Che cos'è la successione legittima?

La legge prevede le regole che si applicano per il trasferimento dei beni e dei diritti appartenenti ad una persona al momento della sua morte: in particolare, nel caso in cui il defunto muoia senza lasciare testamento, l’eredità è attribuita alle persone legate al defunto da rapporti familiari: coniuge, figli, genitori, fratelli, altri parenti.

La successione si apre al momento della morte del soggetto nel luogo del suo ultimo domicilio.
Qualora il defunto non abbia disposto con testamento dei propri beni per il tempo in cui avrebbe cessato di vivere, si applica la c.d. successione legittima, cioè stabilita dalla legge.
L'art. 565 del codice civile individua pertanto le categorie di soggetti appartenenti alla famiglia del de cuius che la legge istituisce quali suoi eredi in mancanza di testamento: essi sono, nell'ordine, il coniuge, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali, gli altri parenti e lo Stato.

 

I diritti successori del coniuge

Il primo soggetto che viene in considerazione è dunque il coniuge del defunto.
A tal proposito, si deve evidenziare che il coniuge separato - non divorziato - del defunto gode degli stessi diritti ereditari del coniuge non separato, a meno che non gli sia stata addebitata la separazione. Il coniuge cui è stata addebitata la separazione ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell'apertura della successione percepiva gli alimenti dal coniuge deceduto. 

Nella successione legittima, la quota a favore del coniuge del defunto dipende dalla presenza o meno di altri soggetti successibili.

Se non ci sono altri successibili, al coniuge spetta l’intera eredità (art. 583 cod. civ.).
Se il defunto lascia un figlio, al coniuge spetta 1/2 dell’eredità: l’altro 1/2 spetta al figlio (art. 581 cod. civ.).
Se il defunto lascia due o più figli, al coniuge spetta 1/3 dell’eredità: i restanti 2/3 vengono divisi equamente tra i figli (art. 581 cod. civ.).
L’art. 582 cod. civ. regola la successione del coniuge nel caso in cui non vi siano figli del defunto, ma vi siano comunque altri parenti stretti del defunto come genitori o fratelli (o sorelle, ovviamente).
Se il defunto non lascia alcun figlio né fratello o sorella, ma sono ancora vivi i suoi genitori (o anche uno solo di essi), al coniuge spettano 2/3 dell’eredità (il restante 1/3 spetta ai genitori).
Se il defunto non lascia alcun figlio, ma lascia i genitori e uno o più fratelli, al coniuge sono devoluti 2/3 dell’eredità. La quota restante è così suddivisa: 1/4 ai genitori e la quota restante viene suddivisa in parti uguali per ciascun fratello.
Se il defunto non lascia alcun figlio, i suoi genitori sono già morti e ci sono invece uno o più fratelli, al coniuge sono devoluti 2/3 dell’eredità. Il restante 1/3 è suddiviso fra i fratelli del defunto. 

Oltre alla quota di eredità, al coniuge del defunto spetta in ogni caso il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.

I diritti successori dei figli

Dopo il coniuge del defunto, la prima categoria presa in considerazione dalla legge è quella dei discendenti, ossia dei figli (ed eventualmente dei nipoti che succedono per rappresentazione). 

Nella successione legittima, la quota a favore del figlio del defunto dipende dal numero di altri figli e dalla presenza o meno del coniuge.
Se non c’è il coniuge e c’è un solo figlio, al figlio spetta l’intera eredità.
Se non c’è il coniuge e ci sono più figli, l’intera eredità deve essere ripartita in parti uguali fra i figli.
Se il defunto lascia un coniuge e un solo figlio, al coniuge spetta 1/2 dell’eredità: l’altro 1/2 spetta al figlio.
Se il defunto lascia due o più figli, al coniuge spetta 1/3 dell’eredità: i restanti 2/3 vengono divisi equamente tra i figli. 

Fino a poco tempo fa, le norme del codice civile che disciplinavano la successione dei figli del defunto specificavano la distinzione fra “figli legittimi”, ossia nati in costanza di matrimonio, e “figli naturali”, ossia nati fuori dal matrimonio. In materia di filiazione, il Legislatore ha tuttavia progressivamente abolito ogni distinzione fra figli nati in costanza di matrimonio e non.
Inizialmente, a seguito dell’emanazione della Legge 10 dicembre 2012 n. 219, il Legislatore ha introdotto il principio della piena uguaglianza fra figli legittimi e figli naturali: ai figli legittimi erano già equiparati (ai sensi dell’art. 567 cod. civ.) i figli adottati e i figli legittimati, ossia nati fuori dal matrimonio da due persone unitesi poi in matrimonio. La Legge 219/2012 aveva quindi abrogato lo strumento della legittimazione dei figli naturali.
Successivamente, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, sono state apportate numerose modifiche al codice civile ed è venuto definitivamente meno ogni genere di distinzione tra figlio legittimo, legittimato o naturale, per cui ora la legge parla semplicemente di “figlio” tout court

L’art. 580 cod. civ. riconosceva ai figli frutto di incesto (cioè nati da genitori legati da un rapporto di parentela in linea retta o in linea collaterale di secondo grado oppure erano legati da un vincolo di affinità) non una quota di eredità, bensì il diritto a percepire un assegno vitalizio pari alla rendita della quota di eredità a cui avrebbero avuto diritto. I figli incestuosi erano infatti non riconoscibili. La Legge 219/2012 ha però rimosso il divieto assoluto del riconoscimento dei figli incestuosi.

