La falsa attestazione del pubblico dipendente , circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta idonea ad intregare la truffa

La falsa attestazione del pubblico dipendente , circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata. Per tale ragione sono leciti i controlli posti in essere nei loro confronti e ciò anche se questi consistono nel pedinamento da parte di un investigatore privato e, nel caso di accertata violazione dei loro doveri, rischiano una condanna per truffa. (Corte di Cassazione Sezione 2 Penale, Sentenza del 2 dicembre 2008, n. 44912)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo - Presidente

Dott. FIANDANESE Franco - Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria - Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato - Consigliere

Dott. IASILLO Adriano - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

So. Pr., (n. il (OMESSO));

avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce, Sezione Penale, in data 02/04/2008;

Sentita la relazione della causa fatta, in Pubblica Udienza, dal Consigliere Dr. Adriano Iasillo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dr. Mura Antonio, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Udito il difensore che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

OSSERVA

Con sentenza del 06/07/2006, il Tribunale di Lecce - Sez. di Campi Salentina - dichiaro' So. Pr. responsabile del reato di cui all'articolo 640 c.p., comma 2, n. 1, (capo A: Truffa aggravata ai danni del Comune di Novoli: firmava il registro delle presenze e poi si allontanava e andava a lavorare presso il suo esercizio commerciale), ed esclusa l'aggravante dell'abuso di prestazione di opera - concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti - lo condanno' alla pena di mesi 6 di reclusione e euro 200,00 di multa.

Avverso tale pronunzia l'imputato propose gravame, ma la Corte d'appello di Lecce, con sentenza del 02/04/2008, confermo' la decisione di primo grado.

Ricorre per Cassazione l'imputato deducendo:

1) articolo 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione del Testo Unico Enti Locali, articolo 109 (Decreto Legislativo n. 267 del 2001) in relazione agli articoli 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999 (Contratto relativo alla revisione del sistema di classificazione del personale del comparto Regioni -Autonomie Locali).

La difesa del ricorrente, con tale primo motivo, evidenzia che il So. non esercitava - parallelamente a quella di pubblico dipendente - un'autonoma attivita' commerciale, in quanto il " Mo. So. " apparteneva alla figlia dell'imputato che lo gestiva direttamente avendo anche un idoneo titolo di studio (laurea in architettura). La difesa del ricorrente sostiene, poi, che il So. all'epoca dei fatti svolgeva a tutti gli effetti l'incarico di dirigente del Comune di (OMESSO) e come tale non era vincolato all'orario (36 ore lavorative settimanali), ma ai risultati conseguiti. A riprova di cio' adduce: le dichiarazioni del Segretario generale e del Sindaco dello stesso Comune; il fatto che il So. avesse una retribuzione onnicomprensiva, con esclusione del riconoscimento del lavoro straordinario; che i risultati raggiunti dall'imputato erano soggetti ad una valutazione annuale e in caso di esito positivo di tale valutazione lo stesso aveva diritto ad una retribuzione di risultato (tra l'altro sempre percepita dal So.).

La difesa del ricorrente sottolinea che in ogni caso - prescindendo, quindi, dalle diverse e contrastanti interpretazioni sul ruolo svolto dal So., confermato nella settima qualifica funzionale (funzionario di categoria D) con profilo di Capo Settore AA. GG. - quanto sopra era quello che il So. riteneva essere corretto e cio' incide, con evidenza, sull'elemento psicologico del reato.

2) articolo 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione dell'articolo 640 c.p.p., comma 2, n. 1, in relazione all'articolo 43 c.p. e articolo 47 c.p., comma 3, o subordinatamente agli articoli 5 e 43 c.p. essendo stato ritenuto sussistente l'elemento psicologico del reato.

Con questo secondo motivo di ricorso, la difesa dell'imputato approfondisce quanto gia' sopra accennato. In buona sostanza il ricorrente sostiene che seppure non si dovesse condividere l'interpretazione della disciplina giuridica del ruolo svolto dal So., sarebbe evidente che questi versi in una tipica situazione di errore sulla legge extra penale di cui all'articolo 47 c.p., comma 3.

Se poi si dovesse ritenere che le disposizioni legislative che disciplinano l'operato e i doveri dei pubblici ufficiali o degli incaricati di un pubblico servizio non hanno natura di norme extra penali, allora la situazione sopra esposta rientrerebbe in pieno in una delle ipotesi scriminanti individuate - in relazione all'articolo 5 c.p. - nella Sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Infatti alla luce di quanto evidenziato nel primo motivo di ricorso (assenza di norme che contraddicano l'interpretazione data al combinato disposto del Testo Unico Enti Locali, Decreto Legislativo n. 267 del 2001, articolo 109 e articoli 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999; dichiarazioni Segretario Generale e Sindaco del Comune), sarebbe evidente che il So. abbia agito nella piu' assoluta buona fede e nella piena convinzione della liceita' del suo comportamento. Verserebbe, quindi, in una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex articolo 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra.

