Il datore di lavoro che non fornisca al proprio dipendente il vestiario è tenuto risarcire il medesimo del danno patrimoniale rappresentato dal costo aggiuntivo incontrato per l'acquisto

in caso di inadempimento da parte del datore di lavoro all'obbligo contrattualmente assunto di fornitura ai dipendenti di "vestiario uniforme", ove il dipendente sia conseguentemente costretto ad acquistare a proprie spese abiti che per tipo e foggia diversamente non avrebbe acquistato al fine di adempiere alla propria obbligazione di indossare in servizio abiti "uniformi", il datore di lavoro e' gravato dell'obbligo secondario di risarcirgli il danno derivante dal suo inadempimento, rappresentato dal costo aggiuntivo incontrato per l'acquisto.



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SENESE Salvatore - Presidente

Dott. MAIORANO Francesco Antonio - Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo - Consigliere

Dott. IANNIELLO Antonio - rel. Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MA. GI., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE G. MAZZINI 140, presso lo studio dell'avvocato VITALE FORTUNATO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

CO. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 288, presso lo studio dell'avvocato PROIA GIAMPIERO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 4716/04 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 16/11/04 R.G.N. 4691/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/08 dal Consigliere Dott. Antonio IANNIELLO;

udito l'Avvocato VITALE;

udito l'Avvocato PROIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Roma, quale giudice del lavoro, Ma. Gi., dipendente della Co. s.p.a. con la qualifica di conducente di linea (recte: "agente di movimento"), deducendo la violazione da parte della datrice di lavoro per il periodo dal 1993 al 1998 dell'obbligo, stabilito negli accordi aziendali del 9 giugno 1972 e del 1 marzo 1990, di fornitura, a cadenza biennale o annuale a seconda degli indumenti, del cd. "vestiario uniforme", che il personale di esercizio aveva l'obbligo di indossare in servizio, con onere economico a carico della societa', salvo che per la percentuale del 20% a carico del dipendente, aveva affermato di essere stato conseguentemente costretto a confezionare e/o ad acquistare a proprie spese vestiario di foggia analoga a quella "uniforme", e aveva pertanto chiesto la condanna della societa' a risarcirgli il danno conseguentemente subito, infine precisato in lire 7.936.000 o, in via subordinata, in lire 7.040.000, che terrebbe conto della eventuale prescrizione di parte del credito azionato oppure, in via ulteriormente subordinata, in altro importo liquidato equitativamente, indicato in almeno lire 1.500.000.

Il Tribunale adito, con sentenza del 5 dicembre 2002, confermata integralmente, su appello del Ma., dalla Corte d'appello di Roma con sentenza depositata il 16 novembre 2004, aveva rigettato le domande.

I giudici di merito, pur accertando l'esistenza in materia di un obbligo della societa', alla stregua degli accordi aziendali indicati nonche' l'inadempimento dello stesso, imputabile alla Co. s.p.a. e quindi la responsabilita' per danni di quest'ultima ai sensi dell'articolo 1218 c.c., avevano respinto le domande in base alla considerazione del difetto di deduzione e prova del danno effettivamente subito dal lavoratore in conseguenza di tale inadempimento; danno rappresentato, secondo i giudici, dal valore dell'usura degli abiti utilizzati dal dipendente in luogo di quelli non consegnatigli dalla societa', eventualmente ulteriore rispetto alla quota del 20% del prezzo posta a suo carico dagli accordi del 1972 e del 1990.

In particolare, la Corte territoriale, nel confermare le argomentazioni del giudice di prime cure, ha valutato "ragionevole ritenere che ponendo a carico dei lavoratori quella percentuale di spesa, quegli accordi individuavano il valore economico che doveva essere attribuito alla normale usura dell'abbigliamento utilizzato dai dipendenti in mancanza della pattuita fornitura".

Sulla base di tale interpretazione degli accordi, la Corte, rilevato che le prove articolate dall'appellante non vertevano sulla circostanza evidenziata e ritenuto che non fosse possibile attingere in proposito ad elementi indiziali, ha confermato il rigetto delle domande.

