In sede di affido condiviso il Giudice può imporre al genitore di di astenersi da qualsiasi condotta di coinvolgimento del figlio nella propria scelta religiosa

L'art. 155 c.c., a seguito della riforma del 2006 che ha introdotto la disciplina dell'affidamento condiviso, prevede che il Giudice fissi la misura ed il modo con cui ciascuno dei genitori contribuisca al mantenimento della prole, fissando le modalità della loro presenza presso ciascun genitore e adottando ogni altro provvedimento ad essi relativo. Ne consegue che, in tal senso, l'Autorità giudiziale adita ha un'ampia discrezionalità, da esercitarsi sempre nell'interesse morale e materiale dei figli. In particolare nel caso in cui i contegni di una parte, conseguenti e correlati alla sua adesione alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova ed inseritisi in un contesto di vita del minore già reso particolarmente delicato dalla separazione dei genitori, possano risultare dannosi per l'equilibrio e la salute psichica del figlio è lecita la limitazione imposta al genitore di astenersi da qualsiasi condotta di coinvolgimento del figlio nella propria scelta religiosa.

Cassazione civile , sez. I, sentenza 12.06.2012 n. 9546



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Con sentenza n. 1254 del 2009, il Tribunale di Prato dichiarava la separazione dei coniugi D.E. e G.C. disponendo l’affidamento del loro figlio minorenne G., nato il 13.10.2003, in via esclusiva al padre e regolamentando le frequentazioni materne.

La E. impugnava la sentenza del Tribunale relativamente allo statuito regime di affidamento al riguardo lamentando essenzialmente che, quale unico elemento di valutazione, era stata utilizzata la sua adesione alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova e che non si era tenuto conto delle conclusioni del ctu, il quale aveva riscontrato limiti nell’esercizio della genitorialità da parte di entrambi i coniugi ed auspicato un affido condiviso, così che ognuno potesse compensare le debolezze dell’altro. L’appellante aggiungeva, tra l’altro, di non avere nulla in contrario al fatto che il piccolo G. partecipasse a tutte le attività scolastiche e ricreative e che frequentasse la comunità cattolica, nonché ancora di essere disponibile a non condurre con sé il figlio alle riunioni nella Sala del Regno.

Con sentenza del 15-31.03.2010, la Corte di appello di Firenze, nel contraddittorio delle parti, disponeva, in riforma della sentenza di primo grado, l’affidamento condiviso del minore, con sua collocazione prevalente presso la madre, nell’abitazione della stessa, e con obbligo della medesima di astenersi da qualsiasi condotta di coinvolgimento del piccolo nella propria scelta religiosa; regolava, inoltre, i tempi di permanenza del bambino presso ciascuno dei genitori, disponendo, tra l’altro, che tutte le festività tradizionali o di significato religioso cattolico (Natale, Pasqua ed i compleanni) fossero trascorse da G. con il padre; poneva a carico di ciascuna delle parti le spese di sostentamento del figlio durante il tempo di permanenza presso di sé, oltre al 50% delle spese straordinarie, nonché a carico del C. un assegno di mantenimento in favore del minore di € 200,00 mensili, annualmente rivalutabile e decorrente dal deposito della sentenza d’appello, compensando, infine, le spese del giudizio.

La Corte territoriale osservava e riteneva:

- che l’individuazione della soluzione di affidamento più consona all’interesse del minore, non poteva prescindere dai condivisi esiti della consulenza tecnica d’ufficio esperita in primo grado, da cui era anche emerso che, per ragioni diverse, entrambe le parti erano inadeguate al ruolo genitoriale

- che fonte di grande sofferenza per il piccolo nonché estremamente pregiudizievole per il suo equilibrio psichico erano le continue espressioni pesantemente offensive, profferite in sua presenza dal padre nei riguardi della madre

- che il C. non riusciva a sostenere una differenziazione tra sé ed il bambino, così rischiando di pregiudicarne il percorso di crescita e distacco, mentre l’E. non si era resa conto delle conseguenze e dei disagi provocati al figlio in seguito alla sua scelta religiosa, che l’aveva certamente confortata nella gestione della crisi matrimoniale, ma che aveva determinato un indubbio stravolgimento dello stile di vita suo e del bambino, le cui ripercussioni su quest’ultimo aveva sottovalutato

