E' legittimo licenziamento di chi lede prestigio e immagine dell'azienda

E' suscettibile di violare il disposto dell'art. 2105 c.c. e di vulnerare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel lavoratore un esercizio da parte di quest'ultimo del diritto di critica che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si sia tradotto in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro.
(Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile
Sentenza del 10 dicembre 2008, n. 29008)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe - Presidente

Dott. CUOCO Pietro - Consigliere

Dott. VIDIRI Guido - Consigliere

Dott. STILE Paolo - rel. Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 31493/2005 proposto da:

FI. AN., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO 14, presso lo studio dell'avvocato GRAZIANI GIANFRANCO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato BORGNA RICCARDO, giusta delega a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

CO., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA N. 40, presso lo studio dell'avvocato DANTE ENRICO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato SCACCHI PIERANGELO, giusta mandato a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1427/2004 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 29/11/2004 R.G.N. 75/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2008 dal Consigliere Dott. PAOLO STILE;

udito l'Avvocato COLUCCI per delega BORGNA;

udito l'Avvocato GIUSEPPE PANDOLFO per delega DANTE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data a 28 maggio - 17 luglio 2003 il Tribunale di Verbania, accogliendo in parte il ricorso proposto da Fi. An., dichiarava illegittime le sanzioni disciplinari inflitte a quest'ultimo dal datore di lavoro, CO. - svolgente servizio di smaltimento rifiuti -, e dichiarava altresi' illegittimo il licenziamento con condanna del convenuto alla riassunzione ed alla rifusione del danno.

Proponeva appello il CO. con ricorso depositato in data 23.1.2004 con il quale contestava solamente la parte della sentenza relativa al licenziamento. Si costituiva l'appellato che resisteva all'appello e proponeva altresi' appello incidentale volto ad ottenere una diversa e piu' ampia quantificazione dell'indennita' risarcitoria.

Con sentenza del 28 ottobre - 29 novembre 2004, l'adita Corte d'appello di Torino, ritenuto che risultava provato quanto esposto nella lettera di contestazione che aveva preceduto il licenziamento e, cioe', affermazioni del Fi., in occasione di tre assemblee pubbliche, gravemente lesive dell'immagine e del prestigio dell'azienda datrice di lavoro (mancato invio del materiale derivante dalla raccolta differenziata al recupero, al riciclaggio e allo smaltimento differenziato, ma destinato all'incenerimento), in accoglimento dell'impugnazione, rigettava le domande, avanzate dal lavoratore relative al licenziamento.

Per la cassazione di tale pronuncia, ricorre Fi.An. con due motivi.

Resiste il CO. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex articolo 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, il Fi., denunciando violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c., ed insufficiente e contraddittoria motivazione (articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamenta che l'impugnata decisione abbia proceduto alla ricostruzione dei fatti contestati, rimarcando la intollerabilita' delle frasi che sarebbero state pronunciate da esso ricorrente, in pubbliche assemblee, perche' gravemente lesive dell'immagine e del prestigio del Consorzio, anche per la "vasta eco sulla stampa locale". Al contrario, dalle deposizioni testimoniali assunte nel corso dell'attivita' istruttoria, emergeva una ricostruzione, di tutt'altro significato, delle dichiarazioni effettivamente rese dal "lavoratore/cittadino/amministratore Fi. An. ", il quale aveva voluto soltanto evidenziare le difficolta' persistenti nel servizio di raccolta dei rifiuti urbani e le notizie su di un indebito utilizzo dell'inceneritore contrastante con i criteri organizzativi della raccolta differenziata.

Il motivo e' infondato.

Come questa Corte ha avuto piu' volte occasione di puntualizzare, il licenziamento per giusta causa, essendo la piu' grave delle sanzioni disciplinari, puo' considerarsi legittimo solo se sia proporzionato al fatto addebitato al lavoratore; pertanto, per stabilire l'esistenza della giusta causa di licenziamento occorre accertare se la specifica mancanza commessa dal dipendente, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, cosi' da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e sia tale da esigere una sanzione non minore di quella espulsiva (Cass. n. 4138 del 2000, Cass. n. 6216 del 1998, Cass. n. 5080 del 1992). In questo contesto e' stato altresi' precisato che la valutazione relativa alla sussistenza della giusta causa deve essere condotta non gia' in astratto, ma con riferimento al caso concreto ed agli aspetti concreti di esso, ossia alla portata del fatto, alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all'intensita' dell'elemento volitivo (Cass. n. 4138 del 2000, Cass. n. 3194 del 1989, Cass. n. 659 del 1990).

E' stato poi sempre ribadito che la valutazione della gravita' della infrazione e della sua idoneita' ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimita' se congruamente motivato (cfr. Cass. n. 4138 del 2000; Cass. n. 2176 del 2000; Cass. n. 13299 del 1999, Cass. n. 2616 del 1998). A proposito della congrua motivazione, devesi ancora rammentare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimita' il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensi' soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e puo' ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

In altri termini, il controllo di logicita' del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimita' (dall'articolo 360 c.p.c., n. 5) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimita'.

