Il datore di lavore è legittimato ad includere nella procedura di mobilità lavoratori da reintegrare a seguito di licenzimemento illegittimo

L'integrale ripristino del rapporto di lavoro conseguente all'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato comprende anche il diritto del datore di lavoro di esercitare autonomamente il proprio potere direttivo. Ne consegue che è facoltà dello stesso la possibilità di includere nelle procedure di mobilità previste dalla legge n. 223 del 1991 anche lavoratori da reintegrare, ancorché il relativo ordine non sia stato ancora materialmente eseguito, atteso che i criteri sulla cui base vanno individuati i lavoratori da collocare in mobilità non richiedono in alcun modo l'effettività del rapporto di lavoro, non risultando parametrabili su tale effettività. Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza del 24 aprile 2007, n. 9866. Nello specifico la S.C., ha confermato l'impugnata sentenza di merito con la quale era stato sostenuto che la lavoratrice ricorrente si sarebbe dovuta considerare, al momento dell'avvio della procedura di mobilità, a tutti gli effetti in servizio in virtù dell'annullamento giudiziale di precedente licenziamento con conseguente ordine di reintegrazione, aggiungendo che il richiamato principio assorbiva ogni ulteriore considerazione relativa all'esaminata vicenda, nella quale la reintegrazione era stata attuata prima del nuovo licenziamento e il rapporto di lavoro non si era estinto per effetto della corresponsione, in luogo della reintegrazione, dell'indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.



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FATTO

1. Con la sentenza sopra specificata il Tribunale di Napoli, in accoglimento dell'appello principale di Fi. SpA contro la sentenza del Pretore di Napoli in data 25.2.1998, ha dichiarato la legittimità del licenziamento per riduzione di personale comunicato alla dipendente Le. Di Br. il 27.11.1996, respingendo l'appello incidentale della lavoratrice.

2. Il Pretore aveva rigettato il ricorso proposto dalla Società per l'accertamento della legittimità del recesso, senza pronunciare sulla domanda riconvenzionale della Di Br. con la quale si chiedevano l'annullamento del licenziamento e le consequenziali statuizioni di condanna e compensando le spese, pur motivando nel senso della fondatezza del ricorso introduttivo del giudizio. Al riguardo, il Tribunale ha dichiarato la nullità della sentenza di primo grado, osservando che la società aveva fatto valere il vizio con l'appello principale, limitandosi a chiedere la conferma della motivazione, non certo del dispositivo.

3. Sul merito della questione, i giudici dell'appello hanno ritenuto: a) al tempo dell'avvio della procedura di mobilità (7.10.1996) la lavoratrice doveva considerarsi a tutti gli effetti in servizio, per effetto dell'annullamento giudiziale di precedente licenziamento con ordine di reintegrazione e senza che, nel termine perentorio previsto dall'art. 18 l. 300/1970, fosse stata esercitata la facoltà di opzione per il pagamento di 15 mensilità di retribuzione; b) era stato rispettato il disposto dell'art. 4 l. 223/1991 in ordine alla completezza delle comunicazioni alle organizzazioni sindacali; c) era valido il criterio di scelta dei dipendenti da collocare in mobilità, concordato con i sindacati, della prossimità al trattamento pensionistico con fruizione di "mobilità lunga", né risultava che esistessero margini di discrezionalità nell'applicazione, tali da consentire una discriminazione nei confronti della lavoratrice, di cui, peraltro, mancavano allegazioni e prove; d) la Di Br. era in possesso dei requisiti richiesti dall'art. 7 comma 6, l. 223/1991, senza che potesse rilevare la minore età prevista per la pensione di vecchiaia per le donne.

4. La cassazione della sentenza è domandala da Le. Di Br. con ricorso per quattro motivi, al quale resiste con controricorso Al. Aeronautica SpA (società cui è stata conferita Fi. SpA, ramo di azienda Al. Divisione Aeronautica). Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 161 c.p.c. perché la nullità della sentenza di primo grado per contrasto tra motivazione e dispositivo non era stata fatta valere dalla società con l'appello, nel quale si chiedeva la conferma della sentenza impugnata.