- che sebbene la coppia avesse contratto matrimonio con rito civile, il loro figlio era stato battezzato secondo il rito cattolico e, dunque, doveva desumersi che la scelta concorde dei genitori era stata quella di impartire al bambino l’educazione cattolica, tanto che lo stesso era vissuto fino alla separazione dei genitori in un contesto sociale che tale credo religioso presupponeva, per poi invece trovarsi improvvisamente nell’impossibilità di condividere con i compagni modalità di vita fino a quel momento comuni, di celebrare ricorrenze importanti quali compleanni, feste natalizie etc.ra, per di più facendosi carico, a seguito degli insegnamenti materni e delle altre figure di riferimento, dell’angoscia di riuscire ad arrivare al Giudizio senza peccato per poter rinascere nel nuovo regno e di pensare il padre escluso da questa possibilità di salvezza

- che, in particolare, secondo il ctu, nonostante il divieto di far frequentare al piccolo la comunità dei Testimoni di Geova, la madre non si era dimostrata sufficientemente protettiva, sia pure in piena buona fede, non riconoscendo il danno per il bambino, non aveva compreso che il piccolo non era pronto ad un cambiamento così radicale proprio in un momento in cui già gli era stato richiesto di affrontare un evento doloroso quale la separazione dei genitori; che per un bimbo di 4-5 armi il Natale non assumeva un significato religioso, ma rappresentava, così come la festa di compleanno, un momento di intima comunione familiare, pertanto la celebrazione di tali ricorrenze costituiva per G. il segno della continuità con il suo passato e con il contesto familiare non più esistente; che un indottrinamento precoce ed intransigente, a qualunque fede religiosa si facesse riferimento, poteva risultare gravoso per una mente in fase di evoluzione, oltre che controproducente, derivandone il rischio di una connotazione della figura divina in termini solo persecutori e punitivi, fonte di ansia e angoscia anziché di rassicurazione

- che se da un lato emergevano rilevanti carenze di idoneità educativa da parte di entrambi i genitori, dall’altra neppure sussistevano elementi che facessero ritenere uno dei due più e capace o maggiormente in grado dì esercitare in modo esclusivo la delicata funzione educativa

- che relativamente all’appellante nessuna prova era emersa circa una pretesa condizione patologica e doveva aggiungersi che, una volta chiarito e accettato che la sua scelta religiosa non poteva coinvolgere il figlio per tutte le ragioni già evidenziata dal ctu - che prescindevano da qualsiasi giudizio di valore ed afferivano esclusivamente all’immaturità del piccolo e conseguente sua incapacità di assumere, dopo avere vissuto i primi anni della sua vita inserito in uno specifico contesto familiare e sociale, una diversa scelta confessionale in modo libero, consapevole e, soprattutto, sereno e rassicurante (come per qualsiasi professione di fede avrebbe dovuto essere) - non si ravvisavano elementi e circostanze di tale gravità da renderla inidonea a svolgere il ruolo genitoriale, dato anche che la stessa sembrava essersi resa finalmente conto del pregiudizio arrecato al bambino con il coinvolgerlo nelle sue scelte religiose ed aveva dichiarato ampia disponibilità a non ostacolare lo stile di vita, le frequentazioni scolastiche ed eventualmente anche dell’ambiente cattolico, che gli erano proprie prima della separazione dei genitori

- che in conclusione non sussistevano le condizioni legittimanti una deroga al regime prioritario dell’affidamento condiviso, ed anzi le rispettive lacune delle parti potevano trovare una compensazione nel segno del comune interesse a che il figlio ricevesse un’educazione il più possibile armoniosa e costruttiva, nel rispetto della diversità di idee, personalità, opinioni e convinzioni religiose dei genitori

- che relativamente alla scelta del genitore collocatario appariva soluzione adeguata quella di fare rimanere il minore a vivere nella casa dove aveva trascorso l’infanzia e dove abitava la madre, temuto anche conto del forte legame fra i due e dell’inutile sofferenza che sarebbe derivata al bambino dall’allontanamento dal suo ambiente familiare e dal distacco dalla madre; ma quest’ultima, da parte sua, doveva astenersi, come peraltro si era già impegnata a fare, da qualsiasi comportamento che coinvolgesse il minore nelle sue scelte religiose, così da garantire al bambino lo stile di vita tenuto fino al momento della separazione e scongiurare sensazioni di confusione, disorientamento e angoscia rilevate dal consulente tecnico

