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L'addebito nella Separazione
Il giudice, pronunciando la separazione, può dichiarare a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, tenuto conto del suo comportamento contrario ai suddetti doveri che derivano dal matrimonio, avuto anche riguardo al comportamento dell'altro.
Il giudice, infatti, a norma dell’art. 151, comma 2, c. c., pronunciando la separazione, può dichiarare, ove ne ricorrano le circostanze e vi sia un’espressa richiesta di parte in tal senso, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, tenuto conto del suo comportamento contrario ai suddetti doveri che derivano dal matrimonio, avuto anche riguardo al comportamento dell’altro. Peraltro il giudice, qualora accerti che si sia verificata, durante la convivenza matrimoniale e prima della proposizione della domanda di separazione, una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, potrà ritenere detta violazione ininfluente ai fini dell’addebitabilità della separazione solo quando abbia rigorosamente rilevato il carattere meramente formale della convivenza, tale che nessuna violazione dei doveri coniugali avrebbe potuto effettivamente cagionare l’intollerabilità del rapporto matrimoniale. In sede giudiziale deve quindi essere verificata la sussistenza di un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza, concepita dal nostro legislatore come condizione obiettiva della separazione. Inoltre si rammenta che ogni valutazione del giudice circa l’imputabilità della crisi coniugale al comportamento del marito o della moglie non può prescindere da una valutazione comparativa delle condotte tenute dai due coniugi, al fine di accertare se l’una possa dirsi giustificata dall’altra, purché si tratti di una reazione immediata e proporzionata ad un torto ricevuto. Nulla osta, peraltro, ad un’eventuale dichiarazione giudiziale di addebito della separazione a carico di entrambi i coniugi, se richiesto.
I principali effetti che conseguono alla pronuncia di addebito si producono sul piano successorio ed in materia di fissazione dell’assegno. Infatti, a norma degli artt. 548 e 585 c. c., il coniuge separato vanta gli stessi diritti a causa di morte spettanti al coniuge non separato, a condizione che la separazione non sia stata al primo addebitata con sentenza definitiva. In quest’ultimo caso, egli ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio, commisurato alle sostanze ereditarie ed alla qualità ed al numero degli eredi, se al momento della morte del coniuge godeva degli alimenti a carico del defunto, peraltro in misura non superiore ad essi. Si sottolinea ad ogni modo che gli alimenti non sono da confondere con l’assegno di mantenimento, potendone avere diritto solo colui che non sia in grado di soddisfare autonomamente i propri bisogni elementari per la sopravvivenza. Infatti, ai sensi dell’art. 156, comma 1, c. c., il coniuge cui sia stata addebitata la separazione non può legittimamente pretendere dall’altro alcun assegno di mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri. Quest’ultimo contributo spetta soltanto a chi non abbia determinato con il proprio esclusivo comportamento l’intollerabilità della convivenza matrimoniale ed abbia pertanto il diritto, nel caso in cui non possa provvedervi autonomamente, a conservare il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Al fine di individuare in concreto quali condotte possano essere ritenute dall’autorità giudiziaria idonee a determinare di per sé la rottura del vincolo coniugale, basta dare un rapido sguardo alla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione formatasi sul punto.
Per quel che concerne, ad esempio, la violazione del dovere di fedeltà, i giudici di legittimità hanno precisato che indubbiamente essa, se posta in essere in maniera reiterata e tale da svilupparsi, se del caso, in una stabile relazione extraconiugale, integra di norma una intollerabilità della prosecuzione della convivenza (in tal senso, da ultimo, Cass. sent. n. 7859 del 2000). In particolare, anche l’infedeltà di uno dei coniugi rimasta allo stadio di mero tentativo, magari per mancanza di corrispondenza da parte del terzo, è suscettibile di integrare da sola una rilevante violazione dei doveri nascenti dal matrimonio (cfr. Cass. sent. n. 9472 del 1999). Quel che infatti rileva maggiormente, di solito, è la notorietà del tradimento, suscettibile di provocare il discredito sociale dell’altro ed i pettegolezzi che conseguono all’adulterio. Ad ogni modo, al giorno d’oggi la nozione di fedeltà cui si ritiene di fare prevalentemente riferimento non si riduce esclusivamente alla sfera fisico – sessuale, bensì si estende ad una più ampia fiducia e dedizione reciproca che dovrebbe connotare i rapporti coniugali.
Sotto altro profilo, costituiscono fatti addebitabili quelli che ledono il dovere coniugale di lealtà, come i maltrattamenti, le denigrazioni ovvero l’incarico dato ad un terzo di rapinare il coniuge, nonché l’isolamento (cosiddetto mobbing – Corte d’Appello di Torino 21 febbraio 2000), l’imposizione di prestazioni sessuali anomale (Cass. sent. n. 8787 del 2002), l’abbandono della casa coniugale senza giusti motivi e le vessazioni della suocera (Cass. sent. n. 10648 del 1997), mentre non risultano rilevanti ai fini dell’addebito l’adozione di usi e costumi familiari opposti a quelli della famiglia di origine ed il mutamento di fede religiosa, purché non comporti violazione specifica di uno dei doveri sanciti dal citato art. 143 c. c.
Infine, va precisato che la giurisprudenza della Cassazione non pare lasciare adito a dubbi in ordine all’impossibilità per il coniuge che abbia subito da parte dell’altro la violazione di uno o più dei doveri matrimoniali di invocare, oltre al diritto all’assegno di mantenimento, ove ne ricorrano i presupposti, la tutela risarcitoria ex art. 2043 c. c. per la commissione di un illecito (Cass. sent. n. 3367 del 1993, per cui l’addebito della separazione comporta solo gli effetti espressamente previsti dalla legge). In senso contrario, tuttavia, si è schierato il Tribunale di Milano, che sia nel 1999 sia nel 2002 ha chiarito come in materia di danni da violazione dei doveri coniugali non sembri sussistere alcuna deroga alla clausola generale di responsabilità (“neminem laedere”) di cui all’art. 2043 c. c., dal momento che ai doveri derivanti dal matrimonio deve indubbiamente riconoscersi natura giuridica e non meramente morale (cfr. Trib. Milano sent. 10 febbraio 1999 e sent. 4 giugno 2002).