l nesso di causalità tra il mobbing ed il danno alla salute subito dal lavoratore non è escluso

Qualora l'illecito comportamento del datore di lavoro, consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente (cd. mobbing), abbia cagionato a quest'ultimo un danno alla salute, l'eventuale fragilità del lavoratore o la preesistenza di disturbi psichici non valgono ad interrompere il nesso causale tra l'affezione riscontrata e le molestie subite, dovendosene invece tenere conto ai fini della valutazione del danno.
E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 29 agosto 2007, n. 18262, con la quale il collegio si è pronunciato sul caso di un lavoratore la cui "predisposizione paranoide" non è stata ritenuta idonea a spezzare il collegamento eziologico esistente tra il danno psichico subito dal dipendente e i comportamenti persecutori posti in essere dai colleghi, di cui erano a conoscenza i responsabili aziendali.
l nesso di causalità tra il mobbing ed il danno alla salute subito dal lavoratore non è escluso




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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza non definitiva del 14 aprile 2003 la Corte d'appello di Roma, riformando parzialmente la statuizione di primo grado, condannava la Ba. Po. di. No. al risarcimento, a favore di La.Al., del danno da dequalificazione professionale in misura pari al 50% del trattamento economico corrisposto per il periodo da 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998, dichiarava la nullita' delle note caratteristiche per l'anno 1996 e disponeva con separata ordinanza in ordine alla prosecuzione del processo. Indi, espletata consulenza medica, con la sentenza definitiva in epigrafe indicata, condannava il medesimo il Ba. Po. di. Ve. e. No. (a seguito di fusione tra la Ba. Po. di. No. e la Ba. Po. di. Ve.) al pagamento della somma di euro 37.000,00 a titolo di risarcimento del danno biologico.

La Corte territoriale affermava preliminarmente che era ormai passata in giudicato, a seguito del rigetto del ricorso per Cassazione proposto dal Banco, la statuizione di cui alla sentenza non definitiva, secondo la quale gli episodi denunciati dal lavoratore erano stati confermati nel corso dell'istruttoria, da cui era emersa "una situazione lavorativa per l'appellante quanto mai difficile" ed era stata ammessa la richiesta consulenza medico legale "essendo la situazione lavorativa del La. astrattamente idonea a determinare l'insorgenza della patologia di cui trattasi". Precisava infatti la Corte territoriale che lo stesso Giudice di legittimita' aveva espressamente attribuito natura di sentenza alla affermazione contenuta nella pronuncia non definitiva relativa al nesso di causalita' ed alla responsabilita' della parte datoriale in ordine alla domanda di risarcimento del danno, dovuto al comportamento integrante il mobbing subito dal lavoratore. Rilevato quindi che l'unico thema decidendum residuale atteneva all'esistenza del nesso di causalita' tra la situazione lavorativa e le patologie denunciate ed alla successiva quantificazione della pretesa risarcitoria, la Corte di Roma, dava atto che la prima consulenza espletata, avendo negato il collegamento tra la situazione lavorativa e la patologia, non aveva risposto compiutamente al quesito, perche' non aveva tenuto conto degli episodi narrati dal lavoratore, e ritenuti provati dalla sentenza non definitiva, per cui il medesimo era stato continuamente oggetto di scherzi verbali e di azioni di disturbo, che erano a conoscenza del superiore diretto, il quale pero' non si era adoperato per la loro cessazione. Indi la Corte si riportava alle conclusioni della seconda consulenza collegiale disposta, che si era conclusa con la diagnosi di "disturbo post traumatico da stress" ed aveva ritenuto tale patologia, da cui derivava un danno biologico nella misura del 10%, "compatibile con una situazione di mobbing". La consulenza infatti aveva tratto la prova del nesso causale dall'assenza di antecedenti psichiatrici nella storia del lavoratore e dalla loro insorgenza nel giugno del 1996, nel quadro di una reazione all'abbiente ed alle condizioni di lavoro particolarmente frustranti, ne' eventuali antecedenti della personalita', tali da rendere il lavoratore piu' fragile, potevano impedire il configurarsi del mobbing, che si esplica proprio nell'assalto concentrico del gruppo sul piu' debole. La Corte territoriale affermava poi che il danno biologico o danno alla salute cagionato dal mobbing, attenendo alla lesione dell'integrita' psico fisica, non poteva che essere liquidato in via equitativa, ed avuto riguardo alla percentuale di invalidita' permanente del 10% accertata dal collegio peritale, nonche' alle tabelle in uso, condannava il Banco al pagamento a tale titolo della somma omnicompresiva di trentasettemila euro, oltre interessi di legge dalla data della sentenza al saldo.