- che il possibile conflitto tra il diritto dei genitori ad educare il minore secondo il proprio orientamento religioso e confessionale e il diritto autonomo del minore, sia pure considerato quale soggetto in evoluzione, al rispetto delle proprie idee in formazione, e quindi della propria libertà di indirizzo religioso, andava risolto, anche alla luce della normativa sovranazionale e dell’ordinamento giuridico italiano, nel senso che, fino a quando il minore non avesse raggiunto un’autonoma capacità di discernimento in campo religioso, doveva riconoscersi in linea generale ai genitori la massima libertà nell’indirizzare la prole minore verso la propria religione, ma in caso di dissidio sul modello educativo da adottare, com’era nella fattispecie, unico criterio da privilegiare doveva essere quello dell’interesse del minore, dovendo i principi generali di libertà e di parità religiosa tra i genitori trovare un limite nella tutela del minore e nella necessità/interesse di evitargli ogni possibile pregiudizio.

Avverso questa sentenza l’E. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo e notificato al C., che non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

A sostegno del ricorso l’E. denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 1° comma, 19, 30 Cost; 1, 9 e 14 della Convenzione dei Diritti dell’uomo di Strasburgo; art. 6, 2° comma del Trattato UE; artt. 147, 155 ss c.c., in relazione all’art. 111 Cost e 360 n. 3 c.p.c.”.

Relativamente allo statuito regime di affidamento condiviso del figlio delle parti, la ricorrente censura soltanto l’imposto obbligo di astenersi da qualsiasi condotta di coinvolgimento del minore nella propria scelta religiosa. Sostiene che il giudice non possa, altrimenti incorrendo nella violazione delle rubricate disposizioni, imporre precisi limiti ai contenuti del suo rapporto con il figlio ed alle forme della loro comunicazione ed interazione, comprimendo le prerogative materne in punto d’istruzione ed educazione della prole, discriminandola rispetto al padre (cattolico o agnostico), in ragione della sua adesione a diversa confessione religiosa, nella specie dei Testimoni di Geova, e limitando il suo diritto di professare liberamente tale sua fede in presenza del minore che prevalentemente convive con lei.

Il ricorso non merita favorevole apprezzamento.

L’art. 155 cod.civ., in, tema di provvedimenti riguardo ai figli nella separazione personale dei coniugi, consente al giudice di fissare le modalità della loro presenza presso ciascun genitore e di adottare ogni altro provvedimento ad essi relativo, attenendosi al criterio fondamentale rappresentato dal superiore interesse della prole che assume rilievo sistematico centrale nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 della Costituzione. L’esercizio in concreto di tale potere, dunque, deve costituire espressione di conveniente protezione (art. 31, comma 2 Cost.) del preminente diritto dei figli alla salute e ad una crescita serena ed equilibrata e può assumere anche profili contenitivi dei rubricati diritti e libertà fondamentali individuali, ove le relative esteriorizzazioni determinino conseguenze pregiudizievoli per la prole che vi presenzi, compromettendone la salute psico-fisica e lo sviluppo; tali conseguenze, infatti, oltre a legittimare le previste limitazioni ai richiamati diritti e libertà fondamentali contemplati in testi sovranazionali, implicano in ambito nazionale il non consentito superamento dei limiti di compatibilità con i pari diritti e libertà altrui e con i concorrenti doveri di genitore fissati nell’art 30, primo comma della Costituzione e nell’art. 147 del codice civile.

Nella specie, l’avversata limitazione appare, dunque, ineccepibilmente aderente al dettato normativo, avendo i giudici d’appello assunto a parametro di riferimento l’interesse preminente del minore, interesse che, all’esito dell’insindacabile valutazione discrezionale delle risultanze istruttorie, sorretta da puntuale ed adeguato riscontro argomentativo, hanno ritenuto pregiudicato non già per loro soggettivi pregiudizi religiosi o per i connotati propri del movimento dei Testimoni di Geova, ma per gli effetti, specificamente evidenziati, dannosi per l’equilibrio e la salute psichica del figlio delle parti, ancora in tenera età, indotti dai contegni materni conseguenti e correlati all’adesione a tale confessione religiosa ed inseritisi in un contesto di vita del minore già reso particolarmente delicato dalla separazione dei genitori.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Non deve statuirsi sulle spese del giudizio di legittimità, atteso il relativo esito ed il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 52, comma del D.Lgs n. 196 del 2003, in caso di diffusione della presente sentenza si devono omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

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