 

I diritti successori di fratelli e sorelle, di genitori e ascendenti.

Se il defunto non fa testamento e non lascia alcun coniuge, figlio, genitore o fratello, la legge attribuisce una quota di eredità ai parenti del defunto entro il 6° grado (art. 572 cod. civ.). La devoluzione dell’eredità a favore dei parenti è regolata dal c.d. “principio del grado”:  il parente più prossimo esclude tutti gli altri. In mancanza di parenti, l’eredità va devoluta allo Stato. 

Nella successione legittima dei parenti, opera il c.d. “principio del grado”: il parente (o i parenti) di grado più prossimo esclude(ono) tutti gli altri parenti.
La quota a favore del parente del defunto dipende quindi dalla presenza o meno di altri parenti di pari grado: se non ci sono altri parenti di pari grado, al parente in questione spetta l’intera eredità del defunto, mentre se ci sono più parenti di pari grado, l’eredità viene suddivisa fra di essi in parti uguali. .

La parentela si definisce come “il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite”(art. 74 cod. civ.): lo “stipite” è, in pratica, l’antenato comune a più persone.
A tal proposito, vale la pena ricordare che, fino a poco tempo fa, le norme del codice civile che disciplinano la successione dei figli del defunto specificavano la distinzione fra “figli legittimi”, ossia nati in costanza di matrimonio, e “figli naturali”, ossia nati fuori dal matrimonio. In materia di filiazione, il Legislatore ha tuttavia progressivamente abolito ogni distinzione fra figli nati in costanza di matrimonio e non:

  • inizialmente, a seguito dell’emanazione della Legge 10 dicembre 2012 n. 219, il Legislatore ha introdotto il principio della piena uguaglianza fra figli legittimi e figli naturali: ai figli legittimi erano già equiparati (ai sensi dell’art. 567 cod. civ.) i figli adottati e i figli legittimati, ossia nati fuori dal matrimonio da due persone poi unitesi in matrimonio. La Legge 219/2012 aveva quindi abrogato lo strumento della legittimazione dei figli naturali;
  • successivamente, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, sono state apportate numerose modifiche al codice civile e così è venuto definitivamente meno ogni genere di distinzione tra figlio legittimo, legittimato o naturale, per cui ora la legge parla semplicemente di “figlio” tout court.
     

Ciò posto in linea generale, vale la pena sottolineare che la legge distingue fra linee e gradi di parentela: le linee identificano la discendenza dei soggetti nella famiglia, mentre i gradi esprimono l’intensità del vincolo.
Con riferimento alle linee, si distingue la parentela “in linea retta” dalla parentela “in linea collaterale” (art. 75 cod. civ.): “sono parenti in linea retta le persone di cui l'una discende dall'altra; in linea collaterale quelle che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l'una dall'altra”. Un esempio varrà a chiarire la distinzione. Tizio ha un figlio, Caio, che a sua volta ha un figlio Carlo. Tizio ha anche una figlia, Eleonora, che a sua volta ha un figlio, Federico. Caio e Carlo sono fra loro parenti in linea retta: essi infatti discendono l’uno dall’altro e hanno come “stipite” comune l’anziano Tizio. Caio e Carlo sono parenti in linea collaterale di Eleonora e Federico: pur avendo un antenato comune (Aldo, ossia lo stipite), non discendono infatti gli uni dagli altri.

Come si calcola il grado di parentela? Per il computo, la legge distingue il caso della parentela in linea retta dal caso della parentela in linea collaterale (art. 76 cod. civ.):

a) “Nella linea retta si computano altrettanti gradi quante sono le generazioni, escluso lo stipite” (art. 76, 1° comma, cod. civ.). In pratica, si contano le persone e si sottrae uno. Torniamo al nostro esempio: Carlo e Aldo sono parenti di 2° grado, perché le generazioni sono tre (Aldo, Bruno e Carlo), meno uno (lo stipite Aldo).
b) “Nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni, salendo da uno dei parenti fino allo stipite comune e da questo discendendo all'altro parente, sempre restando escluso lo stipite” (art. 76, 2° comma, cod. civ.). In pratica, si contano le persone risalendo fino allo stipite e poi ridiscendendo; alla fine si sottrae uno. Torniamo al nostro esempio: Carlo e Federico sono parenti di 4° grado, perché le generazioni sono cinque (Carlo, Bruno, Aldo, Eleonora e Federico), meno uno (lo stipite Aldo).
 

Secondo la legge, la parentela termina con il 6° grado.

 

La successione a favore dello Stato

Quando il de cuius non lascia alcuno dei parenti individuati dalla legge né nomina propri eredi per testamento, l'eredità è acquistata di diritto dallo Stato con beneficio d'inventario, senza bisogno di accettazione (art. 586 c. c.).
Peraltro in dottrina si dibatte vivacemente circa l'effettiva qualità di erede assunta dallo Stato a seguito di tali acquisti; taluni, infatti, ritengono che l'eredità pervenga non in forza di un acquisto mortis causa, bensì in virtù di un modo di acquisto speciale dettato da ragioni di pubblica utilità.
In virtù del suddetto regime, la responsabilità dello Stato per i debiti ereditari non può mai eccedere il valore dei beni acquistati.

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