E' illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dal datore di lavoro per assenza del lavoratore dal proprio domicilio, durante il periodo di malattia, al fine di effettuare acquisti e altre attività quotidiane

È illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dal datore di lavoro per assenza del lavoratore dal proprio domicilio, durante il periodo di malattia, al fine di effettuare acquisti e altre attività quotidiane. Nonostante l'insussistenza dello stato di malattia sia dimostrabile anche al di fuori della procedura di controllo individuata nell'ambito dell'art. 5 della legge. n. 300/1970 (cd. Statuto dei Lavoratori), in pratica, solo il ricorso a tale procedura può offrire elementi di valutazione rilevanti anche in riferimento all'elemento soggettivo, essenziale per l'illecito disciplinare. Le indagini investigative svolte dal datore di lavoro rilevano solo in via sussidiaria alla procedura di controllo prevista dallo Statuto dei Lavoratori.

Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 21 marzo 2011, n. 6375



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista - Presidente

Dott. FILADORO Camillo - rel. Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni - Consigliere

Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere

Dott. D'AMICO Paolo - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13916/2007 proposto da:

SI. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA S. ALBERTO MAGNO 9, presso lo studio dell'avvocato SEVERINI GAETANO, che la rappresenta e difende, unitamente all'avvocato DE DONATO PIERO, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

GI. GO. , elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINA, 195, presso lo studio dell'avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 632/2006 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 05/05/2006 R.G.N. 9/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/01/2011 dal Consigliere Dott. SAVERIO TOFFOLI;

udito l'Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso, salvo eventuale inammissibilita'.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Gi.Go. agiva con ricorso davanti al Tribunale di Alba nei confronti della sua datrice di lavoro s.p.a. SI. impugnando il licenziamento intimatogli con lettera del (OMESSO) che faceva seguito ad una contestazione disciplinare. Con la relativa lettera gli era stato addebitato di avere tenuto almeno nei giorni dal 29 novembre al 12 dicembre un comportamento incompatibile con la verosimile sussistenza dello stato patologico (distorsione della caviglia destra) denunciato come conseguente all'infortunio del (OMESSO) e riaperto il successivo 4 novembre, con prognosi di 20 giorni ripetutamente prorogata fino al 21 dicembre, oppure e comunque di avere tenuto un comportamento pregiudizievole per un buono e rapido recupero della integrita' ed efficienza fisica.

La domanda era accolta dal Tribunale, che dichiarava l'illegittimita' del licenziamento e condannava il datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno.

A seguito di appello della soc. SI. , la Corte d'appello di Torino confermava la sentenza di primo grado.

La Corte di merito affermava l'inammissibilita', per la sua tardi vita, della produzione in appello da parte della SI. di una perizia di parte, peraltro redatta da medico che non aveva mai visitato il Gi. . Riteneva infondate le critiche mosse alle certificazioni mediche con cui era stato accertato in piu' occasioni e sedi lo stato di invalidita' del lavoratore, le quali rappresentavano una serie coerente di documenti medici e attestavano anche il diligente sottoporsi del paziente a terapie orientate a favorirne la guarigione. Vi erano anche riscontri delle diagnosi nei rilievi strumentali eseguiti: radiografia del (OMESSO), attestante flogosi estesa a carico del tendine flessore lungo il livello del cavo plantare, con versamento peritendineo; radiografia effettuata tre mesi dopo, pochi giorni prima della riapertura dell'infortunio, evidenziante notevole infiltrazione edematoso - flogistica a livello della sinoviale nei recesso peroneo - astragalico e con diagnosi attestante una discreta flogosi articolare tendinea in remota lesione legamentosa al momento da ritenere non risolta dei tutto, almeno dal punto di vista funzionale; risonanza magnetica del (OMESSO), confermativa delle diagnosi precedenti, evidenziante la presenza di raccolta all'interno della guaina del tendine del flessore lungo dell'alluce e di os trigonum posteriormente all'astragalo, circondato da una modesta raccolta endoarticolare.

La Corte inoltre escludeva i dubbi sull'attendibilita' del medico curante del Gi. sentito come teste e autore del certificato datato (OMESSO), e quindi successivo alla contestazione disciplinare, con il quale egli aveva ricostruito la vicenda medica del lavoratore nei suoi vari passaggi, vicenda peraltro caratterizzata anche dall'attestazione dell'Inail. La Corte ricordava che tale medico aveva confermato di avere prescritto al Gi. , in particolare nell'ultimo periodo della sua astensione lavorativa, di compiere del movimento e, in particolare, di camminare. Secondo la Corte non doveva tanto discutersi circa l'appropriatezza o meno di detta prescrizione terapeutica, quanto rilevarsi, rispetto al fatto pacifico che il Gi. era stato visto mentre compiva delle uscite dalla propria abitazione pur essendo in infortunio, che tali uscite erano state ispirate da un parere del medico curante.

In definitiva, la Soc. SI. , che non aveva richiesto una visita di controllo , - come avrebbe potuto e dovuto al fine di contestare lo stato di inabilita' lavorativa - avanzava ingiustificati dubbi riguardo alla vicenda, senza avere assolto l'onere della prova gravante sul datore di lavoro in materia di giustificazione del licenziamento; e insisteva per l'ammissione di una consulenza tecnica, (implicitamente) ritenuta dalla Corte non giustificata dal quadro probatorio. Quanto ai rilievi dell'appellante riguardo alle mansioni del Gi. indicate dal giudice di primo grado (addetto al reparto scelte speciali e ad attivita' da svolgersi costantemente in piedi, con continuo movimento dei corpo, sollevamento e spostamento dei carichi), osservava che, a parte che l'insieme dei compiti lavorativi indicati nel ricorso introduttivo non risultava essere mai stato contestato fino al giudizio di appello, sarebbe stato onere della Soc. SI. fornire la prova della compatibilita' delle mansioni con le condizioni di salute del ricorrente.

