Sono soggetti a tassazione anche i proventi derivanti da attivita' illecita non sequestrati o confiscati

Il considerare quali redditi tassabili anche i proventi da attivita' illecita non sequestrati o confiscati non denunzia alcun contrasto col principio di inviolabilita' dei diritti dell'Uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalita', facendo la norma riferimento a diritti legittimi dell'individuo; ne' con quello di liberta' di iniziativa economica privata, che non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla liberta' ed alla dignita' umana, poiche' l'essere considerati come redditi tassabili non toglie, ai proventi in questione, il carattere di illiceita' loro proprio e non esclude la punibilita' dell'attivita' illecita che li ha generati; ne' infine col principio dell'obbligo di concorso nelle spese pubbliche in ragione della capacita' contributiva di ciascuno, perche' la tassazione dei proventi illeciti tale principio rafforza e riafferma.

Corte di Cassazione Sezione 3 Penale,Sentenza del 29 novembre 2010, n. 42160



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico - Presidente

Dott. TERESI Alfredo - Consigliere

Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere

Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere

Dott. GAZZARA Santi - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) Vi. Co. nata il (OMESSO);

avverso la sentenza del 30.4.2009 della Corte di Appello di Bolzano sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Silvio Amoresano;

sentite le conclusioni del P.G., Dott. Fausto De Santis, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

OSSERVA

1) Con sentenza in data 30.4.2009 la Corte di Appello di Bolzano confermava la sentenza del Tribunale di Bolzano, in composizione monocratica, con la quale Vi. Co. , applicata la diminuente per la scelta del rito, era stata condannata alla pena di anni uno di reclusione per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5, perche', pur avendo conseguito nel corso del 2003 ricavi, pari a complessivamente euro 196.420,00 derivanti dall'attivita' illecita di sfruttamento della prostituzione, al fine di evadere le imposte sui redditi, non presentava, essendovi obbligata, la dichiarazione relativa all'anno di imposta 2003, cosi' che ne conseguiva un'evasione d'imposta sui redditi pari ad euro 80.101,00.

Premetteva la Corte territoriale che risultava pienamente provata l'attivita' di sfruttamento della prostituzione, esercitata dalla Vi. , sulla base della sentenza della Corte di Appello di Trento, sez. dist. di Bolzano, del 5.10.2006, irrevocabile il 7.12.2006, della relazione di p.g., delle dichiarazioni delle donne sfruttate, delle annotazioni sulle agende, delle indagini della G.d.F. nei confronti della prevenuta che non risultava avere fonti di reddito lecito, della disponibilita' di conti bancari in Italia ed all'estero su cui venivano versati i proventi derivanti dall'attivita' illecita.

Tanto premesso, riteneva la Corte territoriale, considerate le tariffe praticate e le modalita' dell'incasso, che le annotazioni "contabili" della Vi. si riferissero agli importi effettivamente incassati (e quindi gia' detratta la percentuale delle ragazze, pari al 25% della tariffa praticata). I clienti generalmente pagavano la tariffa alle prostitute le quali versavano l'incasso, detratta la loro percentuale, alla prevenuta o al marito di costei; soltanto nei casi particolari, in cui il pagamento avveniva nelle mani della Vi. , era credibile che la percentuale delle prostitute venisse versata successivamente.

Disattendeva la Corte territoriale, condividendo la motivazione del primo giudice, la tesi difensiva di incassi netti di minore entita', perche' in aperto contrasto con le indicazioni contenute nella relazione finale della G.d.F., ed in ordine alla non deducibilita' di costi illeciti. Conseguentemente non era sostenibile la tesi del mancato superamento della soglia di non punibilita'.

Correttamente, poi, il primo giudice aveva ritenuto assoggettabili a tassazione i redditi provenienti da attivita' illecita con riferimento alla Legge 24 dicembre 1993, n. 537, articolo 14, commi 4 e 6, ed alle esplicazioni contenute nella circolare n. 150 del 1994 dell'Amministrazione finanziaria ed all'orientamento giurisprudenziale.

Il riferimento nella sentenza impugnata al Decreto Legge n. 223 del 2006, era fatto soltanto per completezza e ad abundantiam, per cui era infondato il rilievo difensivo di applicazione retroattiva di norma integratrice del precetto penale.

Infine la pena era stata correttamente ed adeguatamente determinata, per cui non era suscettibile di riduzione alcuna.

2) Ricorre per cassazione Vi. Co. , a mezzo del difensore.

Dopo una premessa in fatto in relazione alla ricostruzione della vicenda, denuncia, con il primo motivo la violazione e falsa applicazione dell'articolo 125 c.p.p., comma 3, essendosi la Corte territoriale limitata a riprodurre le argomentazioni del primo giudice senza confutare le specifiche censure contenute nell'atto di appello, e, comunque, la carenza ed illogicita' della motivazione.

