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La confondibilità del marchio va accertata con riferimento alla qualità dei prodotti venduti
Pubblicata il 17/05/2009
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORRADO CARNEVALE - Presidente -
Dott. ALDO CECCHERINI - Consigliere
Dott. VITTORIO RAGONESI - Rel. Consigliere -
Dott. ANTONIO DIDONE - Consigliere -
Dott. LUIGI SALVATO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 3931-2005 proposto da:
Ca. S.p.a. (P.I. (...)), già Ca. S.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Ro., Via Te.Ma. (...), presso l'avvocato Ni.Gi., rappresentata e difesa dagli avvocati Pa.Er., Mu.Al., giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
Gi.Gr. S.p.a. (P.I. (...)), già Pellicceria Ca. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Ro., Via Pa. (...), presso l'avvocato Pe.Ce., che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Te.Pa., Fu.Ma., giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 609/2004 della Corte d'Appello di BOLOGNA, depositata il 13/04/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2009 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI;
udito, per la ricorrente, l'Avvocato A.Mu. che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito, per la controricorrente, l'Avvocato C.Pe. che ha chiesto il rigetto del ricorso in subordine, in via principale l'inammissibilità;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIETRO ABBRITTI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 10-10-1986, la Ca. s.a.s. di Ca.Eu. e C. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Reggio Emilia la Pelliccerie Ca. s.p.a. chiedendo dichiararsi la nullità del brevetto per marchio d'impresa "Pellicce Ca." depositato dalla convenuta presso l'ufficio Centrale Brevetti in data 6-7-1982 e concesso in data 28-1-1985 con il n. (...) in quanto lesivo dei diritti spettanti ad essa attrice in base ai marchi contenenti il nome "Ca." di cui era titolare e protetti rispettivamente dai brevetti n. (...) (depositato il 25-10-1967 e concesso il 9-1-1968), n. (...) (depositato il 9- 12-1969 e concesso il 9-12-1971) e n. (...) (depositato il 15-6-1982 e concesso II 31-8-1982).
Chiedeva, altresì, dichiararsi che l'utilizzazione del marchio "Pellicce Ca." costituiva contraffazione del propri marchi registrati nonché atto di concorrenza sleale e violazione dei diritti riguardanti la propria ragione sociale e, conseguentemente, inibirsi alla convenuta l'uso del predetto marchio con condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio.
Assumeva, invero, la società attrice di essere, dal 1936, un'industria leader nel settore delle confezioni ove aveva costantemente operato sotto una ditta che, pur avendo subito nel tempo alcune variazioni, aveva sempre contenuto il patronimico "Ca." ed esponeva di essere venuta a conoscenza, nel 1982, dell'esistenza, sul mercato, di una ditta concorrente che operava sotto la denominazione di "Pelliccerie Ca. s.r.l.".
Nei confronti di quest'ultima, pertanto, con citazione, notificata il 26-1-1982, aveva già instaurato davanti al Tribunale di Milano una causa, avente ad oggetto l'accertamento, con ogni pronuncia conseguente, che l'uso, da parte della ditta concorrente, del marchio contenente il nome "Ca." costituiva violazione dei diritti esclusivi spettanti ad essa attrice in base al precedente uso, di fatto, del marchio "Ca." nonché atto di concorrenza sleale.
Successivamente all'instaurazione di detta causa, e precisamente in data 6-7-1982, la controparte aveva depositato presso l'Ufficio Centrale Brevetti il marchio "Pellicce Ca." conseguendo la relativa concessione in data 28-1-1985 con il n. (...) talché era divenuto interesse di essa esponente ottenere, anche con riferimento rispettivi marchi registrati l'accertamento delle violazioni, già lamentate avanti al Tribunale i Milano con riferimento ai marchi di fatto usati dalle due parti.
L'atto di citazione veniva altresì, in data 3-10-1986, notificato da Ca. S.a.s., ai sensi dell'art. 60 r.d. n. 929/42, all'Ufficio Centrale Brevetti.
La Pelliccerie Ca. s.p.a. si costituiva in giudizio eccependo, preliminarmente, l'esistenza di un rapporto di litispendenza o, quanto meno, di continenza tra la causa cosi instaurata e quella pendente tra le stesse parti davanti al Tribunale di Milano e, rilevando, comunque, l'assoluta pregiudizialità di quest'ultima.
