essi avevano dedotto che «sussisteva per certi periodi (indicati nell'atto di appello nel secondo, terzo e questo trimestre 1999 e nel primo trimestre 2000) e con riferimento alle operazioni di "sconto e/o accredito in conto corrente" un eccesso del tasso di interessi passivi pattuiti nel relativo contratto (risalente al 13/8/96, e come tale ricadente sotto le previsioni della legge n. 108/96) rispetto alla soglia usurarla stabilita con D.M. Ciò comportava, ai sensi dell'art. 1815 c.c., la non debenza di interessi sulle dette operazioni» (pg. 4-5 della sentenza).
Questa deduzione va valutata alla luce delle seguenti norme: l'art. 644 c.p., che prevede quale reato il caso in cui una parte, si faccia dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, disponendo che la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari; l'art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, convertito nella legge n. 24 del 2001, il quale stabilisce che, «ai fini dell'applicazione dell'articolo 644 del codice penale e dell'articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento»; l'art. 2 legge n. 108 del 1996, che dispone che il limite oltre il quale gli interessi sono considerati usurari è stabilito con d.m.; l'art. 1815, secondo comma, il quale dispone che «se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi».
Nel quadro di queste norme, risulta dunque palese che, avendo gli appellanti evocato la nullità della clausola concernente la disciplina degli interessi per contrarietà con una norma penale, ai sensi dell'art. 1418 c.c., era astrattamente sussistente la seconda delle due eccezioni sopra indicate, con la conseguenza che la pronuncia ha erroneamente ritenuto che la stessa non potesse essere fatta valere dai ricorrenti e che fosse irrilevante l'accertamento chiesto sul punto e, quindi, in questa parte la sentenza deve essere cassata.
6. In conclusione, la sentenza va cassata in relazione alle censure accolte, entro i limiti e nei termini indicati, e la causa rinviata alla Corte d'appello di Torino che, in diversa composizione, procederà al riesame della controversia, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo altresì anche sulle spese di questa fase (art. 385, terzo comma, c.p.c.).
PQM
La Corte rigetta il quarto motivo, accoglie, per quanto di ragione, i primi tre motivi, cassa in relazione alle censure accolte l’impugnata sentenza e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese della presente fase.