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In caso di stipulazione del contratto di solidarietà la riduzione di orario, e quindi di retribuzione, è necessario che a detta stipula segua la concessione della integrazione salariale
Pubblicata il 27/04/2008
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Con sentenza non definitiva del 25 ottobre 2000, cui seguiva, all'esito di consulenza contabile, la sentenza definitiva del 5 luglio 2001, il Tribunale di Vercelli accoglieva la domanda proposta dai lavoratori, attuali ricorrenti in epigrafe indicati, nei confronti della Po. spa, per ottenere l'integrazione salariale non percepita, stante il rigetto, da parte del Ministero del lavoro, della domanda in tal senso proposta dalla societa'. Entrambe le statuizioni venivano riformate dalla locale Corte d'appello che, con la sentenza qui impugnata, rigettava integralmente le domande dei lavoratori.
La Corte territoriale premetteva in fatto: il 21 luglio 1994, a conclusione della procedura di mobilita', che era stata iniziata per esito negativo della produzione, era stato stipulato un contratto di solidarieta' con cui si prevedeva la risoluzione del rapporto per 14 lavoratori, e per altri dipendenti, la riduzione, per dodici mesi, dell'orario di lavoro, in misura pari, per 8 impiegati, da 40 a 20 ore settimanali, e per 33 dipendenti, compresi gli attuali ricorrenti, in misura pari a 16 ore settimanali; si prevedeva altresi' la riduzione dell'orario mensile con alternanza, per gli operai, di una settimana di lavoro a 32 ore e di una a zero ore; le parti stabilivano inoltre che eventuali superamenti dell'orario, resisi necessari per esigenze produttive, sarebbero stati valutati congiuntamente tra la direzione e le RSA. Il Ministero del lavoro aveva rigettato ristanza per ottenere il trattamento di integrazione salariale per molteplici ragioni: perche' la riduzione di orario era limitata alle sole unita' dichiarate eccedenti (con violazione del principio all'equa ripartizione delle eccedenze), perche' la societa' aveva aumentato Forano di lavoro, in modo non uniforme, dei lavoratori posti in solidarieta' e perche', nel contempo, aveva fatto svolgere lavoro straordinario a coloro che non erano interessati alla mobilita'. La Corte territoriale disattendeva la richiesta dei dipendenti di pagamento delle ore eccedenti l'orario ridotto, che di fatto era stato seguito, osservando che, ai sensi e con le procedure di cui al Decreto Legge n. 726 del 1984 ed alla Legge n. 236 del 1993 la integrazione salariale, in caso di stipulazione di contratti di solidarieta' (concepiti come uno strumento alternativo al licenziamento), viene concessa dal Ministero del lavoro per garantire ai lavoratori la retribuzione piena percepita prima della riduzione di orario, previa verifica dell'esistenza delle condizioni prescritte per la stipulazione dell'accordo sindacale. Nella specie non poteva ritenersi che la mancata concessione del beneficio da parte del Ministero fosse imputabile alla societa', giacche' le condizioni per la validita' del citato accordo devono essere verificate ex ante e non devono perdurare per tutto il periodo di riduzione di orario, avendo la medesima legge previsto, durante il suo decorso, la possibilita', per il sopraggiungere di nuove occasioni produttive, di un aumento di orario, il quale non rendeva illegittimo ex post il contratto di solidarieta', ma valeva solo a ridurre, in proporzione, l'importo della integrazione da erogare. Inoltre nessuna norma di legge vietava al datore di disporre l'espletamento del lavoro straordinario ai dipendenti non interessati al contratto di solidarieta', per esigenze di carattere produttivo connesse alle professionalita' necessarie a far fronte alle commesse sopraggiunte.
Inoltre la societa' aveva proceduto, com'era stato previsto nel contratto di solidarieta', alla valutazione congiunta in relazione all'espletamento di lavoro straordinario, promuovendo gli incontri con le RSA, e l'obbligo di "valutazione congiunta" non imponeva di pervenire ad un accordo sul punto. Concludeva la Corte territoriale che il rigetto della domanda di integrazione salariale da parte del Ministero non era da ascriversi alla responsabilita' della societa', per cui la medesima non era tenuta a pagare ai lavoratori gli importi non percepiti.
Avverso detta sentenza i lavoratori soccombenti, ad esclusione di Pi. Fu., propongono ricorso affidato a quattro motivi.