Nel merito contestava, poi, la fondatezza delle pretese ex adverso avanzate sostenendo che, come risultava anche dal tenore letterale dei rispettivi brevetti per marchio d'impresa e, in particolare, dall'oggetto delle relative dichiarazioni, di protezione, le due società operavano rispettivamente, l'una, nel campo delle confezioni in stoffa per uomo e, l'altra, nel campo della pellicceria e, quindi, in due settori merceologici che, pur rientrando nel più vasto genere dell'abbigliamento, presentavano, quanto alla clientela ed alle modalità di realizzazione e commercializzazione dei rispettivi prodotti, differenze tali da escludere che dal contemporaneo uso dei rispettivi marchi potessero derivare conseguenze pregiudizievoli.
Nella causa interveniva il P.M.
Con ordinanza in data 15-4-1989, il Tribunale di Reggio Emilia, ravvisando un rapporto di continenza tra i due giudizi, disponeva, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., la sospensione del processo in attesa della definizione della causa pendente avanti al Tribunale di Milano.
Il giudizio veniva quindi riassunto da Ca. S.a.s. con ricorso depositato il 19-11-1993 e, quindi, dope vari rinvii, deciso dal Tribunale con sentenza in data 11-1-2001 contenente il rigetto delle domande attrici e la condanna dell'attrice a rifondere alla controparte le spese di lite.
A tale decisione il Giudice di prime grado perveniva rilevando che, pur riguardando la presente causa la lamentata contraffazione dei marchi registrati di Ca. S.a.s. ad opera del marchio successivamente registrato da Pelliccerie Ca. mentre, invece, il giudizio precedentemente instaurato dalla stessa Ca. S.a.s. avanti al Tribunale di Milano e definito con sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 1222/1992, concerneva le lamentate interferenze tra i due marchi di fatto usati dalle parti, le due decisioni presupponevano, entrambe, la soluzione di una identica questione e, cioè, l'accertamento dell'effettiva confondibilità tra i rispettivi marchi ed i prodotti dagli stessi contraddistinti talché il giudicato negativo formatosi al riguardo tra le parti nell'ambito del giudizio concluso dalla Corte milanese doveva ritenersi preclusivo anche dell'accoglimento della domande successivamente avanzate da Ca. S.a.s. in questa causa.
Avverso tale sentenza Ca. s.p.a. (cosi divenuta, già nel corso del giudizio di prime grado, la Ca. s.a.s. di Ca. dr. Eu. e C.) interponeva appello davanti alla Corte felsinea censurando la decisione impugnata per non avere il Tribunale considerate la diversità dei criteri che presiedono alla tutela, rispettivamente, dei marchi di fatto e di quelli registrati, con conseguente irrilevanza, nella presente causa, dell'accertamento negativo sulla confondibilità dei prodotti operato dalla Carte milanese e per avere, altresì, il primo Giudice omesso di pronunciare in ordine alla lamentata violazione del diritti spettanti ad essa appellante in ordine alla propria ragione sociale.
Pertanto richiedeva, in totale riforma della sentenza impugnata, l'accoglimento delle domande già avanzate in prime grado.
La Gi.Gr. s.p.a con sede in Pa. (cosi divenuta la precedente Pelliccerie Ca. s.p.a.) si costituiva in giudizio, resistendo al gravame di controparte e proponendo, a sua volta, appello incidentale avverso la stessa sentenza per non avere il Tribunale considerato che, come aveva rilevato la Corte milanese, per effetto della sentenza del Tribunale di Milano, non impugnata sul punto, si era formato il giudicato anche in ordine all'inesistenza della pretesa contraffazione del marchio registrato di Ca. s.a.s. poi divenuta Ca. s.p.a.
La Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 13.4.04, respingeva sia l'appello principale che quello incidentale sia pure con motivazione in parte diversa rispetto a quella del giudice di primo grado, avendo escluso l'applicabilità del giudicato formatosi tra le parti per effetto della sentenza del tribunale di Milano perché la confondibilità tra i marchi va valutata non in riferimento ai prodotti commercializzati ma a quelli inclusi nella dichiarazione di protezione.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la Ca. s.p.a. sulla base di cinque motivi, illustrati con memoria, cui resiste con controricorso la Gi.Gr. s.p.a..