Avverso detta sentenza il Ba. Po. di. Ve. e. No. S.c.a.r.l propone ricorso affidato a nove motivi. Resiste il La. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denunzia violazione degli articoli 2909 e 2087 c.c., e difetto di motivazione in ordine alla portata del giudicato ravvisato dai Giudici di merito. Il giudicato formatosi con la sentenza di questa Corte n. 6326/2005, di rigetto del ricorso proposto avverso la sentenza non definitiva, non potrebbe essere interpretato come confermativo di una situazione di mobbing, dovendo invece detta pronuncia essere compresa alla luce del costante orientamento di legittimita', il quale afferma che il mobbing si configura come illecito del datore consistente in una condotta protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente, mentre, non essendo ravvisabile, nella specie, alcun comportamento persecutorio posto in essere da esso datore di lavoro, la citata pronuncia di questa Corte non potrebbe essere interpretata nel senso di addebitare ad esso Banco la patente di "mobber" ma al piu' come attribuzione dell'obbligo giuridico di provvedere in dipendenza di una responsabilita' altrui, e cioe' in dipendenza della responsabilita' dei colleghi di lavoro.

Con il secondo motivo si denunzia la violazione delle medesime disposizioni sotto ulteriore profilo, unitamente al difetto di motivazione. Si sostiene che nessun giudicato potrebbe discendere dalla sentenza non definitiva, perche' questa, come interpretata dalla citata pronunzia di legittimita', avrebbe solo disposto l'accertamento peritale, avendo affermato che il giudizio sul risarcimento del danno biologico era correlato al triplice accertamento della esistenza della patologia denunciata, del nesso causale e dell'esistenza di un comportamento antigiuridico ascrivibile alla parte datoriale. Detta indagine avrebbe dovuto essere puntualmente espletata, non essendo sufficiente l'esistenza di un complessivo comportamento antigiuridico, ma essendo invece necessaria la prova degli episodi contestati.

Con il terzo mezzo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c. e articoli 112 e 115 c.p.c., nonche' per difetto di motivazione, per avere individuato come superiore diretto, e quindi tenuto a dare informazioni ai vertici degli atti di disturbo posti in essere nei confronti del La., il capo contabile della ragioneria, il quale era invece estraneo al settore di appartenenza del lavoratore, non essendo il responsabile del servizio. Non sarebbe stata resa alcuna motivazione su dette obiezioni gia' sollevate da esso ricorrente, donde il difetto di motivazione e l'impossibilita' di attribuire ai vertici aziendali la conoscenza delle pretese vessazioni.

Con il quarto mezzo, reiterandosi la censura, sotto altro profilo, di violazione dell'articolo 2909 c.c., e difetto di motivazione, si lamenta non essere stato considerato che nella stessa consulenza fatta propria dai Giudici di merito risultava, dall'esame condotto su scale cliniche, che il punteggio del La. indicava un predisposizione paranoide, ossia una personalita' ipersensibile alle reazioni degli altri, sospettosa e piena di risentimento; lo stesso atteggiamento peraltro emergeva anche dalla consulenza espletata nella causa intesa ad ottenere le prestazioni di invalidita' dell'Inps e dalle reazioni sproporzionate risotto ad eventi intesi come persecutori ma in realta' irrilevanti, come, nel 1996, la mancata contabilizzazione di una carta di credito; come, nel gennaio 1998, il trasferimento in altra sede posta ad una modestissima distanza dalla precedente; come, ancora, un irregolare addebito di diecimila lire per l'uso del bancomat; tutti questi fattori, sostiene il ricorrente, ancorche' riferiti dal collegio peritale, non erano stati poi presi in considerazione ai fini della formazione del parere conclusivo.

Inoltre gli stessi consulenti avevano affermato che il periziando sarebbe stato oggetto di mobbing, meritevole del risarcimento del danno biologico, solo ove le dichiarazioni del lavoratore fossero risultate veritiere, rimettendo ai giudicanti detto accertamento, il quale in realta' non era stato mai compiuto, ne' sui singoli episodi, ne' sulla loro valenza persecutoria complessiva.