Il Fallimento Po. spa, Of. Me. di. al. pr., resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denunzia la violazione dell'articolo 112 c.p.c., perche' con l'appello, la societa' aveva dedotto la insussistenza della mora accipiendi a suo carico, e quindi l'insussistenza dell'obbligo di pagare le differenze richieste, in forza del contratto di solidarieta' con cui era stata disposta la riduzione dell'orario di lavoro, mentre la sentenza impugnata avrebbe mutato radicalmente detto thema decidendum, non essendosi limitata ad accertare se il medesimo contratto fosse idoneo a legittimare la riduzione di orario pur in assenza del decreto ministeriale di concessione della integrazione salariale, ma avendo indagato, senza alcuna deduzione della parte in tal senso, sulla legittimita' del provvedimento amministrativo di rigetto (accertata peraltro dal Tar e dal Consiglio di Stato).
Con il secondo motivo si denunzia la violazione della Legge n. 863 del 1984 articolo 1, e della Legge n. 236 del 1993, articolo 5, nonche' dell'articolo 39 Cost., e dell'articolo 1321 c.c.. Sostengono i ricorrenti che il raggiungimento dell'accordo di solidarieta' con le OO.SS. sostanzia di per se' la causa "integrabile", a differenza di altre ipotesi di integrazione salariale condizionate all'esistenza di predeterminati "requisiti oggettivi", ma non esaurisce la fattispecie di cui alla Legge n. 863 del 1984 articolo 1 la quale si perfeziona solo con la successiva adozione del provvedimento di concessione dell'integrazione. Ne discende che il contratto di solidarieta' non e' sufficiente a legittimare la riduzione di orario, giacche' l'assenso delle organizzazioni sindacali non e' di per se solo idoneo a disporre dei diritti individuali dei lavoratori. Al pari delle altre ipotesi di integrazione salariale, fino a che il provvedimento amministrativo non venga emesso, il datore si assume il rischio di pagare di tasca propria le ore di sospensione o di riduzione di orario.
Con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della Legge n. 2248 del 1965, articoli 2 e 5, Regio Decreto n. 1054 del 1924, articolo 26, All. E, nonche' violazione del giudicato amministrativo. Si sostiene che l'accertamento sulla responsabilita' del rigetto della domanda di integrazione salariale dovrebbe necessariamente fondarsi sulla base del giudicato amministrativo, mentre la sentenza impugnata aveva ritenuto di non esserne in alcun modo vincolata. Inoltre il giudicato amministrativo, investendo "l'atto" e' destinato ad esplicare una efficacia ultra partes, con la conseguenza di incidere sia sul datore, sia sui lavoratori.
Con il quarto motivo deducendosi violazione della Legge n. 236 del 1993, articolo 5, della Legge n. 863 del 1984 articolo 1 nonche' dell'articolo 1367 c.c., si assume che le valutazioni dei Giudici di merito sulla illegittimita' del provvedimento amministrativo di rigetto della domanda di integrazione salariale, ancorche' ritenute ammissibili sarebbero infondate, perche', dopo la stipula del contratto di solidarieta', il datore non e' libero di esercitare il proprio potere organizzativo sull'orario di lavoro, essendo astretto a trovare sul punto un accordo con le OO.SS, come previsto dal contratto in esame in cui a tal fine si prevedeva una "valutazione congiunta", di talche' i Giudici di merito avrebbero violato il canone interpretativo di cui all'articolo 1367 c.c..
Il primo motivo non merita accoglimento.
1. La Corte territoriale ha affermato che nulla si poteva rimproverare alla societa' perche' il contratto di solidarieta' stipulato rispondeva ai requisiti previsti dalla legge e non andava fuori dallo schema normativo, il che era sufficiente a legittimare la riduzione di orario, anche se l'integrazione non era stata poi erogata. Le argomentazioni sulla regolarita' del contratto di solidarieta', e quindi sulla erroneita' del provvedimento di rigetto del Ministero, fungono allora, nell'economia della pronunzia, come presupposto per l'accoglimento implicito della tesi che la societa' sosteneva nell'atto di appello, e cioe' che l'esistenza del contratto di solidarieta' facoltizzava il datore alla riduzione di orario, con la conseguenza che, anche in mancanza di concessione della integrazione salariale, non era configurabile la mora accipiendi che integrava il diritto al risarcimento dei danni richiesti. Non vi e' stato quindi mutamento del iberna decidendum, perche' dopo avere preliminarmente verificato che, a prescindere dall'erroneo diniego da parte dell'organo amministrativo, il contratto di solidarieta' rispondeva allo schema previsto dalla legge, e' stata accolta, nella sostanza, la tesi della societa' per cui la regolarita' del medesimo contratto era idonea, da sola, a legittimare la riduzione di orario.
2, E'invece fondato il secondo motivo.
