Una condizione lavorativa stressante può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro

Una condizione lavorativa stressante può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro. E’ qunato stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 13099 del 7 giugno 2007. Tuttavia, ha precisato la S.C., grava sul lavoratore l’onere di provare la nocività delle condizioni di lavoro, e il nesso causale fra tali condizioni ed il danno subito, mentre sarà il datore di lavoro a dover dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.



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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 12 aprile – 7 giugno 2007, n. 13309
(Presidente Mercurio – Relatore Celentano)

Svolgimento del processo
Il Pretore di Roma respingeva la domanda del dr. R. P. diretta ad ottenere la condanna del datore di lavoro, Banca Nazionale dell'Agricoltura, al pagamento di lire un miliardo a titolo di risarcimento dei danni subiti in un incidente stradale, causato da stress lavorativo.
Con sentenza del 27 maggio-7 dicembre 1998 il Tribunale di Roma rigettava l'appello principale del lavoratore e quello incidentale del datore di lavoro, diretto ad ottenere la restituzione della retribuzione pagata durante la malattia conseguente all'infortunio.
A fondamento della decisione il Tribunale poneva il principio di diritto secondo il quale una condotta umana (nella specie quella del datore di lavoro, per asserita violazione dell'art. 2087 c.c.) può essere ritenuta causa di un determinato evento solo quando questo appaia come conseguenza normale dell'antecedente, nel senso che tra questo e l'effetto conseguenziale deve esistere un rapporto di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica, sì da potersi ritenere che il pregiudizio rientri nelle normali conseguenze dell'illecito, secondo le regole della c.d. regolarità causale; viceversa, deve escludersi il nesso eziologico tra il comportamento umano e l'evento ove le conseguenze verificatesi siano eccezionali secondo un giudizio di probabilità ex ante, quale un incidente stradale rispetto a condizioni lavorative stressanti. Sulla scorta di tale principio il Tribunale riteneva irrilevanti le prove richieste dal dr. P. in primo grado.
Di questa sentenza il lavoratore chiedeva la cassazione, denunciando violazione degli artt. 1175, 1375, 2110, 2087, 2043 e 2697 c.c., in relazione agli artt. 112, 113, 115, 116 e 437 c.p.c.; nonché vizio di motivazione su punto decisivo.
Censurava la decisione nella parte in cui, per erronea interpretazione dell'art. 2087 c.c., non aveva ammesso le prove ritualmente richieste in primo grado, volte a dimostrare che l'incidente trovava causa nello stress derivante dagli orari di lavoro, dalle condizioni di trasferta e dalle particolari condizioni familiari (moglie operata per tumore e figlia ammalata di crisi convulsive), note al datore di lavoro, e per le quali aveva chiesto uno spostamento di sede. Denunciava contraddittorietà tra esigenze probatorie e negata ammissione delle prove.
Con sentenza n. 5 del 25 ottobre 2001-2 gennaio 2002 questa Corte accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte di Appello di L'Aquila.
La sentenza rescindente rilevava la erroneità del principio di diritto enunciato dal Tribunale di Roma in materia di nesso causale. Spiegava che nel sistema risarcitorio civilistico vige la regola della cd. causalità adeguata o regolarità causale; che l'incidenza eziologica delle "cause antecedenti" va valutata, per un verso, nel quadro dei presupposti condizionanti e, per altro verso, in coordinazione con il principio della causalità efficiente, principio che espunge le cause antecedenti dalla serie causale in presenza di un fatto sopravvenuto di per sé idoneo a determinare l'evento anche senza quegli antecedenti. Richiamava i principi più volte affermati sulla interpretazione dell'art. 2087 c.c., e quindi sulla natura contrattuale della responsabilità disciplinata dalla norma e sul riparto dell'onere probatorio fra lavoratore e datore di lavoro e concludeva affermando che «non si può escludere a priori che vi sia un nesso causale, per un lavoratore obbligato o autorizzato all'uso di autoveicolo nell'espletamento delle proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l'incidente stradale, senza prima consentire la prova richiesta (ed ovviamente la controprova ritualmente richiesta) di tutte le circostanze del caso.»
Riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio, la Corte territoriale, escussi quattro testimoni, rigettava l'appello del lavoratore avverso la decisione del Pretore di Roma.
Esaminate le cause di stress indicate dal lavoratore (lunga durata e frequenza delle trasferte, i molti chilometri percorsi, il gravoso impegno lavorativo durante i periodi di trasferta, il ritardo nelle promozioni promessegli dalla Banca all'epoca del suo inserimento nella cd. task force, le malattie della moglie e della figlia, le vicende relative all'assegnazione dell'ultima missione, quella a Bari), e ritenuti dimostrati i fatti storici dedotti dal dr. P. in ordine a durata, frequenza delle trasferte, chilometraggio percorso, abitudine di tornare a Roma il venerdì sera per ripartire la domenica sera o il lunedì mattina, mansioni svolte durante le trasferte, promozione a capo ufficio nell'ottobre 1989 e a funzionario il 3 agosto 1992, malattie di moglie e figlia e conoscenza delle stesse da parte del datore di lavoro, richiesta del lavoratore di essere destinato, in occasione della trasferta nel corso della quale di era verificato l'incidente, a Chiusi e non a Bari gi ci del rinvio ritenevano che le circostanze appurate non consentivano di affermare che l'incidente stradale fosse imputabile ad una situazione di stress a sua volta imputabile al datore di lavoro.
Osservavano che quella descritta dal dr. P. è la normale attività lavorativa svolta da tutti i lavoratori incaricati della promozione di affari per conto del datore di lavoro; che la necessità di costante aggiornamento professionale, propria di chi svolge attività professionale qualificata, non può essere invocata come fonte di stress imputabile al datore di lavoro; che analoghe considerazioni valgono per gli orari di lavoro tipici di quella attività.
Sottolineavano poi che l'incidente stradale era avvenuto la mattina del 17 gennaio 1991, quando non erano ancora trascorsi quattro giorni dall'inizio della missione a Bari, e che tale missione era iniziata a distanza di 36 giorni dalla missione precedente, sicché il lavoratore aveva usufruito di un periodo di tempo fra le due missioni sicuramente congruo al fine di reintegrare le energie psico fisiche usurate dalla precedente missione.
Osservavano ancora che il mancato accoglimento della richiesta di essere destinato a Chiusi e non a Bari non costituiva fonte di particolare aggravio, atteso che solo nel primo giorno di missione era stato necessario un percorso più lungo di 300 chilometri, ma ciò risaliva a circa quattro giorni prima del sinistro.
Quanto alle modalità dell'incidente stradale, rilevavano che lo stesso si era verificato perché il dr. P., nonostante il fondo stradale umido, aveva imboccato una curva ad elevata velocità ed invaso l'opposta corsia, finendo contro un pesante automezzo che procedeva regolarmente nella direzione opposta. Ritenevano che il comportamento del guidatore non fosse imputabile a condizioni di stanchezza o di abbassamento della soglia di attenzione, ma a comportamento imprudente cosciente e volontario.
Applicando quindi la nozione di nesso causale precisata dalla sentenza rescindente, la Corte territoriale escludeva che l'incidente fosse imputabile al datore di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre, formulando due motivi di censura, R. P..
La Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a., incorporante della Banca Nazionale della Agricoltura s.p.a., e la Fondiaria Sai s.p.a., nuova denominazione della Sai Società Assicuratrice Industriale s.p.a. (società che ha partecipato al giudizio fin dal primo grado perché chiamata in causa dalla Banca), resistono con controricorso.
Il ricorrente e la banca hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
l. Con il primo motivo di ricorso la difesa del ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2087, 2110 e 2043 c.c., 32 e 38 Cost., omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo.