In ordine al reddito effettivamente percepito dalla Vi. la Corte territoriale ha fatto riferimento agli accertamenti della G.d.F., travisando completamente il fatto e non svolgendo alcun rilievo in relazione alla denunciata violazione dell'articolo 192 c.p.p.. Solo con riguardo al trattamento sanzionatorio la Corte di merito ha speso qualche parola in piu'.

Con il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo192 c.p.p. ed in particolare la erronea valutazione della prova in ordine al presunto reddito effettivamente percepito, nonche' la carenza e manifesta illogicita' della motivazione. La difesa ha sempre contestato che la somma indicata nella c.d. "contabilita' nera" (pari, secondo quanto riportato nel capo di imputazione, ad euro 196.420,00) rappresentasse il denaro effettivamente riscosso e quindi il reddito imponibile. La Corte territoriale ha fondato il giudizio su mere presunzioni, attraverso la elencazione di alcuni atti contenuti nel fascicolo del P.M., senza tener che la difesa aveva indicato gli atti dello stesso fascicolo del P.M. da cui emergeva l'esatto contrario (la "contabilita' al nero" si riferiva, comunque, al lordo).

Peraltro e' pacifico che l'onere della prova in ordine al superamento della soglia di punibilita' gravi sull'organo dell'accusa; e, nel caso di specie, la prova avrebbe dovuto essere ancora piu' rigorosa, dal momento che la soglia stessa, secondo l'imputazione, risultava superata per una somma inferiore a 3.000,00 euro.

Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge in relazione all'articolo 1 c.p., e la carenza ed illogicita' della motivazione.

Anche a voler ritenere tassabili i proventi illeciti o da reato, e' pacifico che l'attivita' di meretricio o prostituzione non costituisca reato e che quindi il reddito percepito dalle ragazze non poteva in alcun caso essere una base imponibile rilevante ex articolo 5 Decreto Legislativo (agli atti vi e' la prova che il compenso era per lo piu' del 50%).

Clamoroso e' l'errore in cui incorrono i giudici di merito nel ritenere che le annotazioni rappresentassero il reddito in concreto percepito dalla Vi. (non e' dato comprendere ne' e' specificato da quali elementi probatori abbiano tratto tale convincimento).

Assolutamente improprio e', poi, il richiamo alla circolare n. 150/94, non potendosi attribuire valore decisivo in sede penale ad una circolare dell'amministrazione finanziaria (in violazione dei principi fondamentali in tema di riserva di legge). Posto che il reddito da attivita' di prostituzione non e' soggetto ad imposta, le somme percepite dalle ragazze (nella misura del 50% o anche solo, come ritiene la Corte, del 25%) andavano detratte dalla somma complessiva di euro 196.420,00). Sicche' gli incassi totali della Vi. erano stati al massimo pari ad euro 130.000,00, con una imposta evasa quindi ben al di sotto della soglia di punibilita'.

Con il quarto motivo denuncia la violazione dell'articolo 27 Cost., ed in particolare del principio di colpevolezza, nonche' la carenza ed illogicita' manifesta della motivazione in ordine alla inesigibilita' di una condotta alternativa; Se la Vi. avesse denunciato il reddito percepito si sarebbe, infatti, automaticamente denunciata per sfruttamento della prostituzione.

Con il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 25 Cost., comma 2, ed articolo 2 c.p., comma 1, ed Decreto Legge n. 223 del 2006, articolo 36, comma 34 bis, nonche' la carenza ed illogicita' della motivazione. Risulta palesemente violato il principio del divieto di retroattivita' della norma penale anche se di carattere extrapenale. La Corte ha ritenuto che il riferimento a tale norma non fosse determinante, mentre la sentenza di primo grado, confermata in appello, era fondata proprio sul passaggio argomentativo censurato.

Con il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 133 c.p., nonche' la carenza ed illogicita' della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio.

3) Il ricorso e' infondato e va, pertanto, rigettato.

3.1) I giudici di merito, con motivazione corretta ed immune da vizi logici, hanno stabiliti, sulla base degli accertamenti della Guardia di Finanza, che il "reddito" percepito dalla Vi. nell'anno 2003 era stato pari ad euro 196.420,00.

Con argomentazioni, adeguate ed immuni da vizi logici, gia' il Tribunale aveva disatteso la tesi difensiva secondo cui tale somma (risultante dalle stesse annotazioni della c.d. "contabilita' nera") costituisse un valore lordo.

Secondo il Tribunale sul reddito percepito non poteva essere operata alcuna detrazione, sotto un duplice profilo.

In fatto, perche' era stato accertato un meccanismo operativo, in forza del quale la Vi. incassava, nella generalita' dei casi attraverso le ragazze, lasciando loro direttamente la percentuale spettante; in contabilita' veniva quindi annotato quanto effettivamente percepito.