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente assume che erroneamente la sentenza impugnata ha effettuato il giudizio sulla confondibilità in riferimento ai prodotti effettivamente commercializzati invece che ai prodotti indicati nella dichiarazione di protezione alla base della domanda di rilascio del brevetto.
Con il secondo motivo contesta la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che, nel caso di specie, essa ricorrente avesse rinunciato per non uso al proprio marchio in relazione ai prodotti dell'abbigliamento femminile.
Con il terzo motivo lamenta che la Corte d'appello abbia ritenuto che tra i prodotti di abbigliamento tessile e i prodotti di pellicceria non vi fosse affinità.
Con il quarto motivo di duole del mancato riconoscimento del carattere notorio del marchio Ca.
Con il quinto motivo lamenta la mancanza di pronuncia o quanto meno una insufficiente motivazione in riferimento alla dedotta violazione della ragione sociale.
I primi tre motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente proponendo essi delle questioni tra loro strettamente connesse.
La Corte d'appello, dopo avere escluso l'applicabilità al presente giudizio del giudicato formatosi in virtù della sentenza del tribunale di Milano in ordine alla non confondibilità dei marchi di fatto usati dalle due parti in causa, e, dopo avere accertato la somiglianza esistente tra il marchio "Pellicceria Ca." registrato dalla attuale resistente, e relativo a prodotti inclusi nelle classi 18 e 25 (riguardanti, come specificato nella dichiarazione di protezione, "pellicce e pelli di animali grezze o preparate, conciate e trattate; articoli di pellicceria e pelletteria semi lavorati, lavorati, semiconfezionati e confezionati, valige in pelliccia"), e quelli "Ca.", "Fratelli Ca. Industrie confezioni" e "Ca.Mi." registrati dalla attuale ricorrente, riguardanti capi di abbigliamento in tessuto, ha escluso che tra gli stessi esistesse rischio di confusione in base alla considerazione che si riferivano a prodotti non affini.
In particolare, la Corte d'appello ha osservato che I'attuale ricorrente aveva limitato la propria produzione fin dal 1969 ai soli capi di abbigliamento maschile, onde doveva ritenersi che la stessa aveva di conseguenza rinunciato alla protezione dei propri marchi in riferimento all'abbigliamento femminile, in tal senso necessariamente limitando, sia pure in via implicita, i prodotti inclusi nella dichiarazione di protezione.
La Corte milanese ha, poi, rilevato che tra le confezioni di abbigliamento tessile destinate al sesso maschile e le pellicce destinate al pubblico femminile, a parte la differenza esistente tra le rispettive organizzazioni produttive e distributive, esiste, nell'opinione del consumatori, una sostanziale differenza che impedisce di considerare i prodotti in questione come affini.
Tale differenza a maggior ragione deve ritenersi sussistente per i prodotti di pelletteria inclusi nella classe 18.
Tale motivazione resiste alle censure mosse dalla società ricorrente.
Occorre premettere che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l'apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando, non soltanto l'identità o almeno la confondibilità dei due segni, ma anche l'identità e la confondibilità tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinità. Tali giudizi, infatti, non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cosiddetta "confondibilità tra imprese", (da ultimo v. Cass. 24909/08).
Ben può, pertanto, escludersi la contraffazione di un marchio nel caso in cui il marchio ad esso simile (come accertato di specie) si riferisca a prodotti non affini.
Fatta questa premessa, occorre ribadire il principio ripetutamente affermato da questa Corte secondo cui "si intendono ... affini quei prodotti che per la loro natura, la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno, risultano in misura rilevante fungibili e pertanto in concorrenza, cosicché la mancanza della distinzione precisa tra i segni che li identificano nel mercato comporta, per l'appunto, il rischio della confusione e, dunque, dell'illecita aggressione all'altrui avviamento ed all'altrui clientela. E' conseguente che tale affinità pertanto debba implicare la comunanza di una qualità ontologica dei prodotti in questione e non tanto la mera appartenenza dei medesimi ad un ambito, di origine culturale o di costume."(Cass. 23787/04; Cass. 4295 del 1997; 1424 del 2000; 6244 del 1983).