Deduce che il giudice del rinvio si è illegittimamente discostato dal principio di diritto fissato nella sentenza rescindente ed ha arbitrariamente ristretto l'accertamento dei fatti, non tenendo conto dell'ampio ambito di prova indicato dalla Cassazione.
Assume che la sentenza rescindente aveva posto a carico del lavoratore, «che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare esclusivamente l'esistenza di tale danno, la nocività delle condizioni di lavoro ed il nesso causale tra questi due elementi»; e, correlativamente, a carico del datore di lavoro «l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno ovvero che il danno lamentato dal dipendente non è ricollegabile all'inosservanza dei suoi obblighi».
Assume ancora che la nozione di nesso causale delineata nella sentenza rescindente è notevolmente diversa da quella adottata dal Tribunale di Roma e che era stato precisato che l'eventuale concorso di colpa del lavoratore non è sufficiente ad interrompere un nesso causale che non può essere limitato ai soli eventi costituenti conseguenza necessitata della condotta datoriale, ma deve essere esteso a tutti gli eventi possibili, rispetto ai quali tale condotta si ponga con nesso di causalità adeguata.
Deduce che la sentenza rescindente ha quindi individuato una responsabilità dell'imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso». precisando che la dimensione inadeguata dell'organico, ravvisata nel caso di specie, costituiva una condizione lavorativa stressante, dalla quale poteva derivare una specifica responsabilità datoriale; e che ha richiesto la prova «di tutte le circostanze del caso» per verificare l'esistenza di tale nesso causale, «per un lavoratore obbligato o autorizzato all'uso di autoveicolo nell'espletamento elle proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l'incidente stradale.»
Afferma quindi che era risultato provato che: il ricorrente aveva reiteratamente rappresentato il suo contingente stato di patologia; l'inserimento nella task force prevedeva anche la partecipazione a missioni e non solo lo svolgimento di lavoro fuori sede; esisteva almeno un'altra sede possibile per la missione, cioè Chiusi, più confacente alla particolare situazione, personale e familiare, dei P.; alla data del 17.1.1991, su 600 giorni di calendario corrispondenti al periodo trascorso dalla sua entrata in task force, il ricorrente ne aveva vissuto in missione ben 407, percorrendo alla guida della propria auto 80.409 chilometri, oltre alla sua normale attività lavorativa; l'entità del danno risarcibile in misura non inferiore al valore corrispondente ad un miliardo di lire; l'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta tenuta da Bna ed evento dannoso da cui il ricorrente è rimasto leso.
2. Con il secondo motivo la difesa P. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 384, 389 e 394 c.p.c. e vizio di motivazione su altro punto decisivo.
Deduce che la Corte di rinvio non solo ha seguito in modo marginale il principio di diritto illustrato nel primo motivo, ma ha stravolto l'impianto giuridico dato alla fattispecie nella sentenza rescindente.
Tale stravolgimento si è realizzato, da parte del giudice di rinvio, con l'esclusione: a) che altre cause, tra cui principalmente lo stato personale di stress, unito all'ansia e alla preoccupazione per le condizioni di salute dei familiari, potessero determinare l'evento lesivo; b) che lo stato di stress fosse stato acuito ed aggravato dal profondo insoddisfacimento per una progressione di carriera ingiustamente negata; c) che le direttive impartite dalla Cassazione comportassero l'accertamento anche su fatti non costituenti oggetto delle richieste istruttorie del primo grado; d) limitando l'assunzione delle prove all'interno delle istanze formulate nel ricorso ex art. 414 c.p.c., ma ammettendo tre soli capitoli.