Tanto chiarito, va evidenziato che la Corte di Torino, dopo avere puntualizzato che il Fi. non aveva mai smentito di avere pronunciato le affermazioni contestategli - circostanze del resto provate dalle documentazioni in atti e dagli esami testimoniali -, ma si era limitato ad asserire di essere intervenuto nelle assemblee come privato cittadino e non nella sua veste di dipendente del Consorzio, ha osservato come dalle affermazioni del lavoratore fossero scaturite, in concreto, conseguenze non irrilevanti, avendo le suddette affermazioni avuto vasta eco sulla stampa locale (come emergeva dalla prodotta copia di un articolo pubblicato dal quotidiano (OMESSO)), originando una ferma richiesta di chiarimenti da parte degli amministratori pubblici nei confronti dei vertici del Consorzio e mettendo quest'ultimo in difficolta', compromettendone, quantomeno momentaneamente, l'immagine e la professionalita'.

Tali affermazioni, espresse e ripetute in almeno tre circostanze, in pubbliche assemblee, ben legittimavano - ad avviso della Corte territoriale - il provvedimento sanzionatorio espulsivo adottato.

Il Fi., con il proposto ricorso, piuttosto che mettere in evidenza incongruenze logiche presenti nelle considerazioni della Corte di appello, poste a base del giudizio di gravita' della contestata condotta, ha rimarcato alcuni aspetti di detta condotta (partecipazione alle assemblee come privato cittadino), che avrebbero dovuto sminuire la sua responsabilita'; ma tali aspetti sono stati compiutamente presi in considerazione dalla Corte d'appello, la quale ha, tra l'altro, osservato che le affermazioni in questione nulla avevano a che vedere con la liberta' di espressione ed il diritto di critica, in quanto tali diritti dovevano sempre essere esercitati nel contemperamento con l'altrui diritto a non essere ingiustamente "diffamato" ne' accusato di comportamenti - gravi se reali - inesistenti, da un soggetto che aveva tutte le possibilita' di documentarsi sulla veridicita' o meno delle proprie accuse prima di lanciarle in pubblico; non solo, ma il Fi. non desisteva dal reiterare le proprie accuse nonostante gli interventi dell'assessore Pe. che chiariva come non si fossero verificati gli episodi riferiti dall'appellato.

In tale modo il Giudice a quo ha tenuto a mantenere distinto il diritto di critica e la liberta' di espressione dalla condotta in esame, caratterizzata dalla aperta accusa (con la consapevolezza - o, quanto meno, la possibilita' di sapere -, della falsita' delle accuse) nei confronti del Consorzio di comportamenti e prassi che tradivano gli stessi principi ispiratori della filosofia della raccolta differenziata, da cio' deducendo che l'obbligo di fedelta' nei confronti del datore di lavoro era stato senza dubbio violato, sicche' pienamente legittimo doveva intendersi il licenziamento allo stesso irrogato.

Il Giudice d'appello ha spiegato, con dovizia di argomentazioni, le ragioni che hanno condotto al licenziamento del Fi., adeguandosi all'orientamento di questa Corte, secondo cui la forma della critica non e' civile non soltanto quando e' eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta, di serenita' o obiettivita' o, comunque, calpesta quel minimo di dignita' e di immagine cui ogni persona fisica o giuridica ha sempre diritto, ma anche quando non e' improntata a leale chiarezza; cio' si riscontra allorquando si ricorra al "sottinteso sapiente", agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionalmente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli di articoli o pubblicazioni h, quindi, in genere nelle manifestazioni pubbliche, o comunque all'artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, nonche' alla vere e proprie insinuazioni (cfr. al riguardo, Cass. Cass. 16 maggio 1998 n. 4952).

Alla stregua delle considerazioni sinora svolte non merita alcuna censura la decisione impugnata che, esaminando in maniera attenta il contenuto degli addebiti mossi dal Fi. all'Azienda, ne ha evidenziato il carattere lesivo e ed ha poi rilevato - con una motivazione esauriente e del tutto corretta sul piano logico - giuridico -, che non poteva giustificarsi il suo comportamento con il richiamarsi al diritto di critica, per avere violato i limiti che l'ordinamento pone all'esercizio di tale diritto.

Non merita accoglimento neanche l'altra censura con la quale il ricorrente lamenta una violazione dell'articolo 2105 c.c.. Questa Corte ha piu' volte affermato che l'obbligo di fedelta', la cui violazione puo' rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia nell'obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c.. Il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'articolo 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creano situazioni di conflitto con le finalita' e gli interessi dell'impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso (ex plurimis, Cass. 3 novembre 1995 n. 11437). Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, e' suscettibile di violare il disposto dell'articolo 2105 c.c., e di vulnerare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel lavoratore un esercizio da parte di quest'ultimo del diritto di critica che, superando i limiti del rispetto della verita' oggettiva, si sia tradotto - come e' avvenuto nel caso di specie - in una condotta lesiva del decoro della impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro. Una siffatta lesione del carattere fiduciario del rapporto lavorativo va accertata dal giudice di merito con giudizio sindacabile in sede di legittimita' unicamente per vizi di motivazione.

Per concludere, la sentenza impugnata, per essere sorretta da una motivazione esauriente e corretta sul piano logico e giuridico, anche in ordine alla proporzione del provvedimento risolutivo adottato rispetto alla gravita' del comportamento, si sottrae alle critiche che le sono state mosse.

Il motivo va, pertanto, rigettato, rendendo cosi' superfluo l'esame del secondo, che, concernendo la quantificazione del danno risarcibile per effetto della illegittimita' del licenziamento, e' stato avanzato sul presupposto dell'accoglimento del primo motivo.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in euro 17,00, oltre lire 2.000,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA.

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