Ostentare la propria infedeltà con il coniuge intregra il reato di maltrattamenti in famiglia

L'infedeltà ostentata rende certa l'esistenza di una condotta dell'imputato reiteratamente e abitualmente prevaricatrice, tendente a umiliare e sottoporre la congiunta a sofferenze fisiche e morali, così da renderle penosa l'esistenza. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che con sentenza del 28 settembre 2009, n. 38125 ha affermato che “correttamente i giudici del merito hanno ritenuto integrato il reato in esame dalla «continua serie di insulti, prepotenze, meschine cattiverie», tra le quali l’infedeltà ostentata, perpetrata dal marito ai danni della moglie”, ritenendo, altresì, attendibile la versione fornita dalla moglie (in primo grado la sua versione dei fatti non era stata ritenuta credibile) che "non aveva manifestato alcuna animosità nei confronti del marito tanto che non aveva avanzato alcuna pretesa risarcitoria.



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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SERPICO Francesco - Presidente

Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere

Dott. COLLA Giorgio - Consigliere

Dott. CONTI Giovanni - Consigliere

Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PA. Al. , n. a (OMESSO);

avverso la sentenza in data 14 gennaio 2009 della Corte di appello di Milano;

Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. CONTI Giovanni;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. D'ANGELO Giovanni, che ha concluso per la inammissibilita' del ricorso;

Udito per il ricorrente l'avv. DE ANGELIS Roberto, in sostituzione dell'avv. Grassotti Giuseppe, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

FATTO E DIRITTO

Con sentenza in data 15 ottobre 2004, il Tribunale di Como assolveva, per insussistenza del fatto, PA.Al. dal reato di cui all'articolo 572 c.p. in danno della convivente Vi.Ma. (capo A; in (OMESSO)), condannandolo invece alla pena di 1.500,00 euro di multa per i reati di lesioni personali volontarie (capo B) e ingiurie (capo C), commessi in (OMESSO) in epoca anteriore e prossima al (OMESSO).

A seguito di impugnazione del pubblico ministero, con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'imputato colpevole anche del reato di maltrattamenti in famiglia di cui al capo A e, ritenuta la continuazione tra tutti i reati, con l'aggravante di cui all'articolo 61 c.p., n. 2, rideterminava la pena in anni due e mesi sei di reclusione.

Osservava la Corte di appello che la responsabilita' penale dell'imputato anche per il reato di maltrattamenti in danno della convivente era dimostrata in primo luogo dalla deposizione di quest'ultima, che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non poteva essere considerata "confusa", avendo la stessa dichiarato che, nel corso della sofferta convivenza con il Pa. , essa era stata oggetto di ricorrenti vessazioni, estrinsecatesi in frequenti insulti, percosse e umiliazioni, fino ad essere stata estromessa dall'abitazione familiare per oltre un anno, avendo approfittato il convivente di un suo ricovero ospedaliero per impedirle di fare ritorno in casa, della quale essa era comproprietaria.

Tale deposizione trovava del resto riscontro in quelle dei figli della donna, Ci. , An. e A. , nonche' nei certificati medici attestanti le lesioni personali causatele dal convivente.

Un simile quadro probatorio, ad avviso della Corte di appello, rendeva certi del fatto che l'imputato aveva volontariamente instaurato in danno della compagna un sistema di vita che procurava ad essa abituali sofferenze morali e materiali.

Ricorre per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore avv. Grassotti Giuseppe, che denuncia, con un unico motivo, il vizio di motivazione relativamente all'affermazione di responsabilita' penale per il reato di cui all'articolo 572 c.p., osservando che la Corte di appello non aveva dato conto del percorso logico che l'aveva condotta a ribaltare la valutazione del primo giudice, che aveva ritenuto la deposizione della persona offesa confusa e priva di elementi spazio - temporali, nonche' sfornita di riscontri, fatta eccezione di due soli episodi per i quali era stata accertata la causazione di lesioni personali a carico della Vi. .

Ne' tali carenze erano state superate attraverso la valutazione delle deposizioni dei figli della persona offesa, anch'esse, come puntualizzato dal Tribunale, prive di riferimenti temporali e caratterizzate da imprecisioni e lacunosita'.

Il quadro complessivo, dunque, dava ragione al convincimento del primo giudice secondo cui non vi era alcuna prova della correlazione delle condotte denunciate nell'ambito di una volonta' unitaria ed abituale dell'imputato di sottoporre in modo continuativo la convivente a vessazioni e umiliazioni o a sofferenze fisiche abituali.

Osserva la Corte che il ricorso e' infondato.

Non sembra affatto che la Corte di appello, nell'accogliere l'impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione dal reato di cui all'articolo 572, non abbia dato puntuale conto delle ragioni per le quali, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, le risultanze processuali offrissero la dimostrazione della responsabilita' penale dell'imputato.

I primi giudici avevano ritenuto confuse e prive di riferimenti temporali le dichiarazioni della moglie dell'imputato, addebitanti sostanzialmente al marito atteggiamenti offensivi e inurbani, oltre quanto relativo a due episodi di percosse causative di lesioni personali, che di per se' non davano la prova di una condotta abitualmente diretta a procurare sofferenze fisiche o morali alla persona offesa.

Per contro, la Corte di appello ha osservato che la continua serie di insulti, prepotenze, meschine cattiverie, infedelta' ostentate, collegata agli accertati atti di violenza, favoriti anche dall'abuso di alcool da parte del Pa. , nonche' alla assurda inibizione alla Vi. a fare rientro in casa dopo il tempo che essa aveva trascorso in ospedale, rendevano certi dell'esistenza di una condotta dell'imputato reiteratamente e abitualmente prevaricatrice, tendente a umiliare e sottoporre la congiunta a sofferenze fisiche e morali, cosi' da renderle penosa l'esistenza.

Tale convincimento e' stato ragionevolmente basato in primo luogo sulla testimonianza della Vi. , che, al contrario di quanto ritenuto dal Tribunale, non poteva considerarsi inattendibile per la semplice mancanza di precisi riferimenti temporali per ogni episodio narrato, tanto piu' che la teste aveva riferito di una continua condotta sopraffattrice del marito, di per se' difficilmente scomponibile nella sua precisa collocazione cronologica.

Dal punto di vista della credibilita' soggettiva, poi, e' stato rimarcato che la teste non aveva manifestato alcuna animosita' nei confronti del marito, tanto che non aveva avanzato alcuna pretesa risarcitoria.

D'altro canto il racconto della Vi. aveva ricevuto plurime conferme; sia documentali, attraverso l'acquisizione dei certificati medici e degli atti della causa che essa aveva dovuto avviare per ottenere di potere fare rientro nella casa, della quale era comproprietaria; sia testimoniali, atteso che i figli della donna, Ci. e An. , avevano confermato la condotta abitualmente violenta tenuta dall'imputato nei confronti della madre, sottoposta a continue ingiurie e percosse e perfino inibita a fere rientro in casa dopo il suo ricovero ospedaliere.

Non vi e' dubbio che tale quadro probatorio, rappresentato con motivazione adeguata e priva di carenze o vizi logici, rappresenti quella situazione di abitualita' di sofferenze fisiche e morali, che, determinando nel soggetto passivo una condizione di vita, costantemente dolorosa e avvilente, integra appieno il reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all'articolo 572 c.p., di cui sono stati accuratamente evidenziati dalla Corte di merito tutti gli elementi costitutivi sul piano sia oggettivo che soggettivo.

Al rigetto del ricorso consegue ex articolo 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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