2.1. La questione e' la seguente: se per legittimare la riduzione di orario, e quindi di retribuzione, in conseguenza della stipulazione del contratto di solidarieta' ai sensi della Legge n. 863 del 1984 articolo 1 sia sufficiente detta stipula, ovvero sia anche necessaria la concessione della integrazione salariale, di talche', in sua mancanza, il datore continua ad essere tenuto alla obbligazione originaria (orario pieno), con conseguente diritto dei lavoratori al risarcimento del danno in caso di inadempimento.
La necessita' che - per la liceita' della riduzione di orario - al contratto di solidarieta' segua effettivamente la concessione della integrazione si desume da molteplici elementi.
2.2 Il contratto di solidarieta' di cui al Decreto Legge 30 ottobre 1984, n. 726 articolo 1 convertito in Legge 19 dicembre 1984, n. 863 ed al Decreto Legge 20 maggio 1993, n. 148 articolo 5 convertito in Legge 19 luglio 1993, n. 236 (sui quali hanno successivamente inciso molteplici disposizioni: Legge 20 maggio 1988, n. 160, articolo 8, comma 2 bis, di conversione del Decreto Legge 21 marzo 1988, n. 86; Legge 23 luglio 1991, n. 223 articolo 13; Legge del 29 febbraio 1988, n. 48, articolo 7, di conversione del Decreto Legge 30 dicembre 1987, n. 536; Legge 28 novembre 1996, n. 608, articolo 4, comma 9, di conversione del Decreto Legge 1 ottobre 1996, n. 510), configura una nuova ipotesi di intervento della cassa integrazione guadagni rappresentato dall'avvenuta stipulazione di un contratto collettivo di diminuzione dell'orario e della retribuzione, finalizzato ad evitare, in tutto o in parte, la riduzione del personale. Rispetto alle altre cause di intervento la fattispecie si distingue perche' la situazione di crisi rileva solo come presupposto dell'accordo e non come presupposto per l'intervento della cassa, che e' invece costituito unicamente dall'avvenuta stipulazione del contratto di solidarieta'.
2.3. In primo luogo la Legge in Commento n. 863 del 1984, articolo 1, esordisce, al comma 1, con la previsione di concessione della integrazione salariale, connettendola, indissolubilmente, alla stipulazione del contratto di solidarieta', che funge come presupposto. La novita' della legge, e quindi il dato piu' rilevante, consiste nella introduzione, nell'ordinamento, di un nuovo tipo di intervento statale, mentre, cosi' come formulata la disposizione, non vi sono elementi per ritenere che a quel contratto, da solo, e non seguito dall'intervento statale, venga conferito il potere di incidere in peius sui contratti individuali.
2.4. Inoltre e' opinione pressoche' generale in dottrina, che la legge, mentre ha assunto detto contratto come presupposto, lo abbia nello steso tempo - sia pure implicitamente - provvisto di una generale efficacia normativa nei confronti di tutti i rapporti individuali di lavoro, quanto meno di quelli che sono interessati alla riduzione di orario, e quindi sia ai lavoratori iscritti sia a quelli non iscritti alle associazioni sindacali stipulanti. Lo conferma non solo la scelta dell'agente negoziale "i sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale", ma anche la considerazione che la riduzione di orario puo' efficacemente operare solo se generale, ossia se investe tutto il personale che nel contratto ne viene interessato.
2.5. Potrebbe allora sorgere il problema della efficacia erga omnes dei contratti aziendali che modifichino in peius i contratti individuali, tale essendo il contratto di solidarieta', che vede, come elemento necessario, la partecipazione dei lavoratori al costo della pattuita riduzione dell'orario di lavoro (la cassa ripiana infatti solo parte della retribuzione perduta), ed e' noto che, per le modifiche peggiorative ai contratti individuali, la giurisprudenza di legittimita' ritiene necessaria non solo l'iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, ma anche la ratifica ad opera dei lavoratori interessati, sia pure espressa mediante comportamenti concludenti (da ultimo Cass. n. 19500 del 12 settembre 2006).
2.6. Il problema si scioglie considerando che il contratto aziendale, nella specie, agisce nei confronti di tutti i lavoratori perche' si iscrive all'interno di una fattispecie complessa comprensiva del contratto di solidarieta' e del provvedimento ministeriale di ammissione all'integrazione salariale. Invero se si accoglie la tesi prevalente che ritiene la legislazione sulle integrazioni salariali come attributiva - alle condizioni previste - di un potere modificativo dell'imprenditori sui singoli contratti, e che, in particolare, il provvedimento amministrativo abbia natura di accertamento costitutivo di tale potere, il medesimo schema puo' essere adottato anche nella ipotesi in esame:
ossia la riduzione di orario e di retribuzione, prevista dalla legge, opera erga omnes non gia' in virtu' di una efficacia normativa generale del contratto di solidarieta', ma in virtu' del provvedimento amministrativo di ammissione all'integrazione salariale, rispetto al quale il contratto vale solo come presupposto.