Con il quinto mezzo si denunzia violazione dell'articolo 2697 c.c. e articolo 191 c.p.c., nonche' difetto di motivazione, perche' i consulenti avrebbero, contraddittoriamente, affermato da un lato che non era dimostrato il precedente psico patologico, e, dall'altro, che i primi rilievi di psicologia documentabili risalivano al 1996. Altrettanto illogica sarebbe l'affermazione dei periti per qui, anche se il precedente psicopatologico fosse dimostrato, "nulla toglierebbe all'evidenza mobbing", trattandosi appunto di accertare se il La. fosse sofferente di esiti di mobbing, ovvero fosse sofferente di una malattia psichica.

Con il sesto motivo si reiterano le medesime censure, perche' i consulenti avrebbero subordinato il loro parere alla effettiva esistenza degli episodi lamentati dal dipendente, che non erano invece stati accertati.

Con il settimo mezzo si reiterano le medesime censure, di cui al motivo precedente, sottolineandosi ancora che era mancata la verifica sull'esistenza degli episodi allegati dal lavoratore, a cui i consulenti avevano condizionato il loro parere.

Con l'ottavo motivo si deducono ancora le dette censure, perche' la consulenza non avrebbe accertato l'esistenza di una malattia, giacche' i test effettuati sarebbero idonei solo a denunziare l'esistenza di turbe nel profondo della psiche, che potrebbero non manifestarsi e restare compensate o silenti.

Con il nono ed ultimo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli articoli 1223 e 2043 c.c., nonche' difetto di motivazione, perche' allorquando erano stati posti in essere i comportamenti lamentati, essa societa' non esisteva ancora, essendo stata costituita, con decorrenza dal 2 giugno 2002, a seguito di fusione tra la Ba. Po. di. Ve. e la Ba. Po. di. No., la quale ultima non aveva mai vessato il proprio collaboratore, com'era stato gia' dedotto nel ricorso per Cassazione.

Si dovrebbe quindi concludere che esso Banco, essendo sicuramente estraneo al comportamento lesivo, venga chiamato a rispondere unicamente quale "erede" a titolo universale del soggetto responsabile.

Il ricorso non merita accoglimento.

I primi tre motivi, che attengono alla portata del giudicato formatosi sulla sentenza non definitiva, come interpretato dalla pronuncia definitiva oggetto del presente giudizio, non sono fondati, giacche' pretendono di porre nuovamente in discussione questioni ormai definitivamente accertate.

1. La sentenza di questa Corte n. 6326 del 2005, con cui e' stato rigettato il ricorso proposto dal Barico avverso la sentenza non definitiva n. 1623 del 2003, ha infatti affermato: a) la natura di "sentenza" della statuizione dei Giudici di merito relativa al "nesso di causalita'" ed alla "responsabilita' della parte datoriale" in ordine al comportamento integrante "mobbing" (punto 4.4.1.), perche' la Corte territoriale aveva accertato e dichiarato che era stata posta in essere una condotta, imputabile all'azienda, che era elemento costitutivo della fattispecie del "mobbing" (punto 4.4.1); che infatti i Giudici avevano accertato non solo il "demansionamento", ma anche che vi era stato "un globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro" Consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell'ambito lavorativo, denunziati e sostanzialmente confermati nel corso dell'istruttoria espletata (punto 4.4.3); b) accertata la natura di sentenza di queste statuizioni, la Corte di legittimita' ha rigettato il quarto motivo di ricorso, che il Banco aveva nozionisticamente proposto avverso le seguenti affermazioni contenute a pag. 7 della sentenza non definitiva: "Fermo restando l'approfondimento di tale tematica in sede di pronuncia definitiva, va osservato che gli episodi denunciati sono stati sostanzialmente confermati nel corso dell'espletata istruttoria, da cui e' indubbiamente emersa una situazione lavorativa per l'appellante quanto mai difficile, in quanto i rapporti personali con gli altri dipendenti erano diventati "particolarmente tesi" (teste Su.) ed era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo via via appesantitisi nel tempo e di cui era certamente a conoscenza il capo contabile della ragioneria il quale non si adopero' perche' cessassero" (teste Ca.) ".

2. Stante quindi il rigetto del quarto motivo di ricorso per Cassazione, risultano ormai intangibili le proposizioni sopra riportate come aventi contenuto decisorio, e quindi che gli episodi persecutori lamentati dal La. erano stati effettivamente posti in essere dai colleghi di lavoro e risulta altrettanto irretrattabile che di cio' fossero a conoscenza i responsabili aziendali, i quali erano pienamente coinvolti dai comportamenti scorretti dei loro collaboratori, avendo la sentenza di questa Corte corroborato la responsabilita' datoriale, ravvisata dai giudici di merito, con il richiamo all'articolo 2087 c.c., ed ai principi costituzionali sulla salvaguardia della dignita' e dei diritti fondamentali del lavoratore sul luogo di lavoro.

