I comuni sono responsabili del ritardo nella celebrazione di un matrimonio e debbono risarcire il danno che da tale ritardo si può essere verificato

I comuni sono responsabili del ritardo nella celebrazione di un matrimonio e debbono risarcire il danno che da tale ritardo si può essere verificato. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 18 novembre 2008, n. 27407.



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FILADORO Camillo - Presidente

Dott. FEDERICO Giovanni - Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso - rel. Consigliere

Dott. URBAN Giancarlo - Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere

ha pronunciato la seguente:



SENTENZA

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco On. Ve. Wa. , elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso lo studio dell'avvocato AVENATI FABRIZIO (Avvocatura Comunale), che lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

NO. AM. , elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TOSCANA 10, presso lo studio dell'avvocato RIZZO ANTONIO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 2446/2004 della CORTE D'APPELLO di ROMA, Prima Sezione Civile, emessa il 22/04/04, depositata il 24/05/2004; R.G.N. 6882/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/11/2008 dal Consigliere Dott. AMATUCCI ALFONSO;

udito l'Avvocato RIZZO Antonio;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pivetti Marco, che ha concluso per il rigetto del 1 motivo e l'accoglimento del 2 motivo di ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del 21.5.2001 il tribunale di Roma, decidendo sulla domanda risarcitoria proposta da No. Am. nei confronti del comune di Roma per non aver celebrato il suo matrimonio con Fa. Fr. con l'urgenza consentita dall'articolo 101 c.c., in caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi, condanno' il comune al pagamento di lire 609.945.017, quale danno patito dall'attrice per la perdita della pensione di reversibilita' e per danno alla salute a seguito della morte del Fa. , intervenuta il 25.3.1996 prima della celebrazione del matrimonio, che era stato fissato dall'ufficiale di stato civile per il 4.4.1996, benche' l'attrice si fosse attivata sin dal 4.3.1996 per ottenere la celebrazione nel piu' breve tempo possibile, avesse prodotto sin dall'8.3.1996 un certificato medico attestante le gravissime condizioni di salute del Fa. , avesse inutilmente sollecitato la celebrazione l'11 ed il 18.3.1996, ed il 21.3.1996 avesse anche prestato, col Fa. , il giuramento sull'assenza di impedimenti al matrimonio previsti dal menzionato articolo 101 c.c..

2. La corte d'appello di Roma, con sentenza n. 2446/04 ha rigettato l'appello del comune e, in accoglimento di quello incidentale di No. Am. , ha condannato l'ente territoriale al pagamento di ulteriori 199.872.726, pari alla quota di un quarto del patrimonio ereditario che sarebbe spettata alla coniuge, come legittimarla, ex articolo 542 c.c., in concorrenza di successione con i due figli del defunto.

3. Avverso la sentenza ricorre per cassazione il comune di Roma affidandosi a due motivi, cui l'intimata resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, deducendo "violazione dell'articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5", il comune assume che la corte d'appello avrebbe errato nel negare che, per addivenirsi alla celebrazione del matrimonio nelle forme di cui all'articolo 101 c.c., sarebbe necessaria la produzione di certificazione attestante la capacita' di intendere e di volere del nubendo in imminente pericolo di vita, come invece ritenuto dal comune, secondo il quale anche per questo non sarebbe stato possibile imputare alcun colpevole ritardo all'ente pubblico. Si sostiene, inoltre, che la mancata celebrazione del matrimonio in tempo utile era da ricollegare ad una serie di circostanze sfortunate e non anche all'inescusabile ignoranza dell'istituto del matrimonio ex articolo 101 c.c., da parte di un impiegato comunale, ovvero ad un atteggiamento di rigida chiusura burocratica, come statuito dalla sentenza di primo grado, che la corte d'appello aveva confermato senza motivare la propria decisione.

1.1. L'affermazione della corte d'appello, senz'altro corretta in diritto in relazione alla chiara lettera della disposizione normativa, si sostanzia nel rilievo che l'articolo 101 c.c., non richiede la produzione di certificazione che attesti anche la capacita' di intendere e di volere di chi, a causa dell'imminente pericolo di vita di uno degli sposi, intenda sposarsi a prescindere dalla pubblicazione. Con riguardo alla tesi sostenuta dall'appellante comune, che proprio a quella mancata certificazione intendeva ricollegare il predicato difetto di colpa dell'impiegato nel non aver immediatamente aderito alla celebrazione nelle forme richieste, l'affermazione della corte d'appello e' poi sostenuta dal rilievo che l'ufficio comunale aveva comunque ricevuto senza obiezioni il giuramento del Fa. (previsto dall'articolo 101 c.c.) - Il che inequivocamente significa che la sussistenza della capacita' di intendere e di volere - che va peraltro apprezzata dall'ufficiale di stato civile in relazione al momento della celebrazione di qualsiasi matrimonio e non in relazione ad un momento antecedente alla manifestazione di volonta' del nubendo - era stata gia' comunque positivamente constatata, sicche' il rifiuto (di dar rapido corso alla celebrazione) connesso alla preventiva mancanza di quella certificazione (pur non richiesta dalla legge) non appariva sotto alcun profilo giustificato.