In diritto, perche', anche a voler considerare il "compenso" delle ragazze quale "costo", esso sarebbe indeducibile, rappresentando "nella prospettiva della Vi. l'aspetto economico dell'attivita' illecita e criminosa dello sfruttamento in altri termini "il costo del reato" (pag.5 e 6 sent. Trib.).

La Corte territoriale, in presenza di tali ineccepibili (in fatto ed in diritto) argomentazioni, legittimamente ha rinviato per relationem alla sentenza di primo grado. Ha peraltro indicato espressamente tutti gli atti, acquisiti in sede di giudizio abbreviato, da cui emergeva l'ammontare complessivo delle somme percepite dalla Vi. e la circostanza che tali somme annotate in contabilita' costituivano il netto e non il lordo dei "guadagni" (cfr. pag. 4 e 5 sent. Corte App.).

Con il ricorso vengono riproposte le medesime censure, gia' ampiamente disattese dai giudici di merito. Tali censure peraltro si risolvono o in una diversa, e piu' favorevole alla ricorrente,lettura delle risultanze processuali, come tale inammissibile, oppure in una non consentita "confusione" tra il "reddito" percepito dalle ragazze e quello della Vi. . Assume la ricorrente che l'attivita' di meretricio o prostituzione non costituisce reato e quindi il reddito percepito dalle ragazze non puo' costituire una base imponibile rilevante ex articolo 5 Decreto Legislativo. Si omette, pero', di considerare che le somme percepite dalle prostitute costituivano per la Vi. un "costo" nell'esercizio della sua attivita' di sfruttamento della prostituzione, come tale "illecito" e quindi non detraibile.

3.2) Correttamente, poi, i giudici di merito hanno ritenuto assoggettabili a tassazione i redditi provenienti da attivita' illecita con riferimento alla Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, articolo 6, comma 1, devono intendersi ricompresi se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attivita' qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non gia' sottoposti a sequestro".

Anche di recente questa Corte ha ribadito che "..secondo l'interpretazione autentica fornita dalla Legge n. 537 del 1993, articolo 14, comma 4, con riguardo al testo unico sulle imposte dei redditi n.917 del 1986, tra le categorie dei redditi tassabili classificate nell'articolo6, comma 1, devono intendersi ricompresi anche i proventi derivanti da fatti, atti o attivita' qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo" (cfr. Cass. sez. 5 n. 7411 del 19.11.2009; conf. N. 3124 del 1996 Rv 204967; N. 220 del 1997 Rv 207201).

Essendo in vigore tale norma all'epoca del commesso reato e' del tutto superfluo il richiamo; (fatto tra l'altro solo ad abundantiam "in quanto gia' il quadro normativo di cui alla Legge n. 537 del 1993, ampiamente illustrato consentiva l'affermazione della assoggettabilita' a reddito dei proventi illeciti in ipotesi come quella in esame" (pag. 10 - 11 sent. Trib.), al Decreto Legge n. 223 del 2006, conv. in Legge n. 248 del 2006.

3.3) Anche il quarto motivo e' infondato.

Come si e' visto, per tassativo disposto di legge, sono soggetti a tassazione anche i proventi derivanti da attivita' illecita non sequestrati o confiscati, ai sensi dell'articolo 14 cit.. Questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della 53 Cost., in quanto "il considerare quali redditi tassabili anche i proventi da attivita' illecita non sequestrati o confiscati non denunzia alcun contrasto col principio di inviolabilita' dei diritti dell'Uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalita', facendo la norma riferimento a diritti legittimi dell'individuo; ne' con quello di liberta' di iniziativa economica privata, che non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla liberta' ed alla dignita' umana, poiche' l'essere considerati come redditi tassabili non toglie, ai proventi in questione, il carattere di illiceita' loro proprio e non esclude la punibilita' dell'attivita' illecita che li ha generati; ne' infine col principio dell'obbligo di concorso nelle spese pubbliche in ragione della capacita' contributiva di ciascuno, perche' la tassazione dei proventi illeciti tale principio rafforza e riafferma" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 220 del 24.1.1997).

Correttamente, pertanto, i giudici di merito hanno rilevato la non pertinenza della tesi difensiva in ordine alla inesigibilita' della condotta, in quanto, una volta stabilito il principio ex lege che il provento illecito costituisce reddito tassabile, da esso non possono non derivare tutti gli obblighi di natura fiscale. Con la conseguenza che, in caso di omissione, trovino applicazione le sanzioni penali previste dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000.

Una diversa conclusione comporterebbe una evidente (e non comprensibile) disparita' di trattamento con i redditi derivanti da attivita' lecite. E, peraltro, la ricorrente volontariamente si e' posta in una situazione di illiceita'.

3.4) La Corte territoriale ha adeguatamente motivato in ordine al trattamento sanzionatolo, dando ampiamente conto delle ragioni che ostavano al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e, comunque, ad una riduzione della pena (pag. 7,8 sent.). Il corretto e motivato esercizio del potere discrezionale nella determinazione della pena e' conseguentemente insindacabile in sede di legittimita'.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

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