Commette reato di ingiuria il datore di lavoro che insulta il dipendente se si offende dopo un rimprovero

Commette reato di ingiuria il datore di lavoro che insulta il dipendente se si offende dopo un rimprovero. La condanna è giustificata dall'evidente intento offensivo implicito nella scelta di un vocabolo fortemente dispregiativo. Il lavoratore ha infatti pieno diritto a manifestare disappunto e rammarico per un rimprovero sul suo rendimento; dall'altro lato, allo stesso tempo, va censurato l'uso di termini che attribuiscono - secondo il comune significato recepito da tutti gli italiani - al destinatario qualifica di persona meritevole di disprezzo e di disistima. I datori di lavoro sono infatti tenuti ad evitare i rilievi fatti "a modo loro" e ad esprimersi restando all'interno dei normali canoni di civiltà comune e giuridica. Non può considerarsi una scriminate l'abitudine a un linguaggio colorito, perché nel nostro ordinamento il contesto lavorativo è caratterizzato da una pari dignità che non consente una "desensibilizzazione" alle altrui trasgressioni.

Corte di Cassazione Sezione 5 Penale, Sentenza del 29 settembre 2010, n. 35099



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSINI Giangiulio - Presidente

Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere

Dott. BEVERE Antonio - rel. Consigliere

Dott. MARASCA Gennaro - Consigliere

Dott. PALLA Stefano - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) LO. GI. N. IL (OMESSO);

avverso la sentenza n. 3/2008 TRIBUNALE di AVEZZANO, del 22/06/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/05/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO BEVERE;

udito il P.G. in persona del Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro che ha concluso per rigetto;

udito, per la parte civile, l'avv. Retico V..

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza emessa il 22.6.09, il tribunale di Avezzano ha confermato la sentenza emessa il 28.9.07 dal giudice di pace della stessa sede con la quale Lo. Gi. e' stato condannato alla pena di euro 240 di multa, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della parte civile, perche' ritenuto colpevole del reato di ingiuria in danno di An. Si. .

Il difensore dell'imputato ha presentato ricorso per i seguenti motivi:

1. violazione di legge in riferimento all'articolo 594 c.p.: la frase rievocata dalla persona offesa nel corso dell'istruttoria dibattimentale "sei una stronza se te la prendi" non esprime un giudizio sulla persona ma un suo specifico comportamento e manca quindi la lesione del bene giuridico protetto dalla norma, che e' l'onore.

Il vocabolo stronza e' un epiteto forte, che e' entrato nel linguaggio comune romanesco. Non ha rilevanza penale in quanto e' stato pronunciato da Lo. , che e' romano e il cui linguaggio e' generalmente colorito e lo e' normalmente in ambiente di lavoro, in cui tutti lo conoscono e lo sanno interpretare come del tutto privo di contenuti offensivi. Trattasi di un'espressione bonaria, rassicurante e non offensiva, attraverso la quale il Lo. intendeva chiaramente far capire alla An. (sia pure a modo suo) che non era il caso di prendersela.

2. violazione di legge in riferimento agli articoli 594 e 42 c.p., mancanza di motivazione: la sentenza ha omesso l'ulteriore profilo delle censure avanzate nei motivi del gravame. La sentenza, pur riconoscendo la peculiarita' del quadro storico in cui si e' svolto il fatto incriminato, non ha motivato sulle ragioni per cui ha ugualmente ritenuto la sussistenza dell'elemento psicologico. Anche se e' pacificamente riconosciuto che il reato richiede il solo dolo generico, il giudice deve tenere conto della peculiarita' di determinate vicende onde evitare un riconoscimento automatico del dolo medesimo.

Con la frase pronunciata - che non ha nulla di penalmente offensivo - Lo. ha ripreso paternalisticamente e goffamente la persona offesa, per il fatto di crucciarsi per un rimprovero, invitandola a non farlo. Affermare che il Lo. - persona adusa ad un linguaggio colorito - abbia percepito nell'espressione usata, la carica offensiva che la sentenza riconosce, e' operazione priva di riscontro sul piano fattuale e tale da condurre a una valutazione del fatto su schemi astratti del tutto scollati da una valutazione del caso concreto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso non merita accoglimento, proprio in virtu' dell'attento esame del caso concreto e delle logiche conclusioni che sono contenute nella sentenza impugnata e nella richiamata sentenza del giudice di pace. Il caso concreto e' il seguente:

a) Lo. , imprenditore e datore di lavoro della An. , ha effettuato rilievi negativi sulla condotta lavorativa della dipendente;

b) L' An. se ne e' doluta e ha esposto il suo rammarico;

c) Lo. ha criticato la suscettibilita' della donna, definendola stronza, usando, cioe', un termine che, per la sostanza organica richiamata, attribuisce - secondo il comune significato recepito da tutti gli italiani, romani compresi, e al di la' della sua derivazione longobarda - (p. 2 delle sentenza trib.) - al destinatario qualifica di persona meritevole di disprezzo, di disistima.

Il contesto ripetutamente sottolineato dal ricorrente, in cui e' stato pronunciato il termine,non esclude, non attenua la sua carica offensiva: la An. non e' tenuta a sottostare all'uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtu' delle generali scelte di espressione del datore di lavoro. Questi, quando fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non li puo' fare "a modo suo", anche al di fuori dei normali e comuni canoni di civilta' sociale e giuridica. Se Lo. ha percepito la reazione negativa della donna per un precedente rimprovero, non puo' impunemente "censurare" la sua suscettibilita' con un termine fortemente dispregiativo. Proprio il rilievo riconosciuto alla finalita' afflittiva e punitiva dell'espressione stronzo, rende evidente come il Lo. , abbia agito con la consapevolezza e con la finalita' di recar danno, di offendere la dipendente, per il mancato gradimento del precedente rimprovero. Il paternalismo e la goffaggine invocati come dimostrativi della mancata percezione della carica offensiva non sono affatto scriminanti rispetto alla ritenuta rilevanza penale della condotta del Lo. , aduso a linguaggio colorito : nel nostro ordinamento il contesto lavorativo e' caratterizzato da una pari dignita' dei suoi protagonisti, da una pari effettivita' di tutta la normativa, senza che possa invocarsi, per nessuna delle parti, una desensibilizzazione alle altrui trasgressioni.

In linea generale, il richiamo al concetto del contesto,quale circostanza attenuante o addirittura come causa esimente nei reati contro i diritti della persona, di cui al Titolo 12, capo 2, non puo' tradursi in un' insostenibile affermazione di abrogazione per desuetudine di norme penali in quanto proiettate in un quadro sociologicamente e/o culturalmente disegnato dal giudice. Questa depenalizzazione di condotte trasgressive riveste spiccata insostenibilita' in materia di rispetto della dignita' umana, ancor maggiore quando e' in gioco la dignita' del lavoratore.

Il ricorso va quindi rigettato con condanna del Lo. al pagamento delle spese processuali nonche' alla rifusione delle spese della parte civile, che liquida in complessivi euro 800, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche' alla rifusione delle spese della parte civile, che liquida in complessivi euro 1.800, oltre accessori come per legge.

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