E' appena il caso di aggiungere che - come correttamente osservato dalla sentenza impugnata - l'inclusione di due prodotti nella stessa classe non è idonea a provarne l'affinità, così come, al contrario, non può l'affinità essere esclusa per il fatto che due prodotti siano indicati in classi diverse. (Cass. 442/72, Cass. 4104/74, Cass. 1808/60). La tabella C infatti, annessa alla legge sui marchi approvata con R.D. 21 giugno 1942 n. 929, e sostituita con la tabella di cui alla legge 10 aprile 1954 n. 129, ha preminente finalità fiscale, per cui, si deve escludere per altri aspetti il suo carattere tassativo.
La sentenza impugnata si è correttamente attenuta a tali principi.
Anzitutto, come già esposto, la stessa ha ritenuto che la società ricorrente aveva implicitamente rinunciato alla protezione dei propri marchi per i prodotti dell'abbigliamento femminile.
Tale affermazione risulta conforme all'orientamento più volte espresso da questa Corte secondo cui la rinuncia ad un diritto, quale manifestazione di autonomia negoziale privata, può presentarsi come tacita, ove emergente da comportamenti che evidenzino senza margine di dubbio l'effettiva volontà abdicativa, non anche come presunta. (Cass. 5871/79, Cass. 3938/74, Cass. 5131/85).
In particolare, la rinuncia può desumersi dal prolungato non uso del marchio per molti anni da parte del suo titolare (nonché dalla tolleranza consapevole dello stesso titolare che altri produttori usassero il suo marchio). (Cass. 3953/79).
E' quanto correttamente ritenuto dalla Corte d'appello che ha rilevato come la circostanza che la società ricorrente non avesse più prodotto dal 1969 capi di abbigliamento femminile lasciava presumere la rinuncia al marchio per detti prodotti.
Tale valutazione diretta a stabilire se sussistono in concreto circostanze idonee a far ritenere verificato il tacito abbandono, può essere, in primo luogo, effettuata d'ufficio trattandosi di un giudizio che riguarda l'accertamento in concreto della sussistenza del diritto fatto valere e, in secondo luogo - involgendo l'accertamento e la valutazione di elementi di fatto ed essendo quindi riservata ai giudici del merito - è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivata, come avvenuto nel caso di specie -. (Cass. 3953/79).
A tale proposito deve rilevarsi come del tutto irrilevanti siano le argomentazioni contenute nel ricorso, ove ci si lamenta del fatto che la Corte d'appello abbia emesso sul punto una pronuncia di decadenza senza che vi fosse domanda da parte della parte interessata, in quanto la sentenza chiaramente afferma che, nel caso di specie, si trattava di una rinuncia parziale al proprio diritto e non di una decadenza essendo stata questa, tra l'altro, tardivamente invocata dalla attuale resistente.
Altrettanto corretto, ancorché sintetico, è il passaggio successivo della motivazione della Corte d'appello, laddove ha rilevato che, nell'opinione dei consumatori, le confezioni di abbigliamento tessile per uomo e i prodotti di pellicceria prevalentemente destinata ad una clientela femminile non sono dei prodotti affini.
Anche a prescindere, infatti, dalla distinzione di sesso dei destinatari dei prodotti in esame, corrisponde ad un dato di esperienza comune che, ancorché anche i capi di pellicceria e di pelletteria rientrino in generale nei capi di abbigliamento, gli stessi non sono destinati alla medesima clientela ed a rispondere ai medesimi bisogni cui sono destinati i capi di abbigliamento in tessuto. i capi di pellicceria, destinati ad un pubblico prevalentemente femminile, rispondono infetti alla esigenza di ripararsi da un freddo particolarmente pungente nel periodo invernale e, in alcuni casi, rispondono a particolari esigenze di eleganza di una certa categoria di consumatori. Gli stessi sono, in altri termini, capi di abbigliamento che tendono a soddisfare esigenze particolari e che non entrano quindi in concorrenza con i normali capi di abbigliamento.
Altrettanto deve dirsi per i prodotti di pelletteria e, in particolare, per quelli, quali borse valige e quant'altro, che non costituiscono capi di vestiario in senso stretto.
Vale a questo proposito la pena di rammentare l'esempio già fatto da questa Corte, riprendendo una citazione dottrinaria, e che cioè "la destinazione alla medesima esigenza alimentare; non rende affini i fagioli e le patate, restando essi prodotti diversi, in quanto destinati a soddisfare specifiche e non generiche esigenze alimentari, quali pervengono al consumatore attraverso filiere di mercato che ne escludono anch'esse la reciproca concorrenza" (Cass. 23787/04 v. altresì Cass. 4295/97 in ordine alla non affinità tra formaggi e salumi).