3. I due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente, non sono fondati.
Essi muovono da una lettura distorta della sentenza rescindente, la quale, come si è sopra evidenziato, si è limitata a correggere il principio affermato dal Tribunale di Roma in materia di nesso causale, ricordando il principio della cd. causalità adeguata; a richiamare il consolidato orientamento della Corte sulla natura della responsabilità di cui all'art. 2087 c.c. e sul riparto dell'onere probatorio fra lavoratore e datore di lavoro; ad affermare, quindi, che «non si può escludere a priori che vi sia un nesso causale, per un lavoratore obbligato o autorizzato all'uso di autoveicolo nell'espletamento delle proprie mansioni i situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l'incidente stradale, senza prima consentire la prova richiesta (ed ovviamente la controprova ritualmente richiesta) di tutte le circostanze del caso.»
Non è vero, quindi, che la sentenza rescindente abbia autorizzato il giudice di rinvio ad ammettere prove e controprove diverse da quelle già tempestivamente richieste, così travolgendo le regole dettate dall'art. 394 del codice di rito.
La sentenza del Tribunale di Roma è stata cassata per violazione di norme di diritto, relativa alla nozione del nesso causale rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c., con conseguente erroneo rigetto delle richieste istruttorie formulate per la dimostrazione di quel nesso fra condotta datoriale ed incidente.
Il giudice di rinvio era vincolato al principio di diritto enunciato e tenuto ad esprimere una valutazione, sulla sussistenza o meno del nesso causale invocato, solo all'esito delle prove richieste.
E ciò che la Corte di L'Aquila ha fatto, osservando con congrua motivazione, dopo avere esaminato tutte le circostanze dedotte e ritenute provate, che il comportamento datoriale non ha avuto efficienza causale nella determinazione dell'incidente stradale dei 17 gennaio 1991, allorquando il lavoratore, percorrendo a velocità eccessiva una curva pericolosa con strada umida, invase l'opposta corsia scontrandosi con un veicolo procedente nella opposta direzione.
Il ricorrente non muove specifiche censure alle argomentazioni del giudice di rinvio ma sembra affermare che la sentenza rescindente aveva già sancito la responsabilità dell'imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso»; condotta dolosa o rischio elettivo ovviamente estranei alla conduzione di un veicolo, per ragioni di lavoro, da parte di un lavoratore.
Ma non è quello che la sentenza rescindente ha affermato. Le massime nella stessa richiamate, fra le quali quelle sulla rilevanza del concorso di colpa del lavoratore, sottolineano in primo luogo l'obbligo del lavoratore, che agisca facendo valere la responsabilità di cui all'art. 2087 c.c., di provare la nocività delle condizioni di lavoro e il nesso causale fra tali condizioni ed il danno subito. Una volta che il lavoratore abbia provato tali circostanze continua la sentenza n. 5 del 2002 grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno; aggiungendo che non è sufficiente il semplice concorso di colpa dei lavoratore per interrompere il nesso causale, potendo tale nesso essere interrotto solo da una condotta dolosa del lavoratore o la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso. Ed ha citato Cass., 1 settembre 1997, n. 8267 secondo la quale anche una condizione lavorativa stressante (nella specie per sottorganico) può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro.
Tale essendo il contenuto della sentenza rescindente, ed atteso che il giudice del rinvio, espletate le prove tempestivamente richieste, si è espresso con ampie argomentazioni sulla insussistenza di uno stress imputabile al datore di lavoro e tale da avere a sua volta provocato l'incidente stradale, le censure di inosservanza dell'art. 384 e 394 c.p.c., così come quelle di violazione dell'art. 2087 c.c., risultano infondate.
Per tutto quanto esposto il ricorso va rigettato.
Il ricorrente va condannato al rimborso delle spese nei confronti della Banca Antoniana Popolare Veneta, mentre si ritiene equo compensare le spese fra la Sai e le altre parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore della Banca Antoniana Popolare Veneta, delle spese di giudizio, in € 42,50 per spese ed in € 5.000,00 (cinquemila) per onorario di avvocato, oltre spese generali, Iva e c.p.a.; compensa le spese fra la Sai e le altre parti.

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