Buongiorno, Sono una lavoratrice in maternità facoltativa e da un mese mi è stato staccato l'acco...

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Quesito risolto:
Buongiorno,

Sono una lavoratrice in maternità facoltativa e da un mese mi è stato staccato l'account di posta elettronica e l'accesso a tutti i programmi che prima vedevo da remoto. Non posso più accedere neanche alle mail in archivio dove avevo purtroppo anche qualcosa di personale, e qualcuno riesce a vedere le mie mail perchè mi sono state girate delle fatture personali che arrivavano li. Parlando con le altre mie colleghe in maternità facoltativa ho scoperto che questo è un trattamento riservato solo a me al contrario di quanto riferitomi dal mio capo. Credo quindi che si tratti di qualcosa di discriminatorio. Vorrei sapere quindi se ci sono gli estremi per intentare una causa e inoltre se posso chiedere nel frattempo il ripristino del mio account di posta. L'auto aziendale che avevo in dotazione l'ho riconsegnata prima che me la richiedessero. A seguito di ciò sto pensando di dimettermi perchè ci sto male anche se attualmente la mia è una buona retribuzione di ----€ al mese, però vorrei dei vostri consigli per far valere i miei diritti. Resto in attesa di vostre notizie. Cordiali Saluti
Inviato: 2518 giorni fa
Materia: Lavoro
Pubblicato il: 29/06/2017