Sotto tale ultimo profilo la correttezza della valutazione della Corte d'appello risulta adeguatamente rafforzata dalla constatazione che, di regola, i prodotti di pellicceria rientrano in circuiti commerciali del tutto distinti sia sotto il profilo della produzione che sotto quello della distribuzione, onde non possono essere posti in concorrenza con i normali capi di abbigliamento.
La adeguata motivazione fornita dalla Corte d'appello la rende non suscettibile di censura in questa sede di legittimità, onde devono ritenersi inammissibili quelle censure, contenute nei motivi in esame (utilizzo delle pellicce anche nei capi di abbigliamento tessile, esistenza di capi di abbigliamento in pelle e stoffa etc.), che ne contestano il fondamento tendendo a prospettare una diversa valutazione rispetto a quella posta a base della decisione (Cass. 2578/95; Cass. 9720/92 Cass. 4107/74, Cass. 442/72, Cass. 3029/69, Cass. 659/78).
Il quarto motivo è inammissibile.
La Corte d'appello ha invero fondato la propria pronuncia su una duplice ratio decidendi: la prima costituita dalla constatazione che nessuna domanda del riconoscimento del carattere notorio o celebre del marchio era stata avanzata nel giudizio di primo grado e la seconda dal fatto, anche a volere ritenere che detta domanda fosse stata effettivamente proposta sulla base dell'affermazione contenuta in citazione secondo cui "il nome Ca. ha oggi raggiunto una indiscutibile celebrità", il mancato esame di detta domanda da parte del giudice di primo grado non aveva costituito motivo di appello.
La società ricorrente censura la prima ratio decidendi assumendo che l'accertamento della notorietà del marchio non necessitava di apposita domanda e che, comunque, non erano necessarie indagini ulteriori rispetto a quelle già espletate in causa.
Quanto invece alla seconda ratio decidendi, la ricorrente si limita ad affermare che aveva con l'appello integralmente riproposto le proprie domande di merito ivi compreso il motivo inerente la celebrità del marchio.
Tale affermazione risulta del tutto generica e priva di specificità.
La ricorrente avrebbe, infatti, dovuto espressamente specificare, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, il contenuto del proprio motivo di appello sul punto riportandone il contenuto al fine di consentire a questa Corte, cui è inibita la presa in esame degli atti processuali della fase di merito, di valutare l'erroneità o meno della valutazione della Corte d'appello in ordine al mancato proponimento di un motivo di appello sul punto.
Da tutto ciò discende che non potendosi ritenere proponibile la censura relativa alla esaminata seconda ratio decidendi della sentenza, che è in grado di costituire di per sé adeguato fondamento alla decisione di ritenere non esaminabile la questione della notorietà del marchio, la censura svolta avverso la prima ratio decidendi deve ritenersi non sostenuta da alcun interesse per la parte perché, anche nella ipotesi in cui la stessa dovesse ritenersi fondata, non potrebbe comunque dar luogo all'accoglimento del motivo.
Il quinto motivo è manifestamente infondato.
Per quanto concerne la censura di omessa motivazione, è sufficiente osservare che nella sentenza impugnata (pg. 26) si rinviene specifico esame del motivo di appello inerente la ragione sociale, ove se ne rileva l'infondatezza in ragione del fatto che l'esclusione di ogni possibilità di confusione tra di due segni distintivi costituiti dai marchi necessariamente faceva escludere anche la possibilità di confusione tra il marchio "Pellicceria Ca." e la ragione sociale "Ca.".
Per quanto concerne, invece, l'insufficienza della motivazione, va rilevato che quest'ultima appare del tutto adeguata e corretta, sia in punto di fatto che sotto il profilo giuridico, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui il divieto di usare nel marchio l'altrui ditta o ragione sociale, posto dall'art. 14 del R.d. 21 giugno 1942 n. 929, non è assoluto, ma è sempre condizionato alla possibilità di confusione dei prodotti. (Cass. 659/78, Cass. 1178/76, Cass. 814/75, 9230/93, Cass. 241/84).
Il ricorso va pertanto respinto.
Il ricorrente va di conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 6.000,00 per onorari oltre Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali e accessori di legge.