Per configurare la revoca del licenziamento occorre che il datore di lavoro dichiari di considerare il rapporto mai risolto de iure

Per configurare la revoca del licenziamento non è sufficiente il mero invito del datore di lavoro al lavoratore a riprendere servizio, ma occorre che il medesimo dichiari di considerare il rapporto mai risolto de iure, con il conseguente diritto del dipendente licenziato a percepire le retribuzioni maturate nelle more, sì da eliminare tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti dal recesso. Ne deriva che, in presenza di un'offerta che integri una vera e propria revoca, il rifiuto del lavoratore sarebbe da considerare contrario agli obblighi nascenti per il lavoratore dal comma 2 dell'articolo 1227 del Cc, in quanto, in tal caso, il danno costituito dal mancato pagamento delle retribuzioni maturate dopo l'offerta di reintegrazione formulata dal datore avrebbe potuto essere evitato, usando l'ordinaria diligenza, attraverso l'accettazione della proposta, sempre che l'osservanza del suddetto obbligo non risulti troppo onerosa per il lavoratore e non incida in misura apprezzabile sulla propria libertà di azione. (Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 25 febbraio 2008, n. 4769)



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATTONE Sergio - rel. Presidente

Dott. CUOCO Pietro - Consigliere

Dott. VIDIRI Guido - Consigliere

Dott. MAIORANO Francesco Antonio - Consigliere

Dott. LA TERZA Maura - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AV. AN., elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEGLI AVIGNONESI 5, presso lo studio dell'avvocato VISONE LODOVICO, rappresentata e difesa dall'avvocato POLVERINO Giorgio, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

MU. AL. quale titolare della omonima ditta, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GERMANICO 146, presso lo studio dell'avvocato VARALDI STEFANIA, rappresentato e difeso dagli avvocati IOELE LORENZO, DE NICOLA GENNARO, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1446/04 della Corte d'Appello di SALERNO, depositata il 24/12/04 - R.G.N. 812/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 17/12/07 dal Consigliere Dott. Pietro CUOCO;

udito l'Avvocato DE NICOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SALVI Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 16 dicembre 1998 Av.An. ha adito il Pretore di Sorrento lamentando di essere stata licenziata da Mu. Al., titolare del Centro Distribuzione Abbigliamento di (OMESSO), alle cui dipendenze prestava servizio in qualita' di commessa dal (OMESSO), in data 23 ottobre 1998, mentre erano in corso le pubblicazioni, poi seguite dalle nozze, ed ha chiesto che fosse dichiarata l'illegittimita' del licenziamento, con la conseguente condanna del convenuto sia a reintegrarla nel posto di lavoro, con ogni conseguenza di legge, sia al pagamento delle somme dovutele a vari titoli (straordinario, differenze retributive, festivita', ferie, ecc.) in relazione al dedotto rapporto di lavoro.

Accolta in primo grado la domanda, stante la nullita' dell'intimato licenziamento intervenuto in violazione della Legge n. 7 del 1963 ed affermata la continuita' giuridica del rapporto, da cui conseguiva, in assenza di prova circa l'aliunde perceptum, l'obbligo di corrispondere ad Av. le retribuzioni maturate dal momento del recesso sino all'effettiva reintegra, Mu. ha proposto appello avverso la sentenza del Pretore, deducendo in particolare - per quanto qui ancora interessa - che questi aveva omesso di tener conto della lettera dell'11 giugno 2001, con la quale egli aveva inutilmente invitato la controparte a riassumere servizio per il 25 giugno successivo, per cui avrebbe dovuto tutt'al piu' riconoscersi il risarcimento del danno sino alla data sopra indicata.

Con sentenza del 24 dicembre 2004 la corte d'appello di Salerno ha confermato la nullita' del licenziamento a causa di matrimonio, ma ha ritenuto tuttavia che la comunicazione datoriale del 25 giugno 2001, recante l'invito a riprendere servizio il 25 giugno "nel posto di lavoro precedentemente occupato", senza alcuna menzione della regolazione del contenzioso in atto (lettera peraltro seguita da altra missiva inviata ad Av. ed al suo legale due giorni dopo, in cui si precisava che "eventuali richieste di danni e quant'altro avrebbero, in mancanza di accordo, trovato sfogo nella sede giudiziaria") configurava il "sostanziale intento revocatorio del licenziamento"; e che, per altro verso, il rifiuto da costei opposto era "tale da configurare pure un aggravamento del danno, evitabile usando l'ordinaria diligenza (articolo 1227 c.c., comma 2"). Ed in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato l'appellante al pagamento in favore di Av. delle retribuzioni non percepite dalla data del licenziamento al 25 giugno 2001.

Nei confronti di tale pronunzia Av.An. ha proposto ricorso per Cassazione, formulando un unico, articolato motivo. Mu. ha resistito mediante controricorso illustrato da memoria difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l'unico motivo di ricorso Av.An. denuncia violazione e falsa applicazione della Legge n. 7 del 1963 articolo 1 e dell'/A> articolo 1227 cod. civ., comma 2, in relazione all'articolo 360 c.p.c., n. 3, nonche' motivazione insufficiente. Deduce che la conclusione cui e' pervenuta la corte d'appello si pone in aperto contrasto con il principio, piu' volte enunciato da questa Corte, secondo cui il datore di lavoro che voglia revocare il licenziamento ha l'obbligo di offrire al lavoratore una completa restituito in integrum, tale da poter considerare il rapporto come mai interrotto a tutti gli effetti, si' che, in mancanza (ed ove, in particolare, la revoca non sia stata accompagnata dall'offerta delle retribuzioni maturate dopo il licenziamento), la revoca stessa vale come mera proposta contrattuale, condizionata, quindi, all'adesione dell'oblato. Osserva al riguardo che nella specie l'invito a riprendere il lavoro, a lei rivolto, non eliminava affatto i pregiudizi - giuridici ed economici - subiti a causa del licenziamento, non contenendo alcun riferimento ad una volonta' datoriale di considerare l'intervenuta interruzione del rapporto tamquam non esset e contenendo, al contrario, al pari della missiva poi spedita al suo legale, l'espressa affermazione della legittimita' della risoluzione e la rimessione alla sede giudiziaria della determinazione "di eventuali danni e/o altre richieste". Ed afferma in via conclusiva che del tutto incongruo appariva, dunque, il richiamo all'articolo 1227 cod. civ., comma 2, che non poteva trovare applicazione nella fattispecie, mentre la corretta applicazione della Legge n. 7 del 1963 avrebbe dovuto comportare il riconoscimento del suo diritto alla corresponsione di tutte le retribuzioni maturate e non corrisposte per effetto del licenziamento invalido.