Avverso tale sentenza Ma.Gi. propone rituale ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo.

Resiste alla domanda la societa' con proprio regolare controricorso.

Ambedue le parti hanno depositato memorie difensive ai sensi dell'articolo 378 c.p.c. in vista dell'udienza in camera di consiglio fissata per il 9 gennaio 2008, ove la causa e' stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione alla pubblica udienza, quindi fissata in data odierna, in vista della quale la controricorrente ha depositato ulteriore memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col ricorso per cassazione la difesa di Ma.Gi., dopo aver ripercorso le vicende processuali relative ai due gradi di giudizio di merito, deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e ss. cod. civ. in relazione all'interpretazione degli accordi collettivi del 9 giugno 1972 e del 1 marzo 1990; la violazione e falsa applicazione degli articoli 1175, 1218, 1223, 1226, 1375 e 2697 cod. civ.; l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza su di un punto decisivo della controversia; la violazione e falsa applicazione degli articoli 113, 115, 116, 421 e 432 c.p.c..

L'errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale consisterebbe nel non aver riconosciuto natura retributiva (di retribuzione in natura) alla prestazione di vestiario uniforme dovuta dalla societa', in adempimento dell'obbligo stabilito dagli accordi aziendali citati, funzionale all'adempimento dell'obbligo gravante sui dipendenti di indossare in servizio il vestiario in questione, cosi' come imposto gia' dal Regio Decreto 8 gennaio 1931, n. 148, articolo 2 del Regolamento di attuazione e poi dall'articolo 50 del C.C.N.L. del 23 luglio 1976 per gli autoferrotranvieri.

Viceversa tale natura retributiva sarebbe innegabile, dovendosi ravvisare nel rapporto di corrispettivita' tra obbligo di fornitura e obbligo di indossare il vestiario in questione la composizione di interessi patrimonialmente rilevanti per entrambe le parti, come del resto sarebbe fatto palese dalla generalmente riconosciuta natura retributiva alla fornitura di vestiario prevista dai medesimi accordi per gli impiegati della societa'.

Il ricorrente desume quindi dall'inadempimento di tale obbligazione retributiva l'obbligo derivato per la societa' di corrispondergli il controvalore della prestazione rimasta inadempiuta, rappresentato dalla quota dell'80% del valore del vestiario posto a carico della societa', che era stato sostituito con vestiario simile acquistato a proprie spese dal dipendente, per potere adempiere all'obbligo di indossare un "vestiario uniforme".

Secondo il ricorrente, non potrebbe inoltre ritenersi contrastare con una tale ricostruzione della volonta' contrattuale collettiva la previsione di cui all'articolo 4 dell'accordo aziendale 1 marzo 1990, secondo cui "... gli effetti della massa vestiario sono assegnati espressamente e solamente per le necessita' e il decoro del servizio e allo scopo di rendere piu' agevole al personale l'espletamento delle mansioni cui e' addetto". Tale disposizione non conterrebbe infatti alcuna indicazione a sostegno di una interpretazione diversa da quella sostenuta, limitandosi a indicare lo scopo della fornitura e a limitare, per tale via, l'ambito di utilizzazione degli indumenti in dotazione.

Il ricorrente sostiene infine l'inconferenza rispetto al caso in esame della citazione operata dalla sentenza impugnata di due sentenze di questa Corte (nn. 3498/95 e 7336/94), in realta' riguardanti diversi e diversamente formulati accordi aziendali vigenti a Napoli e richiama viceversa due sentenze di questa Corte del 2003 (nn. 18782/03 e 17639/03) a sostegno della sua tesi difensiva.

In via subordinata, la difesa del Ma. censura la sentenza per non aver proceduto ad una liquidazione equitativa del danno a norma dell'articolo 432 c.p.c., ove avesse ritenuto impossibile la precisa determinazione del danno risarcibile, comunque accertato come sussistente. In proposito, sostiene che sarebbe stato possibile liquidare equitativamente almeno l'importo di euro 775,00.