expert
Il Professionista ha risposto: 2516 giorni fa
In risposta al quesito proposto e sulla base dei dati disponibili può osservarsi quanto segue.
Nell'ordinamento giuridico nazionale manca un testo normativo disciplinante il mobbing, nonostante ciò, il mobbing ha una propria identità giuridica soprattutto in ragione della copiosa produzione giurisprudenziale degli ultimi anni.
Con il termine mobbing si intendono tutti quei comportamenti discriminatori, graduali e sistematici, posti in essere sul luogo di lavoro, ed indirizzati all'emarginazione del lavoratore e al degrado delle condizioni di lavoro tanto da indurne le dimissioni e/o provocarne il licenziamento.
La fattispecie di cui si tratta, pertanto, consiste in una sorta di violenza psicologica sul lavoratore che si realizza attraverso una serie di comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro, o di altri lavoratori superiori o inferiori, che si protraggono nel tempo, che incidono sulla sfera personale e lavorativa del soggetto e sono idonei a turbarne la salute fisica e/o mentale.
“Perché ricorra l'ipotesi di mobbing occorre che vi siano una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; vi sia un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; sussista il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; sussista l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi sussistente il mobbing (riconosciuta, nella specie, la sussistenza del mobbing, atteso che il dipendete pubblico era stato privato di ogni compito, lasciato inattivo e isolato, privo di scrivania e di ufficio e, ancora, costretto a sostare in piedi nel corridoio) (Cassazione civile, sez. lav., --/--/----, n. ----).
Circostanze quali l'ingiustificato trasferimento, il demansionamento, il difetto di confronto con i superiori, l'eliminazione di particolari status, il sistematico disconoscimento datoriale possono determinare, quale conseguenza, una sintomatologia psicosomatica sino a pregiudicare le condizioni di salute, realizzando un danno esistenziale ogni qual volta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria, la cui quantificazione, nell'ambito di una valutazione equitativa del danno inferto o della sofferenza subita, è legata ai parametri del tempo e della retribuzione (Trib. Forlì -- marzo ----).
Non si ritiene realizzata la configurabilità della fattispecie del mobbing ove le vicende persecutorie lamentate dal lavoratore, siano prive di sistematicità, gli episo di non siano frequenti anche rispetto all'oggettivo rapporto con la vita di tutti i giorni all'interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, tanto da escludere che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi (Trib. Milano --.--.----).
Risulta, pertanto, difficile individuare e classificare gli atti ed i comportamenti vessatori idonei a rappresentare la fattispecie del mobbing atteso che, anche comportamenti non prettamente offensivi, possono, in un particolare contesto mobbizzante, risultare lesivi del lavoratore.
In questo quadro normativo deve essere valutata la questione che viene proposto all'odierna attenzione.
In primo luogo occorre riferire che, secondo le previsioni normative, chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
In ragione di tanto, il lavoratore, ove ritenga di essere soggetto a comportamenti mobbizzanti, deve dimostrare l'esistenza di tale fattispecie e del nesso causale tra detti comportamenti e l'eventuale pregiudizio alla propria integrità psicofisica, oltre che, laddove, sussistente, l'esistenza di un danno esistenziale, del danno morale e del danno da perdita di chance.
Sotto tale aspetto, è quindi necessario che vengano dimostrati e/o si abbia prova della sussistenza circa gli elementi essenziali che dimostrano il mobbing.
Ovvero: -) un comportamento persecutorio finalizzato alla creazione di una situazione di svantaggio lavorativo; -) il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore; -) il nesso eziologico che lega la causa all'evento lesivo per la salute.
La prova non è assolutamente facile da fornire considerato che i fatti e gli eventi devono essere individuati in modo specifico, senza che possano assumere rilievo circostanze e condizioni generali connaturate ai disagi tipici di qualsiasi attività lavorativa.
La valutazione e l'indagine deve, pertanto, concernere i comportamenti mobbizzanti tenuti da parte del datore di lavoro e/o dei soggetti posti in posizione di preminenza, al fine di indagare sulla effettiva e dimostrabile finalità persecutoria nei confronti del lavoratore mobbizzato.
Ai fini del risarcimento è necessario che i comportamenti illegittimi del datore di lavoro siano obiettivamente lesivi per il lavoratore non essendo a ciò sufficiente che i medesimi siano avvertiti come tali dallo stesso lavoratore.
Da quanto evidenziato, nel caso di specie, parrebbe non vi siano delle vere e proprie vessazioni nei confronti della lavoratrice, prolungate nel tempo, da parte del datore di lavoro atteso che, a quanto pare, parrebbe essersi realizzato esclusivamente un episodio, sebbene riconducibile alla maternità facoltativa della dipendente, poco chiaro (distacco account).
Riterrei, pertanto, che, aldilà di una spiacevole situazione creatasi nell'ambiente di lavoro, non siano rinvenibili comportamenti dai quali far discendere l'effettiva e dimostrabile finalità persecutoria nei suoi confronti che concreterebbe il c.d. mobbing.
Invero, il distacco dell'account aziendale della lavoratrice potrebbe essere imputato a tante variabili che potrebbero stridere con la finalità persecutoria del datore ---- lavoro.
Invero, v'è da dire che l'account aziendale, messo a disposizione dal datore ---- lavoro, in quanto strumento che l'azienda mette a disposizione del dipendente, è uno strumento che l'azienda offre al lavoratore solo per consentirgli ---- svolgere la propria attività e, come tale, rimane nella completa e totale disponibilità del datore ---- lavoro.
E', altresì, vero che il lavoratore utilizza l'account, anche a titolo personale, ma lo stesso risulta essere identificativo dell'azienda soprattutto se l'indirizzo contiene il nome della stessa.
Sotto tale aspetto, occorre rilevare che ove il dipendente sia stato licenziato ovvero si sia dimesso l'account mail aziendale si ritiene che la casella postale debba essere chiusa anche mediante comunicazione del nuovo indirizzo a cui inviare le comunicazioni.
In conclusione, pertanto, si può ritenere essersi verificata esclusivamente una incontestabile differenza ---- trattamento rispetto a quello riservato dal datore di lavoro alle altre dipendenti nella sua stessa condizione ma parrebbe non potersi ravvisare, dal singolo episodio, un'ipotesi di mobbing.
Per altro verso, comunque, proprio il fatto che tale trattamento si sia verificato solo con lei, piuttosto che con altre lavoratrici in maternità facoltativa, potrà essere oggetto di una specifica contestazione al superiore gerarchico, anche al fine di ottenere un necessario chiarimento.
Riterrei, pertanto, che potrà essere inviata una richiesta ufficiale di chiarimenti, in termini molto generali, rendendo noto che non riesce più ad accedere al suo account di posta elettronica e chiedendo l'eventuale ripristino, anche al fine di verificare l'esistenza di un semplice disguido ovvero la volontà del datore di lavoro di escluderla dalla visione della posta elettronica aziendale.
Peraltro, ove dalla risposta dell'azienda si possa evincere una volontà discriminatoria sarebbe una prima prova del comportamento mobbizzante della datrice di lavoro, utile per la costruzione del quadro probatorio necessario per un eventuale giudizio contro l'azienda.
Sconsiglio, pertanto, allo stato attuale, di dimettersi.
Resto a disposizione per ogni chiarimento e per quant'altro.

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