3) articolo 606 c.p.p., lettera B).

Erronea applicazione dell'articolo 640 c.p.p. sotto altro profilo.

Secondo la difesa del ricorrente, in base alle prove raccolte, mancherebbero, nel caso di specie, gli artifizi e raggiri, essendo noto ai superiori del So. il suo comportamento ed essendo irrilevante la sua presenza fisica in ufficio, contando solo i risultati. In ogni caso qualora alla P.O. siano noti gli artifizi e raggiri non si puo' parlare di truffa (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

Mancherebbe, infine, anche il danno e l'ingiusto profitto. Infatti il danno che deve essere economico ed effettivo non si e' verificato nel caso di specie (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

4) articolo 606 c.p.p., lettera C). Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilita' (articolo 191 c.p.p.) in quanto la decisione si fonda su prove acquisite in violazione del divieto discendente dal combinato disposto della Legge n. 300 del 1970, articoli 2 e 3 e articolo 13 Cost..

La difesa del ricorrente eccepisce l'inutilizzabilita' degli accertamenti effettuati dalla P.G. che hanno portato all'incriminazione del So., perche' posti in essere in violazione della Legge n. 300 del 1970, articoli 2 e 3 e articolo 13 Cost..

La difesa del ricorrente conclude, pertanto, per l'annullamento con o senza rinvio dell'impugnata sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso e' inammissibile per violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, perche' propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimita', la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti ne' deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia, come nel caso di specie, compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilita' di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4, sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5, sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2, sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Inoltre il ricorso e' inammissibile anche per violazione dell'articolo 591 c.p.p., lettera c) in relazione all'articolo 581 c.p.p., lettera c), perche' le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell'atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di merito ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilita' del ricorrente per il delitto di cui sopra.