Per il resto, la censura in sostanza si risolve nell'inammissibile sollecitazione alla corte di legittimita' a compiere un apprezzamento dei fatti difforme da quello effettuato dalla corte d'appello con motivazione del tutto esauriente e niente affatto contraddittoria.

2. Col secondo motivo la sentenza e' censurata per violazione delle norme in materia di successioni, in particolare dell'articolo 542 c.c., nonche' degli articoli 99 e 112 c.p.c..

Vi si afferma che la domanda di risarcimento del danno da lesione dei diritti successori non era stata formulata in primo grado dall'attrice con l'atto di citazione, ma tardivamente solo in comparsa conclusionale, sicche' la corte d'appello avrebbe dovuto dichiararla inammissibile.

E vi si sostiene, in secondo luogo, che essendo stata l'attrice designata erede testamentaria dal defunto Fa. con testamento olografo (impugnato dagli eredi, con i quali aveva definito la controversia percependo a saldo beni e denaro per lire 193.500.000) ella non aveva diritto a pretendere alcunche' per (mancata) successione legittima, giacche' a questa si fa luogo solo se il testamento manchi o non disponga con riguardo alla totalita' dei beni.

2.1. Il primo dei due enunciati profili e' manifestamente infondato, essendo stato domandato con l'atto di citazione in primo grado il risarcimento di "tutti" i danni, ed essendo il riferimento alla perdita dei diritti successori inequivocamente contenuto alle pagine 3, punti 11 e 12, e 5, lettera F, dell'atto introduttivo.

2.2. Sul secondo va chiarito che la quota disponibile di cui il testatore potette disporre fu di un terzo, essendo riservata ai figli che siano piu' di uno la quota di due terzi del patrimonio in mancanza del coniuge (articolo 537 c.c., comma 2) . Se invece, al momento della morte del Fa. , No. Am. ne fosse stata la coniuge, ai figli sarebbe spettata solo la meta' del patrimonio ex articolo 542 c.c., comma 2, con la conseguenza che la coniuge erede testamentaria avrebbe potuto conseguirne la meta' complessiva. Avendo la corte d'appello affermato che il patrimonio ascendeva a poco meno di lire 800.000.000, la percezione da parte di No. Am. di un valore di lire 193.500.000 (in sede transattiva coi figli del de cuius) non sarebbe dunque valsa a soddisfarne le aspettative risarcitorie nell'ipotesi in cui il de cuius avesse lasciato alla convivente l'intera disponibile, in quanto ella avrebbe complessivamente conseguito la meta' del patrimonio se ne fosse stata anche la coniuge. In tal caso - benche' la motivazione della sentenza impugnata sia senz'altro errata in diritto nella parte in cui ha fatto riferimento al quarto del patrimonio che sarebbe spettato alla coniuge come legittimaria ex articolo 542 c.c., giacche' non viene in considerazione quanto ella avrebbe conseguito in tale qualita', ma quale sarebbe stata invece la quota disponibile in relazione alla quota riservata come legittimari ai figli in concorrenza col coniuge - la soluzione sarebbe stata tuttavia corretta, poiche' il danno riconosciuto (lire 199.872.726) non avrebbe ecceduto il quantum differenziale determinabile in base agli esposti passaggi tecnico giuridici. Senonche', dalla sentenza impugnata non si evince quale fosse il tenore della disposizione testamentaria, sicche' se ne impone la cassazione affinche' il giudice del rinvio - che si designa nella stessa corte d'appello in diversa composizione accerti se il de cuius aveva lasciato alla No. l'intera quota disponibile (o l'aveva istituita sic et simpliciter erede) ovvero aveva disposto a suo favore per una quota inferiore, ed adotti le conseguenti statuizioni alla luce dei principi sopra enunciati, regolando anche le spese del giudizio di legittimita'.

3. Va in conclusione rigettato il primo motivo ed accolto il secondo nei limiti sopra precisati.

P.Q.M.

La Corte Di Cassazione rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie in parte il secondo, cassa in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per la spese, alla corte d'appello di Roma in diversa composizione.

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