La s.p.a. SI. ricorre per cassazione con tre articolati motivi. Il Gi. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato una memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo del ricorso denuncia violazione degli articoli 116, 421 e 61 c.p.c., e insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento alla rilevanza e alla attendibilita' attribuita alla deposizione del medico curante del lavoratore. Si sostiene la dimostrazione della compatibilita' di attivita' extra lavorative svolte dal lavoratore durante la malattia con le esigenze terapeutiche non puo' essere basata su una deposizione testimoniale, anche se di un medico, invece che su una c.t.u..

Si lamenta anche che non si sia dato rilievo alla prova, quanto meno indiziaria, dello svolgimento di attivita' incompatibile, fornita dalla SI. , e che si sia affermata l'imprescindibilita' della richiesta di una visita di controllo.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della Legge n. 604 del 1966, articolo 5, e dell'articolo 2697 c.c., nonche' insufficiente e contraddittoria motivazione.

Si ribadisce sotto il profilo della violazione della Legge n. 300 del 1970, articolo 5, la tesi della non necessita' per il datore di lavoro del ricorso alle visite di controllo ivi previste per la dimostrazione di circostanze di fatto evidenzianti l'inesistenza della malattia, l'insussistenza di un'incapacita' lavorativa o l'adozione di comportamenti comportanti la violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare o rallentare la guarigione. Al riguardo si ricorda l'esito delle constatazioni compiute dal personale investigativo incaricato dalla azienda. Si sostiene anche che una volta provata da parte del datore di lavoro l'attivita' svolta durante il periodo di malattia dai lavoratore, spetti a quest'ultimo provarne la compatibilita' con la malattia impeditiva dell'attivita' lavorativa, risultandone altrimenti l'assenza ingiustificata.

Il terzo motivo denuncia omessa o insufficiente motivazione su un atto controverso e decisivo per il giudizio e violazione degli articoli 1175, 1375, 2104, 2105 c.c., nonche' dell'articolo 2119 c.c., e della Legge n. 604 del 1966, articolo 3.

Si sostiene che il lavoratore, una volta verificato, anche a seguito delle direttive, terapeutiche del suo medico curante, di poter svolgere una vita normale, avrebbe dovuto evitare di sollecitare ulteriori certificazioni di 5 inabilita' al lavoro e quanto meno rendere nota tale situazione all'ente previdenziale e al datore di lavoro.

Il ricorso, i cui tre motivi sono esaminati congiuntamente per la loro connessione, non e' fondato.

In effetti la sentenza impugnata e' sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori di diritto, circa la mancanza di prova di una violazione disciplinare a fondamento del licenziamento intimato. In particolare e' stato bene evidenziato come la malattia posta a giustificazione dell'assenza del lavoratore abbia trovato ampio riscontro non solo nelle certificazioni mediche relative, provenienti anche dall'Inail, ente previdenziale pubblico, ma anche in puntuali esami strumentali corredati da analitiche diagnosi. In questo quadro, il rilievo del giudice di merito riguardo al fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto e anche "dovuto" ricorrere alla procedura di controllo della malattia prevista dalla , oltre a non avere evidentemente un ruolo essenziale nella complessiva motivazione, e' interpretabile nel senso non di una affermazione di principio di carattere generale - che come tale sarebbe inesatto, in quanto come e' pacifico in giurisprudenza l'effettiva insussistenza della malattia certificata e' dimostrabile anche al di fuori del ricorso a detta procedura - ma nel senso che, in relazione ai margini di opinabilita' sul piano medico legale eventualmente sussistenti, come spesso accade, riguardo alla piu' congrua misura della prognosi di inabilita' temporanea, in pratica solo il ricorso alla visita di controllo avrebbe potuto offrire ulteriori rilevanti elementi di valutazione, tanto piu' essendo in questione un'ipotesi di illecito disciplinare, rispetto al quale rileva anche l'elemento soggettivo.

Riguardo all'addebito al lavoratore di avere tenuto una condotta contrastante con le esigenze terapeutiche e di un rapido recupero, la motivazione e' in via assorbente basata sui rilievo che nessun addebito al riguardo poteva essere mosso al lavoratore che si era adeguato alle prescrizioni del suo medico curante. Rispetto a tale motivazione, e tenuto anche presente che dalle indagini investigative richieste dall'attuale ricorrente non era emerso lo svolgimento di attivita' lavorative ma la ripresa di alcune attivita' della vita privata (spostamenti in citta' a piedi e in auto per acquisti e altro), cioe' di attivita' di una gravosita' di cui non e' evidente la comparabilita' a quella di un'attivita' lavorativa a tempo pieno, non puo' ritenersi che, neanche su un piano logico e di fatto (aspetto rilevante ai fini della logicita' della motivazione), sussistesse l'onere per il lavoratore di provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilita' temporanea rispetto all'attivita' lavorativa. Ne', alla stregua della sentenza e del ricorso per cassazione, la societa' datrice di lavoro risulta avere fornito, come in linea di principio sarebbe stato suo onere, la prova di una natura degli impegni lavorativi dell'attuale resistente idonea ad evidenziare aspetti di illogicita' e malafede nel comportamento del lavoratore.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio vengono regolate facendo applicazione del criterio legale della soccombenza (articolo 91 c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la s.p.a. SI. a rimborsare a Gi. Go. le spese del giudizio determinate in euro trentacinque oltre euro tremila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA secondo legge.

 

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