Invero la Corte di appello, richiamando anche le motivazioni del Tribunale, ha correttamente rilevato - contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso - che: 1) il mobilificio risulta nella titolarita' di So. Ri., ma nell'effettiva gestione della figlia dell'imputato (pagina 4 impugnata sentenza). Sul punto si deve comunque sottolineare che la contestazione non ha per oggetto io svolgimento, da parte del So., di un'attivita' parallela a quella di pubblico dipendente, ma il fatto di far apparire di essere al lavoro (avendo firmato il registro delle presenze o timbrato il cartellino marcatempo) mentre in realta' si trovava altrove (nel caso di specie nel mobilificio gestito dalla figlia). Ed e' proprio per questo fatto che e' stato condannato; 2) che il So. era un funzionario (settima qualifica funzionale) e non un dirigente - come sostenuto dal ricorrente - tenuto al rispetto dell'orario di lavoro prestabilito. Il Giudice di merito ricava quanto sopra (pagine 5 e 6 dell'impugnata sentenza), non solo da un accurato esame del contratto e delle norme che lo regolano, ma anche da vari importanti e inequivoci fatti: chiarimento fornito dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni che ha specificato come il vigente contratto di lavoro dei dipendenti pubblici non attribuisca ne' al datore di lavoro ne' al dipendente il potere o il diritto all'autogestione dell'orario di lavoro settimanale (consentito al solo personale dirigenziale) e come al capo settore (qualifica rivestita dal So.) l'indennita' integrativa speciale sostituisca l'eventuale lavoro straordinario svolto; comunicazione del Segretario Generale del Comune di (OMESSO) al So., del numero di ore che lo stesso doveva recuperare a conferma dell'obbligo del rispetto dell'orario di lavoro; dichiarazione dello stesso Segretario Generale del Comune di (OMESSO) che ha spiegato come ad un funzionario inquadrato nella settima qualifica funzionale (categoria D) possono essere attribuite alcune funzioni proprie dei dirigenti senza che cio' comporti la qualifica di dirigente (d'altronde questa considerazione del teste e' supportata dal fatto che nel contratto che attribuisce al So. tali funzioni, si specifica che viene confermato l'inquadramento dell'imputato nella settima qualifica funzionale - categoria D - specificazione che logicamente esclude ogni dubbio sul fatto che il So. non fosse un dirigente); che il So., infatti, era tenuto alla firma del registro delle presenze o alla timbratura del cartellino marcatempo, operazione svolta dal ricorrente regolarmente e senza alcuna contestazione (contestazione che non vi e' stata neppure per le richieste di recupero ore, a conferma della sua piena consapevolezza di tale obbligo) a riprova che lo stesso imputato era pienamente cosciente di essere un funzionario e non gia' un dirigente. Tali fatti confermano la piena sussistenza dell'elemento psicologico del reato - come correttamente rilevato dalla Corte territoriale nelle pagine 7 e 8 - e che non puo' ravvisarsi alcun errore sulla legge extra penale di cui all'articolo 47 c.p., comma 3, o una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex articolo 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Invero il ricorrente ha firmato il registro delle presenze (o ha timbrato il cartellino marcatempo) e si e' poi assentato dal posto di lavoro piu' volte e per molte ore; se avesse ritenuto di non avere l'obbligo di rispettare l'orario di lavoro prestabilito avrebbe firmato il registro delle presenze solo alla fine dei suoi impegni personali e quando fosse stato di nuovo presente in ufficio. In effetti ha agito nel modo illecito di cui alla contestazione, avendo un evidente interesse economico a far risultare falsamente la sua presenza in ufficio, quando invece si trovava altrove per sbrigare suoi affari privati. Dalla ricostruzione di cui sopra emerge con chiarezza l'infondatezza delle altre censure della difesa del So. sulla mancanza degli artifizi e raggiri, del danno e dell'ingiusto profitto. Infatti tali censure - generiche e apodittiche - si fondano solo sulla diversa interpretazione data dall'imputato ai fatti di causa. Si deve osservare in proposito come sia indimostrata l'affermazione che la parte offesa fosse a conoscenza degli artifizi e raggiri. Invero il Sindaco del Comune ha solo riferito sulla disponibilita' e sull'impegno del So. (si vedano pagine 11 e 12 del ricorso) e il Segretario Generale ha invece confermato la qualifica di funzionario del So. e in concreto ha chiesto il recupero delle ore non lavorate dal ricorrente delle quali aveva avuto conoscenza. Non si riesce quindi a capire da quali dichiarazioni o atti la difesa del ricorrente abbia tratto il convincimento che i rappresentanti del Comune fossero a conoscenza degli artifizi e raggiri commessi dall'imputato. Non e' superfluo ricordare che la P.O. nel caso di specie e' il Comune e che i rappresentanti di un Ente pubblico non potrebbero mai "autorizzare" o accettare passivamente un comportamento illecito del proprio dipendente. Quindi se avessero saputo della truffa commessa dal So. e non avessero agito avrebbero commesso a loro volta un reato. Per quanto riguarda il danno - sul quale il ricorrente si limita a generiche affermazione di principio sempre collegate alla sua particolare interpretazione dei fatti - si rileva che, peraltro, il palese ingiustificato protrarsi della assenza dal posto di lavoro dell'imputato (accertato dalla P.G. in tutti i quattro giorni oggetto "dell'osservazione"), ha realizzato una sospensione di fatto del rapporto di impiego che ha necessariamente prodotto un danno patrimoniale per l'Ente, chiamato a retribuire "frazioni" delle prestazioni giornaliere non effettuate, e con l'ulteriore danno (patrimoniale - anche in relazione alla retribuzione di risultato decisa ogni anno dall'apposito Nucleo di Valutazione e sempre corrisposta al So. - e di immagine) correlato alla mancata presenza del dipendente (tra l'altro Capo Settore AA.GG.) nel posto di lavoro, rimasto cosi' sguarnito.

Circostanze tutte, quelle esposte, al cui risalto, agli effetti della configurazione del reato contestato, non puo' certo far velo l'eventuale difficolta' di quantificazione del danno, considerato che, nella specie, la relativa sussistenza ed apprezzabilita' in termini economici e' da reputarsi sussistente al di la di ogni ragionevole dubbio.

Si deve, infine, ricordare che questa Suprema Corte ha piu' volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, e' condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed e' dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata (Sez. 2, Sentenza n. 34210 del 06/10/2006 Ud. - dep. 12/10/2006 Rv. 235307).

