La colf "a nero" che fotografa l'abitazione del datore di lavoro per servirsi delle foto nella causa di lavoro, commette reato

La precostituzione, mediante mezzi illeciti, di una prova non decisiva da utilizzare nella causa di lavoro, non integra la scriminante di cui all'articolo 51 c.p., potendo il diritto di difesa essere esplicato più efficacemente con altri mezzi legittimi.
E' quanto enunciato dalla Corte Suprema di Cassazione che, con sentenza del 2 ottobre 2007, n. 36068, ha respinto il ricorso promosso da una Colf "a nero", rea di aver fotografato l'abitazione del proprio datore di lavoro. La S.C. ha precisato che "La corte territoriale non aveva l'obbligo di motivare circa la mancata concessione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, essendo tale circostanza palesemente insussistente, per non essere stata la condotta dell'imputata ispirata a finalita' avvertite dalla prevalente coscienza collettiva come altamente nobili e di spiccata elevatezza".



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MOTIVI DELLA DECISIONE

Con sentenza del 7.2.2007 la corte d'appello di Catania confermava la sentenza del Tribunale di Giarre in data 10.3.2006, che aveva dichiarato VA. Ro. colpevole del reato di cui agli articoli 110 e 615 bis c.p., (per essersi, in (OMESSO) nel (OMESSO), in concorso con persona non identificata, indebitamente procurato, mediante l'uso di strumenti di captazione visiva e segnatamente attraverso l'esecuzione di cinque riprese fotografiche, immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nella privata dimora di Cu. Gr.) e, con le attenuanti generiche, aveva condannato la medesima VA. alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi sei di reclusione, nonche' al risarcimento generico dei danni in favore della parte civile costituita.

Avverso la summenzionata sentenza della corte d'appello di Catania la VA. proponeva, per mezzo del difensore, ricorso per cassazione, deducendo: 1) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento al mancato proscioglimento dell'imputata per difetto della querela di Cu. Gr., unica persona offesa dal reato contestato; 2) erronea applicazione della legge penale con riferimento all'insussistenza di quest'ultimo reato, giacche' la causa di lavoro intentata dall'imputata sarebbe stata decisa non sulla base delle fotografie incriminate, ma sulla scorta delle prove testimoniali e delle ammissioni della parte resistente; 3) erronea applicazione del reato di cui all'articolo 615 bis c.p., per l'operativita', nella specie, della scriminante ex articolo 51 c.p., in quanto l'utilizzo delle fotografie nella causa di lavoro sarebbe stata giustificata dalla tutela di un interesse superiore o di pari dignita' rispetto a quello leso e cioe' il riconoscimento del rapporto di lavoro di "badante"; 4) erronea applicazione della legge penale con riferimento alla mancanza di prova del dolo nel l'imputata, poiche' le fotografie sarebbero state effettuate nell'abitazione esclusiva della Cu., il cui consenso non sarebbe stato da escludere; 5) erronea applicazione della legge penale con riferimento alla mancata concessione dell'attenuante ex articolo 62 c.p., n. 1, nonche' del beneficio della non menzione della condanna.

Il ricorso deve essere rigettato.

Il primo motivo e' infondato.

La sentenza di primo grado (integrativa di quella impugnata) ha precisato correttamente che anche la querelante Be. Ri. era persona offesa dal reato de quo, in quanto abitava con la madre Cu. Gr. in un unico appartamento indiviso.

Ed invero, titolare dell'interesse protetto dalla norma di cui all'articolo 615 bis c.p., non e' soltanto il soggetto direttamente attinto dall'abusiva captazione delle immagini o notizie ovvero immediatamente coinvolto nella loro diffusione, ma anche chiunque faccia parte, nel luogo violato, di un nucleo privato con diritto alla riservatezza (Cass. Sez. 5, 16.4.2003 n. 18058).

Il secondo motivo non e' stato dedotto con i motivi di appello e, comunque, e' manifestamente infondato.

La circostanza che la causa di lavoro sarebbe stata decisa non sulla base delle fotografie, ma sulla scorta delle prove testimoniali raccolte e delle dichiarazioni rese dalla resistente e' del tutto ininfluente ai fini della sussistenza del reato in esame.

Il terzo motivo e' privo di fondamento.

La precostituzione, mediante mezzi illeciti, di una prova non decisiva, da utilizzare nella causa di lavoro, non integra la scriminante di cui all'articolo 51 c.p., potendo il diritto di difesa essere esplicato piu' efficacemente, in detta causa, con altri mezzi legittimi.

Anche il quarto motivo e' destituito di fondamento.

E' stato gia' sopra evidenziato che l'appartamento, in cui erano state eseguite le fotografie incriminate, era abitato sia dalla Cu. che dalla Be..

Quest'ultima, inoltre, come si evince dalla sentenza di primo grado, ha dichiarato che la madre, per le sue condizioni di salute, non era in grado di dare il consenso all'imputata di scattare le fotografie.

Il quinto motivo e' parimenti infondato.

La corte territoriale non aveva l'obbligo di motivare circa la mancata concessione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, essendo tale circostanza palesemente insussistente, per non essere stata la condotta dell'imputata ispirata a finalita' avvertite dalla prevalente coscienza collettiva come altamente nobili e di spiccata elevatezza.

Per quanto concerne, infine, il mancato riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, deve essere rilevato che la concessione del detto beneficio e' rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, il quale non e' tenuto ad indicare di volta in volta le ragioni per cui non ritiene di doversene avvalere.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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