In materia di separazione (come di divorzio) l'assegnazione della casa familiare non può essere disposta a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli articoli 156 del Cc e 5 della legge n. 898 del 1970

In materia di separazione (come di divorzio) l'assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall'articolo 6 comma 6, della legge n. 898 del 1970 (come sostituito dall'articolo 11 della legge n. 74 del 1987), essendo finalizzata all'esclusiva tutela della prole e dell'interesse di questa a permanere nell'ambiente domestico in cui è cresciuta, non può essere disposta a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli articoli 156 del Cc e 5 della legge n. 898 del 1970, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, al soddisfacimento delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati. Ne consegue che in difetto di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi, sia che la casa familiare sia in comproprietà tra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva a un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l'articolo 156, che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell'assegno di mantenimento. In mancanza di una normativa speciale in tema di separazione, la casa familiare in comproprietà è soggetta, infatti, alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l'uso e la divisione. (Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, Sentenza 22.03.2007, n. 6979)




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SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Pr.Ub., elettivamente domiciliato in Ro. via A.Gr. (...), presso l'avvocato Vi.Io., rappresentato e difeso dall'avvocato Ca.Es., giusta procura a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

Ba.Ce.;

- intimata avverso la sentenza n. 13/03 della Corte d'Appello di Perugia, depositata il 04/07/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2007 dal Consigliere Dott. Francesco FELICETTI;

udito il P. M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele CENICCOLA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Pr.Ub., con ricorso 29 agosto 1995 al tribunale di Perugia chiedeva che fosse pronunciata la separazione personale dalla moglie Ba.Ce., con addebito alla medesima. La Ba. si costituiva chiedendo che la separazione fosse pronunciata con addebito al marito e che le fosse assegnata la casa coniugale. Il tribunale pronunciava la separazione con addebito alla moglie e assegnava la casa coniugale al marito. Avverso tale sentenza proponeva appello la Ba. e la Corte di appello di Perugia, con sentenza depositata il 4 luglio 2003, notificata al Pr. il 2 settembre 2003, in parziale riforma della sentenza impugnata, revocava l'assegnazione della casa coniugale al Pr., disponendo che la stessa, in comproprietà fra i coniugi, rimanesse nella disponibilità di entrambi. Il Pr. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 13 novembre 2003 alla Ba. formulando un unico motivo. L'intimata non ha depositato difese.

Motivi della decisione

1. Con il ricorso si denuncia l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione alla mancata assegnazione della casa coniugale al ricorrente. Premesso che nel caso di specie la casa coniugale è in comproprietà fra i coniugi e non vi sono figli minori o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi, si lamenta che la Corte di appello, dopo avere accertato una sostanziale equivalenza dei redditi dei coniugi, ha lasciato la casa nella disponibilità di entrambi, rigettando la domanda di assegnazione del ricorrente. Si osserva al riguardo che i redditi della moglie, che esercita l'attività di estetista "in nero", sono stati ritenuti modesti dalla Corte con una presunzione, così ingiustamente ritenendo assimilabili la sua posizione a quella del ricorrente, che ha depositato in atti la denuncia dei redditi dalla quale emergono i suoi redditi effettivi. Si deduce che, non godendo il marito, sulla base di tale denuncia, di redditi adeguati, il giudice doveva disporre l'assegnazione a lui della casa coniugale.

2. II ricorso è infondato.

L'art. 155 cod. civ., nel testo vigente sino all'entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 sotto la rubrica "provvedimenti riguardo ai figli", al quarto comma prevedeva: "L"abitazione della casa coniugale spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli".

Tale norma era stata interpretata da questa Corte, già con la sentenza a sezioni unite del 23 aprile 1982, n. 2494, nel senso che essa, attribuendo al giudice il potere di assegnare l'abitazione nella casa familiare al coniuge cui vengono affidati i figli, che non sia il titolare o l'esclusivo titolare del diritto di godimento (reale o personale) sull'immobile, avesse carattere eccezionale e fosse dettata nell'esclusivo interesse della prole minorenne, con la conseguenza che essa non poteva essere ritenuta applicabile, neppure in via di interpretazione estensiva, al coniuge non affidatario.

La sentenza rilevava che - avuto riguardo alla rubrica dell'art. 155 (provvedimenti riguardo ai figli) -la disposizione appariva diretta a regolare il caso in cui vi fossero figli minorenni, riguardo ai quali dovessero adottarsi i provvedimenti di cui ai primi due commi, cosicché il suo enunciato normativo doveva essere interpretato in coerenza con tale oggetto e l'affidamento della prole ne costituiva pertanto il presupposto necessario. La stessa sentenza aveva statuito che l'abitazione nella casa familiare non poteva essere assegnata, in mancanza di figli minorenni, in forza dell'art. 156 ce, in quanto tale articolo non conferisce al giudice il potere di imporre al coniuge obbligato al mantenimento di adempiervi in forma diretta e non mediante prestazione pecuniaria.