3. Risultano quindi inammissibili sia le censure di cui al secondo e terzo motivo, sia quelle reiteratamente svolte nell'ultima parte del quarto, nel sesto e nel settimo motivo, perche' tutte volte a contestare l'esistenza di prova sui singoli episodi "mobbizzanti", mentre e' ormai stato accertato, con forza di giudicato, il concreto verificarsi dei comportamenti di disturbo, nonche' la responsabilita' del capo contabile della ragioneria, come idonea a coinvolgere i vertici aziendali.

4. Sono invece inidonee a scalfire il decisum della sentenza impugnata le censure svolte nel primo e nel nono motivo, in cui si sostiene che non potrebbe attribuirsi ad esso ricorrente la patente di "mobber"; si rileva infatti che la responsabilita' del Banco e' stata ravvisata, non gia' in quanto soggetto direttamente agente a danno del proprio dipendente, ma per non essersi attivato per la cessazione dei comportamenti scorretti posti in essere dai suoi collaboratori, il che e' pero' sufficiente per radicare il suo obbligo al disposto risarcimento del danno, danno posto a carico dell'odierno ricorrente in quanto erede, in ragione della avvenuta fusione, dell'originario datore di lavoro.

5. Non sono fondati neppure gli altri motivi volti a censurare le conclusioni cui e' pervenuto il collegio peritale.

Quanto alle doglianze di cui alla prima parte del quarto motivo, la consulenza cui la sentenza impugnata si richiama, ha espressamente fatto riferimento alle risultanze dei test a cui lo specialista psichiatra, incaricato dal collegio peritale medesimo, ha sottoposto il dipendente; non puo' quindi sostenersi che non siano stati valutati i relativi dati, da cui emergeva la "predisposizione" paranoide, di talche' la censura, essendo sostanzialmente tesa ad avvalorare uno dei dati a danno degli altri, si traduce in mero dissenso diagnostico ed e' quindi inammissibile in questa sede. Le stesse considerazioni valgono a rigettare le censure mosse con l'ottavo motivo. Parimenti non accoglibili sono le altre doglianze, in quanto intese a minimizzare la gravita' gli episodi di disturbo di cui il dipendente e' stato oggetto, dal momento che la loro capacita' offensiva e' stata invece ravvisata dalla consulenza, che ha definito l'affezione del dipendente come disturbo post-traumatico da stress compatibile con situazione occupazionale anamnesticamente vissuta come avversativa. Cosi' concludendo il collegio peritale ha quindi ben tenuto presente i tratti della personalita', sottolineati in ricorso, che rendevano il periziando particolarmente fragile, ma ha anche ritenuto che detta fragilita' non valesse ad interrompere il collegamento eziologico tra la affezione riscontrata e le molestie subite, avendo precisato che una eventuale preesistenza di disturbi psichici poteva determinare un peso particolare e peculiare nella valutazione del danno, non nella determinazione del nesso di causalita'. Ed in questo tipo di accertamento non si ravvisano errori tali da condurre all'annullamento della pronunzia che ad esso si e' richiamata, dal momento che gli errori e le lacune della consulenza, per determinare il vizio di motivazione della sentenza e' necessario che si traducano in carenze o deficienze diagnostiche o in affermazioni illogiche o scientificamente errate (tra le tante Cass. n. 7341 del 17/04/2004), la cui esistenza a ben vedere non e' stata neppure dedotta in ricorso.

6. In particolare, infondato e' il quinto motivo, giacche' nessuna contraddittorieta' e' evincibile nel ragionamento dei periti per cui non vi erano stati segni di disagio psico-fisico prima del 1996, neppure in occasione di precedenti eventi dotati di alto rischio di scompenso psichico, ma solo allorquando era insorto il quadro di reazione all'ambiente lavorativo. Ne' infine si ravvisano incongruenze nella valutazione dei periti che, pur tenendo presente, come gia' rilevato, i tratti della personalita' del dipendente che lo rendevano oltremodo sensibile alle reazioni altrui, hanno comunque concluso che il quadro clinico era compatibile con una situazione di mobbing, Ove accertata la veridicita' dei fatti avversativi riferiti, e detto accertamento deve ritenersi ormai compiuto a seguito della formazione giudicato.

In definitiva in ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

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