In ogni caso, il ricorrente sostiene di avere gia' in primo grado dedotto a prova - non ammessa in violazione del diritto alla prova spettante alla parte e neppure attivata d'ufficio ai sensi dell'articolo 421 c.p.c., l'esistenza dell'obbligo di indossare indumenti "uniforme", l'utilizzo di indumenti propri e l'acquisto a sue spese di detti indumenti a seguito dell'inadempimento della societa'.

Il ricorrente conclude pertanto chiedendo la cassazione della sentenza impugnata con ogni conseguente provvedimento di legge.

Nel controricorso e nella memoria difensiva depositata ai sensi dell'articolo 378 c.p.c., la societa', oltre a contestare le tesi difensive sviluppate nel ricorso, che ritiene inammissibile e comunque infondato, deduce la non imputabilita' a se' stessa della mancata utilizzazione da parte del ricorrente del "vestiario uniforme" da fornire dall'impresa, in assenza di deduzione e prova da parte del Ma. di essersi attivato per ritirare i capi di vestiario in questione.

Il ricorso e' fondato nei termini e per le ragioni di seguito esposte.

Preliminarmente va respinta l'eccezione formulata nel controricorso relativamente al difetto di deduzione e prova da parte del Ma. di essersi attivato per ritirare i capi di vestiario uniforme dovuti dalla societa', in adempimento dell'obbligo stabilito dagli accordi aziendali citati, l vestiario convenuto nel periodo indicato.

In proposito, a prescindere da ogni altra considerazione, la societa' afferma di avere formulato in primo grado una tale eccezione, ma non ripete siffatta affermazione con riferimento al grado di appello, per cui correttamente la sentenza d'appello ha confermato l'accertamento relativo all'inadempimento della societa' all'obbligo di fornitura, divenuto indiscutibile ai sensi dell'articolo 346 c.p.c..

Come emerge dalla sintesi sopra riprodotta del contenuto del ricorso, le censure con esso svolte vertano per la maggior parte sulla interpretazione degli accordi aziendali del 9 giugno 1972 e del 1 marzo 1990 in materia di fornitura di vestiario uniforme per il personale autoferrotranviario viaggiante.

In proposito, va ricordato il principio pacifico secondo cui l'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, quali devono ritenersi gli accordi aziendali citati, e' devoluta al giudice di merito ed e' censurabile in sede di legittimita' unicamente per la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione della sentenza (in proposito, la giurisprudenza e' numerosa ed uniforme; cfr., per tutte, con riguardo all'articolo 50, lettera c) del C.C.N.L. autoferrotranviari del 1976, concernente appunto la materia della fornitura di vestiario, con oneri economici ripartiti, Cass. 25 marzo 1995 n. 3498 e con riguardo agli impiegati autoferrotranviari romani, Cass. 9 dicembre 2003 n. 18782).

Nonostante l'enunciazione nella rubrica, il testo del ricorso non sviluppa adeguatamente la censura di violazione delle norme di cui agli articoli 1362 e ss. cod. civ., della sentenza impugnata, ma si limita a richiamare principi pacifici in materia di riparto dell'onere della prova dell'inadempimento contrattuale (su cui cfr., per tutte, Cass. S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533 e, da ultimo, 11 gennaio 2008 m. 577) e a contrapporre all'interpretazione resa dalla Corte territoriale in ordine alle norme collettive indicate, ritenuta errata, una propria diversa interpretazione, come viceversa non appare consentito in sede di legittimita' (cfr., da ultimo, Cass. 18 aprile 2008 n. 10203).

Resta pertanto fermo a quest'ultimo proposito l'assunto della Corte d'appello di Roma, la quale ha adeguatamente motivato la propria interpretazione delle norme contrattuali collettive aziendali del 1972 e del 1990, con l'escludere la natura retributiva della fornitura di vestiario, col ritenere che la quota del relativo costo a carico dei dipendenti (20%) fosse in relazione al risparmio ipotizzato come derivante loro dalla mancata utilizzazione, nel tempo di lavoro, dei propri abiti e col concludere pertanto che il richiesto risarcimento del danno conseguente all'inadempimento dell'obbligo di fornitura da parte della societa' presupponesse la dimostrazione - il cui onere ha ritenuto gravante sui lavoratori e non assolto nel caso in esame - di una usura dei propri abiti in misura superiore alla quota dell'esborso posto a loro carico.