Successivamente all'entrata in vigore della legge n. 74 del 1987 - la quale all'art. 6, in materia di divorzio, ha disposto che "l'abitazione della casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età" e "in ogni caso il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole" -questa Corte ha esteso anche riguardo alla separazione personale dei coniugi l'ammissibilità dell'assegnazione della casa familiare a favore del genitore con il quale convivono figli maggiorenni, non ancora economicamente autosufficienti, argomentando sulla base della identità di ratio rispetto all'assegnazione in caso di affidamento di figli minorenni (ex multis: Cass. 6 aprile 1993, n. 41 08; 17 aprile 1994, n. 2524; 12 gennaio 1995, n. 334; 17 luglio 1997, n. 6557; 11 maggio 1998, a. 4727; 22 aprile 2002, n. 5857; 28 marzo 2003, n. 1753; 18 settembre 2003, n. 13736; 6 luglio 2004, n. 12309).

Tale orientamento è stato ribadito anche dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza 28 ottobre 1995, n. 11297, che pur riguardando specificamente il tema dell'assegnazione della casa coniugale in materia di divorzio, ha ribadito la precedente interpretazione dell'art. 155 comma 4, cod. civ. (in materia di separazione) e la sua ratio costituita dalla tutela dei figli. Tale interpretazione è stata fatta propria anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 27 luglio 1989, n. 454 ed è stata ribadita, più di recente, facendovi riferimento nella motivazione, dalla sentenza delle sezioni unite 21 luglio 2004, n. 13603 e successivamente da Cass. 4 maggio 2005, n. 9253.

Risulta coerente con tale orientamento il principio secondo il quale in materia di separazione (come di divorzio) l'assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall'art. 6 comma 6, della legge n. 898 del 1970 (come sostituito dall'art. 11 della legge n. 74 del 1987), essendo finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell'interesse di questa a permanere nell'ambiente domestico in cui è cresciuta, non può essere disposta a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli artt. 156 cod. civ. e 5 della legge n. 898 del 1970 allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, al soddisfacimento delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati (così, da ultimo, Cass. 6 luglio 2004, n. 12309). Ne consegue che il diverso orientamento talvolta espresso, a giudizio di questo collegio va disatteso.

I principi sopra esposti sono da confermare anche alla stregua dello jus superveniens, costituito dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 che ha aggiunto all'art. 155 cod. civ. - a proposito dei "provvedimenti riguardo ai figli"- l'art. 155 quater. Ciò in quanto la nuova disposizione mostra di volere dare consacrazione legislativa, con il riferimento ali'"interesse dei figli" in genere - e non più all'affidamento dei figli (minori) - proprio al consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, statuendo che "il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli" e che "dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici fra i genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà".

3. II ricorrente fa riferimento, a sostegno del ricorso, alla sentenza n. 822 del 1998 ed alla sentenza n. 2070 del 2000.

Entrambe tali sentenze hanno statuito che, nel caso in cui la casa familiare appartenga ad entrambi i coniugi, manchino figli minorenni o figli maggiorenni non autosufficienti conviventi con uno dei genitori, ed entrambi i coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l'esercizio del potere discrezionale del giudice può trovare giustificazione, unicamente, in presenza di una sostanziale parità di diritti, nel fine di favorire quello dei coniugi che non abbia adeguati redditi propri, allo scopo di consentirgli la conservazione di un tenore di vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio. Ne conseguirebbe che, viceversa, laddove entrambi i coniugi comproprietari della casa familiare abbiano adeguati redditi propri, il giudice deve respingere le domande contrapposte di assegnazione del godimento esclusivo, lasciandone la disciplina agli accordi tra i comproprietari, i quali, ove non riescano a raggiungere un ragionevole assetto dei propri interessi, restano liberi di chiedere la divisione dell'immobile e lo scioglimento della comunione.

Tale orientamento non appare condivisibile alla stregua dei principi sopra esposti, consolidatisi in tema di assegnazione della casa coniugale in regime di separazione (e di divorzio) e recepiti dalla riforma legislativa del 2006. Se, infatti, il previgente art. 155 e il vigente art. 155 quater cod. civ. in tema di separazione, e l'art. 6 della legge sul divorzio, subordinano l'adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi, il titolo che giustifica la disponibilità della casa familiare - sia esso un diritto di godimento o un diritto reale, del quale sia titolare uno dei coniugi o entrambi - appare giuridicamente irrilevante, non facendovi dette norme alcun riferimento. Ne consegue che, in difetto di tale elemento, sia che la casa familiare sia in comproprietà fra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva ad un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l'art. 156, che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell'assegno di mantenimento. In mancanza di una normativa speciale in tema di separazione, la casa familiare in comproprietà è soggetta, infatti, alle norme sulla comunione, al cui re-girne dovrà farsi riferimento per l'uso e la divisione.

La sentenza impugnata ha negato che nel caso di specie si potesse disporre in ordine all'assegnazione della casa coniugale, in quanto di proprietà comune di entrambi i coniugi, non vi erano figli, e per di più le condizioni economiche dei coniugi erano simili. Ne deriva, secondo i principi sopra esposti, che nel caso di specie, mancando i figli (ed essendo la casa coniugale in comproprietà fra i coniugi), essa non poteva essere assegnata con la sentenza che ha pronunciato la separazione a nessuno dei due coniugi per tale assorbente circostanza, restando la relativa situazione disciplinata dalla normativa generale in tema di comunione. Con la conseguenza che la censura formulata con il motivo risulta infondata, non riguardando un punto decisivo della controversia, ma un accertamento di fatto ultroneo.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

Nulla va statuito sulle spese, non avendo la parte intimata depositato difese.

P.Q.M.

La Corte di cassazione

Rigetta il ricorso.

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