2.7. Va inoltre considerato che il provvedimento di ammissione alla cassa, come interpretato dalla dottrina maggioritaria, non rappresenta un atto "dovuto" in presenza dell'accordo, ma presuppone un controllo di congruita' rispetto alle finalita' indicate dalle legge, e cioe' che la riduzione dell'orario sia idonea ad evitare la dichiarazione di esuberanza del personale, di talche' l'intervento dovrebbe essere escluso in tutti quei casi in cui la manovra sull'orario non sia verosimilmente utile a ridurre, neppure in parte, la eccedenza di personale. La temporanea modifica peggiorativa, in via collettiva, del contenuto dei rapporti individuali, sostenuta dal concorso finanziario dello Stato e' apparsa come la via privilegiata di tutela degli interessi dei lavoratori.
2.8 Ove pero', come nella specie, manchi definitivamente l'intervento statale, la riduzione di orario, ancorche' pattuita nel contratto di solidarieta', non essendo sussumibile nella fattispecie configurata nella Legge n. 863 del 1984 articolo 1 non legittima la riduzione della retribuzione, per cui tutte le argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata sulla conformita' a legge dell'operato della societa' non possono superare il dato fattuale della mancata concessione della integrazione.
Ne' puo' essere invocata, come contrario indirizzo, la sentenza di questa Corte n. 1403 del 24 febbraio 1990, ove si e' affermato che la fattispecie di cui alla Legge n. 863 del 1984 articolo 1 costituisce una ipotesi eccezionale di efficacia generale del contratto aziendale, giustificata dai vantaggi occupazionali previsti, giacche', nella logica della sentenza, questa affermazione era destinata a valere per l'ipotesi normale di contratto di solidarieta' e cioe' quello cui segua il provvedimento ministeriale di ammissione alla cassa integrazione.
2.9 Va quindi accolto il secondo motivo di ricorso, con assorbimento del terzo e del quarto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata.
Non essendovi necessita' di ulteriori accertamenti in fatto, non essendo stati contestati i conteggi effettuati con la consulenza di primo grado, la causa puo' essere decisa nel merito, dopo avere pero' preliminarmente risolto la questione, sollevata dalla societa' nei gradi di merito e riproposta in controricorso, per cui le somme riconosciute ai lavoratori non dovrebbero essere sottoposte a contribuzione, dovendo essere erogate, secondo la sentenza di primo grado, a titolo di risarcimento danni, dal momento che il Decreto Legislativo 2 settembre 1997, n. 314 articolo 6 comma 4, lettera c), che determina la retribuzione imponibile ai fini contributivi, esenta da contribuzione le somme percepite a titolo di risarcimento danni.
2.10 La prospettazione della societa' e' erronea dovendosi riconfermare la statuizione di primo grado sul punto. Vanno infatti applicati i principi previdenziali per cui la contribuzione va pagata sulle retribuzioni "dovute" ai lavoratori e nella specie, non essendo valido il contratto di solidarieta' diretto a ridurre l'orario di lavoro, la retribuzione "dovuta" era quella corrispondente all'orario di lavoro pieno (restando irrilevante, nei confronti dell'ente previdenziale, che il primo Giudice abbia condannato la societa' a pagare, non gia' la retribuzione integrale, ma solo le somme corrispondenti alla cassa integrazione non percepita).
D'altra parte, diversamente opinando, gli attuali ricorrenti, non potendo giovarsi della contribuzione figurativa prevista dalla Legge n. 863 del 1984 (articolo 1, comma 4) a causa del mancato intervento della cassa integrazione, si troverebbero ad avere un vuoto contributivo corrispondente alle ore di riduzione di orario, di talche', in ogni caso, il risarcimento danni che la citata Legge del 1997, esenta da contribuzione non si puo' riferire alla fattispecie per cui e' causa.
Conclusivamente, rigettato il primo motivo, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, che determina l'assorbimento del terzo e quarto, la sentenza impugnata va cassata e decidendo nel merito, la domanda proposta dagli attuali ricorrenti va accolta nei termini di cui alle due statuizioni di primo grado, anche quanto alla disciplina delle spese. Le spese del giudizio d'appello vengono compensate tra le parti, mentre la societa' va condannata alle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta dagli attuali ricorrenti nel ricorso introduttivo nei termini di cui alla sentenza primo grado. Compensa le spese del giudizio d'appello e condanna la societa' al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in euro 25,00 oltre tremila euro per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.