La sentenza ha anche motivato in ordine al parallelismo istituito dalla difesa del ricorrente tra il caso in esame e quello relativo alla fornitura di vestiario uniforme agli impiegati autoferrotranviari, che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente qualificato come retribuzione in natura (cfr., ad es., oltre alle sentenze del 2003 citate dal ricorrente, Cass. 22 agosto 2005 n. 17078). In proposito, la Corte territoriale ha infatti rilevato come all'originaria unica disciplina collettiva aziendale di fornitura di abiti uniformi per impiegati e personale di linea, contenuta negli accordi del 1972 e del 1 marzo 1990, si fosse sovrapposta per i soli impiegati quella dell'accordo 1 giugno 1990, sul cui innovativo contenuto, giudicato di carattere sostanzialmente transattivo, sarebbe fondata la qualificazione retributiva della successiva fornitura di vestiario.

Ferma pertanto l'interpretazione degli accordi aziendali citati, resa dalla Corte territoriale, va peraltro rilevato che nel presente giudizio il ricorrente non aveva semplicemente dedotto di avere dovuto usare, in mancanza della fornitura aziendale i propri abiti civili anche nel tempo di lavoro, per cui l'unico danno da risarcire ipotizzatole avrebbe potuto essere quello corrispondente all'usura aggiuntiva dei propri normali abiti rispetto alla quota del 20% del costo di quelli non forniti.

Egli aveva infatti altresi' affermato di essere stato costretto - in difetto di fornitura aziendale e per adempiere agli obblighi su di lui gravanti quanto al vestiario da indossare in servizio - a procedere all'acquisto di abiti conformi ai tipi indicati dalla societa', che pertanto - devesi ritenere - non avrebbe diversamente effettuato per il proprio uso privato.

A sostegno di tale deduzione, la difesa del ricorrente aveva inoltre dedotto a prova, gia' col ricorso introduttivo, come da atto la sentenza impugnata, il fatto di avere proceduto nel periodo considerato all'acquisto di vestiario similare a quello uniforme.

Tali deduzioni anche probatorie sono state erroneamente ritenute irrilevanti e non ammesse dalla Corte territoriale.

Devesi infatti ritenere, sulla base della disciplina generale dell'inadempimento delle obbligazioni contrattuali di cui agli articoli 1218 e ss. cod. civ., che in caso di inadempimento da parte del datore di lavoro all'obbligo contrattualmente assunto di fornitura ai dipendenti di "vestiario uniforme", ove il dipendente sia conseguentemente costretto ad acquistare a proprie spese abiti che per tipo e foggia diversamente non avrebbe acquistato al fine di adempiere alla propria obbligazione di indossare in servizio abiti "uniformi", il datore di lavoro e' gravato dell'obbligo secondario di risarcirgli il danno derivante dal suo inadempimento, rappresentato dal costo aggiuntivo incontrato per l'acquisto.

Trattasi infatti di perdita patrimoniale casualmente riconducibile in maniera immediata e diretta all'inadempimento, secondo regole di normalita' (cfr., in proposito, Cass. 4 luglio 2006 n. 15274) e tenuto conto del principio desumibile dall'articolo 1225 c.c., relativo al giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso inadempimento e quella effettivamente avvenuta (sulle regole di valutazione e determinazione dei danni, cfr. in motivazione, da ultimo, Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 576).

Ne consegue che la Corte territoriale ha omesso di valutare, anche attivando i propri poteri istruttori integrativi d'ufficio, l'eventuale sussistenza del danno indicato, pur enunciato nelle sue componenti essenziali e dedotto a prova dall'appellante come conseguenza diretta dell'inadempimento datoriale, danno diverso e alternativo rispetto a quello che la sentenza ha valutato come non dedotto ne' provato dallo stesso (la maggior usura dei vestiti propri).

Sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso va accolto (con assorbimento delle censure svolte in via subordinata) e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio, anche per il regolamento delle spese, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.

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