Anche l'ultimo motivo di ricorso - inutilizzabilita' degli accertamenti effettuati dalla P.G., che hanno portato all'incriminazione del So., perche' posti in essere in violazione della Legge n. 300 del 1970, articoli 2 e 3 e articolo 13 Cost. - e' manifestamente infondato. Infatti il ricorrente insiste nel confondere - nonostante la Corte di appello abbia gia' motivato esaustivamente e in modo logico e non contraddicono sull'infondatezza di tale eccezione; nonostante il risultato delle indagini di P.G. sia stato acquisito dal Giudice di merito su concorde richiesta delle parti e nonostante il principio di tassativita' delle nullita' e dell'inutilizzabilita' - cio' che vale per i rapporti privatistici e cio' che vale in materia pubblicistica quale e' quella penale. Invero le particolari limitazioni contenute negli articoli 2 e 3 dello statuto dei lavoratori riguardano solo il datore di lavoro (e non gia' il soggetto pubblico P.G.) e all'interno di quel particolare rapporto di natura privatistica, nel quale il legislatore - nel contemperare le esigenze del datore di lavoro di tutela del patrimonio aziendale e del dipendente di svolgere liberamente e dignitosamente il suo lavoro - ha cercato di tutelare quest'ultimo, ritenuto soggetto "debole", da eventuali abusi. Si deve osservare che in ogni caso anche nell'ambito civilistico questa Suprema Corte ha stabilito il principio che "la prestazione d'opera da parte del lavoratore subordinato a favore di terzi concorrenti costituisce una violazione dell'obbligo di fedelta' che, se e' irrilevante sotto il profilo penale qualora compiuta fuori del normale orario di lavoro, integra il reato di truffa se svolta nell'orario normale, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli e' stato affidato, mentre svolge altra attivita'. Ne consegue che, ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell'azienda in realta' si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere, e' giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, ne' sono ravvisagli profili di illiceita' a norma della Legge n. 300 del 1970, articolo 2 comma 2, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell'attivita' lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attivita' e' in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell'attivita' lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti non inseriti nel normale ciclo produttivo. (Nella specie un istituto di credito aveva sottoposto a verifica l'operato di un suo funzionario incaricato di attivita' promozionale esterna, a causa dei sospetti suscitati dagli scarsissimi risultati conseguiti e l'aveva poi licenziato, essendo emerso che non intratteneva affatto i contatti personali indicati nei rapportini di servizio, pur non compiendo neanche attivita' a favore di terzi; questa S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con cui era stata rigettata l'impugnativa del licenziamento. Sez. L, Sentenza n. 10313 del 17/10/1998 - Rv. 519819 -). Inoltre "le disposizioni degli articoli 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori non implicano l'impossibilita' di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi da quelli in essi previsti (ad esempio investigatori privati) in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della liberta' della difesa privata" (Sez. L, Sentenza n. 10761 del 03/11/1997 - Rv. 509428 -) Infine "lo statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970), e specificamente i suoi articoli 2, 3 e 4, lungi dall'eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalita' di esercizio, privando la funzione di vigilanza dell'impresa degli aspetti piu' "polizieschi". In particolare non puo' contestarsi la legittimita' dei controlli posti in essere da dipendenti di un'agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l'appropriazione della somma incassata da parte dell'addetto alla cassa" (Sez. L, Sentenza n. 9576 del 14/07/2001 - Rv. 548199 -).

E' evidente che se addirittura il datore di lavoro, in presenza di fatti illeciti, puo' svolgere le attivita' di accertamento di cui sopra, nessuna limitazione puo' sussistere per la P.G. che in adempimento di un suo preciso dovere (articolo 55 c.p.p.) imposto dalla necessita' di tutelare la collettivita' dalla commissione degli illeciti piu' gravi previsti nel nostro ordinamento, quali, appunto, i reati, acquisisca e verifichi - come nel caso di specie - una "notitia criminis" con il compimento di atti che tra l'altro non hanno inciso minimamente sulla liberta' personale del So. e addirittura al di fuori del posto di lavoro. D'altronde e' lo stesso articolo 13 Cost. - invocato dal ricorrente - a prevedere la possibilita' di interventi della P.G. in campi e con provvedimenti ben piu' gravi (detenzione, ispezione e perquisizione) di un pedinamento e di un'osservazione. Sul punto questa Suprema Corte ha, tra l'altro, piu' volte affermato il principio condiviso dal Collegio, che le attivita' di osservazione, controllo e pedinamento svolte dalla polizia giudiziaria non sono intrusive della sfera privata, perche' non limitano, diversamente dalle ispezioni, dalle perquisizioni e dai sequestri, la liberta' morale del controllato. Tali attivita' vanno inquadrate nel novero dei mezzi destinati alla acquisizione di prove non disciplinate dalla legge, consentite dall'articolo 189 c.p.p., senza necessita' di decreto autorizzativo della autorita' giudiziaria (Sez. 6, Sentenza n. 2072 del 03/06/1998 Cc. - dep. 07/07/1998 - Rv. 212220).

A fronte di quanto sopra evidenziato il ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni del Corte di appello.

In proposito questa Corte ha piu' volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che e' inammissibile il ricorso per Cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non puo' ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificita', che conduce, ex articolo 591 c.p.p., comma 1, lettera c), all'inammissibilita' del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 - dep. 11.10.2004 - rv 230634).

Ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonche' -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilita' - al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di euro Mille, cosi' equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro Mille alla cassa delle ammende.

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