La Corte giudica il motivo infondato.

Come e' stato ricordato dalla ricorrente, in termini generali e' stato in effetti costantemente affermato da questa Corte che per configurare la revoca del licenziamento non e' sufficiente il mero invito del datore di lavoro al lavoratore a riprendere servizio, ma occorre che il medesimo dichiari di considerare il rapporto mai risolto de iure, con il conseguente diritto del dipendente licenziato a percepire le retribuzioni maturate nelle more, si' da eliminare tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti dal recesso (ex plurimis, Cass. 19.7.1997 n. 6650, 10.5.2005 n. 9717, 18.5.2006 n. 11664). E da tale principio se ne e' dedotto che, in presenza di una offerta che integri una vera e propria revoca il rifiuto del lavoratore sarebbe da considerare contrario agli obblighi nascenti per il lavoratore, come per ogni altro creditore, dall'articolo 1227 cod. civ., comma 2, in quanto, in tal caso, il danno costituito dal mancato pagamento delle retribuzioni maturate dopo l'offerta di reintegrazione formulata dal datore avrebbe potuto essere evitato, usando l'ordinaria diligenza, attraverso l'accettazione della proposta.

Tuttavia, proprio nella sentenza alla quale la ricorrente si e' largamente richiamata per sostenere il proprio assunto (Cass. 12.7.2004 n. 12867, relativa ad una fattispecie in cui la sentenza d'appello impugnata, annullata dalla Corte, aveva ritenuto vera e propria revoca la proposta del datore preordinata alla mera ricostituzione del rapporto ex nunc, "con il mantenimento del danno costituito dal mancato pagamento delle retribuzioni maturate"), si e' sottolineato che il dovere imposto dall'articolo 1227 cit., al quale si e' fatto teste' riferimento, sussiste nei limiti in cui la sua osservanza non sia troppo onerosa e non incida in misura apprezzabile sulla propria liberta' di azione, con la conseguenza che occorre in buona sostanza accertare, ai fini dell'applicabilita' o meno della norma codicistica, se all'offerta di adempimento sia stato opposto, o meno, dal lavoratore un rifiuto pretestuoso.

Poste tali premesse, va rilevato in primo luogo che a quei principi non si e' in realta' attenuta la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che nella comunicazione inviata dal datore di lavoro all'attuale ricorrente in data 11 giugno 2001 era ravvisabile "il sostanziale intento revocatorio del licenziamento", una volta che la proposta di riammissione al lavoro formulata da Mu. non era affatto accompagnata - come la medesima corte territoriale del resto ha riconosciuto dall'offerta delle retribuzioni sino a quel momento maturate, avendo avuto essa di mira, infatti, una ricostituzione del rapporto ex nunc, e non gia' ex tunc. Sennonche' il giudice di appello ha enunciato una ulteriore, autonoma ratio a fondamento della propria decisione.

Dopo aver sottolineato che nella comunicazione piu' volte menzionata non vi era stato alcun riferimento "alla regolazione del contenzioso in atto" e che, per di piu', nella successiva missiva del 28 giugno, inviata da Mu. sia alla Av. che al suo legale, questi si era astenuto "da qualsiasi forzatura in ordine alle pretese avanzate dalla lavoratrice", tant'e' che le aveva rinnovato l'invito a riprendere il lavoro ed aveva precisato altresi' che "eventuali richieste di danni e quant'altro avrebbero, in mancanza di accordo, trovato sfogo nella sede giudiziaria", la corte d'appello ha osservato che costei ben avrebbe potuto, pertanto, ripresentarsi al lavoro, "senza cio' che potesse comportare una rinuncia al suo diritto a vedere eliminati tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti dal subito licenziamento", sicche' il rifiuto dalla medesima opposto era tale da configurare anche un aggravamento del danno, evitabile usando l'ordinaria diligenza ex articolo 1227 cod. civ., comma 2.

Ora, posto che la individuazione del contenuto delle due missive nella circostanza inviate da Mu. (secondo cui la ripresa del lavoro da parte della Av. non avrebbe condizionato affatto l'esito della controversia da lei instaurata tempo addietro nei suoi confronti) non ha formato oggetto di specifica censura da parte della ricorrente, risulta quindi adeguatamente motivata la valutazione compiuta dalla sentenza impugnata nella parte in cui ha considerato applicabile in questa particolare fattispecie la disposizione di cui all'articolo 1227 cod. civ., comma 2, ritenendo in buona sostanza che l'accettazione della proposta di riammissione in servizio da parte della attuale ricorrente non si rivelava, in quel contesto, eccessivamente onerosa o tale da incidere sulla sua liberta' di azione, ma sarebbe stata, al contrario, conforme alla ordinaria diligenza.

Il ricorso, dunque, va rigettato.

L'alterno esito dei giudizi di merito e la particolarita' della fattispecie rendono equa la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

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