1.1. Il motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Il contenuto dell'atto di appello (che la Corte ha il potere di interpretare direttamente in presenza di denuncia di error in procedendo: art. 360, n. 4, c.p.c.) è inequivoco nel denunciare il contrasto tra motivazione e dispositivo e nel domandare la conferma delle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, precisando di avere interesse ad un dispositivo con esse coerenti.

2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 4 comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223, e 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 unitamente a vizio della motivazione, per avere la sentenza impugnata ritenuto che la lavoratrice dovesse considerarsi in servizio ad ogni effetto al tempo dell'avvio della procedura di mobilità. Si deduce che la ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro per effetto dell'ordine giudiziale di reintegrazione è pur sempre una finctio, come tale non influente sulla valutazione della realtà aziendale che giustifica la riduzione di personale, risultando la mancanza di attualità del rapporto di lavoro incompatibile con i previsti oneri di procedura; che, alla data di avvio della procedura, non era ancora decorso il termine per optare per il pagamento della somma pari a 15 mensilità, a conferma di una situazione di incertezza in ordine al reale inserimento nell'organico aziendale; che la ricorrente era stata effettivamente reintegrata agli inizi del novembre 1996 e il nuovo licenziamento in data 27.11.1996 dimostrava l'artificiosità dell'operazione.

2.1. Anche questo motivo va ritenuto manifestamente infondato perché la giurisprudenza della Corte, con decisione resa in vicenda analoga, ha già enunciato il principio secondo cui l'integrale ripristino del rapporto di lavoro conseguente all'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato comprende anche il diritto del datore di lavoro - la cui fattiva cooperazione è indispensabile e insostituibile per dare esecuzione al suddetto ordine - di esercitare autonomamente il proprio potere direttivo; ciò implica la possibilità di includere nelle procedure di mobilità previste dalla legge n. 223 del 1991 anche lavoratori da reintegrare, ancorché il relativo ordine non sia stato ancora materialmente eseguito, in quanto i criteri sulla cui base vanno individuati i lavoratori da collocare in mobilità non richiedono in alcun modo l'effettività del rapporto di lavoro, non risultando parametrabili su tale effettività (Cass. 14 ottobre 2000, n. 13427).

Il richiamato principio assorbe ogni ulteriore considerazione relativa alla specifica vicenda in esame, nella quale la reintegrazione è stata attuata prima del nuovo licenziamento e il rapporto di lavoro non si era estinto per effetto della corresponsione, in luogo della reintegrazione, della indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto (vedi Cass. 28 luglio 2003, n. 11609).

3. Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge n. 223 del 1991 e vizio della motivazione, muovendo alla sentenza impugnata le seguenti censure: la legge non consente di adottare un unico criterio di scelta, criterio che si risolve nel concordare con i sindacati i nominativi dei destinatari del licenziamento; il criterio della maggiore anzianità e prossimità alla pensione non è razionalmente coerente con le finalità della riduzione di personale, traducendosi nella valutazione di condizioni meramente soggettive e addossando alla collettività costi impropri.

3.1. Anche le censure contenute nel motivo di ricorso in esame sono già state confutate dagli orientamenti espressi dalla giurisprudenza della Corte. In materia di licenziamenti collettivi - come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 - la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità), poiché adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità e devono essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori. Va considerato, conseguentemente, razionalmente adeguato il criterio della prossimità al trattamento pensionistico con fruizione di "mobilità lunga", oltretutto menzionato come esempio nella citata sentenza costituzionale, stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale dell'operazione e il potere dell'accordo di cui all'art. 5 comma 1, della l. n. 223 del 1991 di sostituire i criteri legali e di adottare anche un unico criterio di scelta, a condizione che il criterio adottato escluda qualsiasi discrezionalità del datore di lavoro (Cass. 2 marzo 1999, n. 1760; 7 dicembre 1999, n. 13691; 22 marzo 2001, n. 4140; 26 settembre 2002, n. 13962; 2 settembre 2003, n. 12781).

4. Con il quarto e ultimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 8 l. 236/1992 e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta esistenza dei requisiti per conseguire il diritto a pensione al termine del trattamento di mobilità. Si sostiene che non sussisteva, ai sensi dell'art. 8 l. 236/1993, il requisito dell'anzianità contributiva di 28 anni, ma solo di 25; che il criterio della prossimità al trattamento pensionistico, ove riferito al compimento di 55 anni di età previsto per le donne, si rilevava discriminatorio, sia sotto il profilo del diritto a continuare l'attività lavorativa, senza neppure l'esercizio di opzione, sia della violazione del diritto alla parità di trattamento con gli uomini in relazione alla considerazione di un'anzianità inferiore di cinque anni rispetto a quella richiesta per gli uomini.

4.1. Anche questo motivo va respinto sulla base di principi già espressi dalla giurisprudenza della Corte.

L'età pensionabile per le donne è rimasta inferiore di cinque anni pur dopo l'intervenuta parificazione dell'età lavorativa a quella degli uomini per effetto della sentenza costituzionale n. 488 del 1988; pertanto, tale età rappresenta per le donne legittimo punto di riferimento, anche in difformità dalla diversa condizione dell'uomo, per il riconoscimento o disconoscimento di provvidenze estranee alla semplice protrazione del rapporto di lavoro, senza che, peraltro, possa configurarsi una lesione del principio di uguaglianza, posto che la disparità di trattamento tra uomini e donne è una conseguenza del privilegio conservato dalle lavoratrici in ordine al requisito di età per avere diritto alla pensione di vecchiaia, come risulta confermato dalla sentenza costituzionale n. 335 del 2000, dichiarativa dell'infondatezza della questione di legittimità, per contrasto con gli art. 3 e 37 Cost., dell'art. 7 comma 3, l. 23 luglio 1991, n. 223 nella parte in cui, nell'escludere l'indennità di mobilità al compimento dell'età pensionabile, non tiene conto del diverso regime previdenziale per le donne in merito all'età necessaria per il raggiungimento del diritto alla pensione, fissata con cinque anni di anticipo rispetto a quella dei lavoratori uomini (vedi Cass. 3 aprile 1998, n. 3439; 20 dicembre 2000, n. 15984).

Con la conseguenza che, in tema di licenziamenti collettivi, deve ritenersi razionalmente giustificato il ricorso al criterio della prossimità al trattamento pensionistico, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che non sia operata alcuna distinzione tra pensione di anzianità e di vecchiaia, con conseguente coinvolgimento di lavoratori con bassa pensione, dovendosi operare il raffronto con i lavoratori più giovani; né tra la posizione dei lavoratori maschi e quella delle donne, svantaggiate in considerazione dei più bassi limiti di età richiesti per il loro pensionamento, dovendo la posizione di queste ultime essere riguardata in relazione a quella delle altre donne e degli uomini che non possono accedere alla pensione (Cass. 4140/2001, cit.).

Resta esclusa, perciò, la violazione del principio di non discriminazione, diretta e indiretta, richiamato dall'art. 8 comma 2, d.l. 20 maggio 1993, n. 148, convertito in l. 19 luglio 1993, n. 236 richiamato dalla ricorrente.

4.2. In ordine poi alle censure relative agli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza impugnata, va osservato che la Di Br. aveva 56 anni al tempo del licenziamento e un'anzianità contributiva pacificamente superiore ai 17 anni, cosicché, ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 e allegate tabelle, avrebbe conseguito il diritto alla pensione di vecchiaia al compimento del 57° anno di età (allegati 1 e 2 allo stesso testo normativo).

5. La peculiarità della vicenda (precedente licenziamento; contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza di primo grado) induce la Corte a ritenere la sussistenza di giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

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